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Quasi nulla

Accade talvolta come una visione, nettare del fruttato sapere, repentina e radiosa rischiari parte di quel nebuloso quadro filosofico che ogni individuo faticosamente si costruisce lungo il cammino della propria esistenza.

Altre volte tale visione è crittografata nella realtà: è lì da sempre, come la newtoniana e proverbiale mela, come una rugginosa auto d’epoca sepolta sotto un cumulo di cadaveri ferrosi al cimitero della rottamazione, ma è visibile solo al giusto occhio, come a dirla col detto zen: “Il Maestro arriva quando l’allievo è pronto”, cioè quando, per affinità contemporanee di percorsi esperienziali, di sensibilità, di conoscenze, si realizza, in un certo senso, una vera e propria micro-illuminazione.

Quasi nulla, di Giovanna Fozzer, ha generato queste riflessioni già a partire dal titolo e dalla prima frase della breve, ma intensa prefazione, a firma di Francesco Giuntini: “Che potrebbe rimanere, a chi provasse a cancellare dall’esperienza il rumore di fondo, l’insignificante, l’inutile ?”.

Rumore di fondo. Parola chiave connessa alle teorie orbitanti intorno al concetto di suono, in opposizione al suo scapestrato fratello, rumore appunto, intesi come variazioni periodiche o aperiodiche di un’oscillazione vibratoria che produce un effetto acustico sull’orecchio, generando una percezione gradevole o sgradevole nel soggetto uditore.

Così metaforicamente nella vita, volendo scindere o setacciare i momenti più alti (suoni), dai ciottoli della quotidianità spesa nella tensione per la sopravvivenza (rumori).

Questo concetto viene sottilmente veicolato lungo l’intero corso della silloge poetica, con linguaggio raffinato ed equilibrato, sia nella misura, sia nel ritmo dei pensieri e delle forme lessicali.

Come giustamente fatto osservare dall’acuto prefatore, la presenza dell’essere umano in questi versi è sempre marginale e afasica, a volerne forse ricordare lo status di creatura tra le altre, per fornirne la reale dimensione rispetto alla rappresentazione gigantropocentrica che imperversa e domina nell’autoreferenzialità del proprio inventore che misura se stesso con un metro di propria invenzione …

Gli spunti più interessanti vanno rintracciati in una sorta di ipersenso indagatorio che vuole travalicare il concetto di rappresentazione, di là o piuttosto a latere di un realismo, così come pure di un surrealismo, andando a cercare di catturare la “verditudine del prato”, così come direbbe un discepolo di Pico della Mirandola.

Così l’esempio tratto dalla lirica Fine agosto: “Dire il colore delle rocce | che attimo per attimo svaria | al tramonto”, non è una rinuncia alla metafora, ma la consapevolezza della cangianza incatturabile, se non nell’evidenziatura del modo e del movimento in sé, piuttosto che l’arte artificiosa del paragone che descrive qualcosa con qualcos’altro, stimolando vincoli associativi e percettivi nella speranza di evocare la comprensione profonda di una certa realtà.

La sensibilità della Fozzer si incontra con piacevole e rassicurante ricorsività, specie nelle descrizioni di particolari inerenti la vita di piccoli animali (spesso domestici felini o piccoli e variegati volatili), eventi tanto insignificanti per dimensione temporale o ecologica (nel senso dell’impatto che possono avere rispetto all’ecosistema Terra – galassia – universo), quanto invece pregevoli e colmi di senso ed evocativi di sensazioni, per il lettore attento.

Così in Giovane lucertola: “Piccolissima perfetta | miniatura della tua specie”, “Regale sottilissima porti | la lunga coda, che finisce in refe”,”Ti batte visibilmente il cuore | ma – pare - | ancora senza timore” o in Giochi, in cui il gatto Biondino realizza un’unione spirituale con il tramonto che lo abbraccia, un’unione fondata sul minimo comun denominatore del mantello (felino, di luce): “Con la grazia | di libertà e natura | ti arrampichi sul nespolo | e il sole calante coglie il tuo | mantello lucente | e dorato lo amalgama a sé”.

La poetessa è attenta ai meccanismi che regolano la vita dell’anima (prima che quella di un corpo necessario) e l’interazione con gli altri, ci parla di quelle “ondate della gioia” che “si accavallano dentro, si mischiano, | lievito di consolazione | espandono la persona, fanno grande il cuore”.

Gli animali sono anche punto di arrivo, e non di partenza, aspirazione anche estetica, cui far tendere alcune umane manifestazioni, quali per esempio un movimento di canoa sul Lungarno: “Il lungo becco sottile (alzavola?) | il fuso breve del corpo | aerodinamico | e ai lati grandi ali | dal ritmo potente | Ali levate i remi, negli scalmi | tridimensionali del quattro senza”.

Essi divengono progressivamente oggetto di malinconiche riflessioni esistenzialistiche e filosofiche, l’autrice si prende a cuore l’interrogativo animistico (che diviene tensione religiosa) dell’esistenza di questi esseri viventi, considerati, forse ingiustamente, nostri fratelli minori, eppure necessitanti anche loro di uno scopo evolutivo che ne giustifichi il cammino vitale, le gioie così come le sofferenze: “Nella stretta aiuola d’erbacce e senza fiori | lungo il muro scrostato, | nel solo breve tratto senza sassi | è rimasta | la tua piccola lunga culla di polvere chiara”, “Il profilo allungato e | magro, di malato, il pelo a zone nere | (quasi una ditata di fuliggine, sul naso!) | del tuo corpo bianco, ti facevano | diverso e speciale. | Anche te ho dovuto perdere, | anche te, come ogni amato | antico o presente. Dove sei ? | Possa tu non aver sofferto, | sia stata la tua morte | subita sparizione, seppur | insepolto, | riposato silenzio”.

Così continuando ritroviamo anche la gazza e il gatto, di cui l’autrice sembra domandarsi se siano consapevoli del proprio ruolo nello schema delle cose: “Presenza tra loro | in evidente disarmonia, entrambe | si dileguano rapidamente, | ma fa tenerezza | questa confidenza delle creature | con la finestra solitaria e silente”, o ancora i passeri, i quali “tra la ghiaia vedono | bianchi chicchi di riso | semi di girasole od altre minuzie commestibili | e accorrono, beccano e | si scambiano pareri, quasi | dandosi affettuosamente di gomito”, o infine ancora la merla, della quale ci dice: “Hai strappato infine un lacerto, | dura fibrosa scorza di palma, che inalberi come un trofeo. | Cauta poi, ma senza vero timore, | ti alzi in volo: già | in cuore hai il nido, la vita futura”.

Non solo gli animali vengono ad assumere una dimensione significativa e fondamentale nell’etica (anche poetica) fozzeriana, ma così pure i vegetali vengono indagati nel loro cammino evolutivo, alla ricerca di uno scopo esistenziale che vada oltre la mera banalità funzionale.

A questo riguardo desta interesse il pensiero espresso in Simbiosi, efficace ed incalzante nella sua progressione: “Scendi la strada tra campi e colli | e la quercia antica, | forma dal tempo squadrata, | presenta il lato della morta corteccia, | rugosa, opaca, frammentata | in costole verticali, | i rami troncati dai venti, rosi | dalle tabe, sfatti | Ma sul lato che guarda a sud altri | rami | dalle foglie invernali pur secche, | hanno viva, liscia, giovane corteccia. | Ti fermi, davanti quasi al mistero, | guardi, accarezzi e vedi: | sale dal terreno, annidato, un querciolo | nuovo, avvolto, protetto dall’antico legno | guasto – quasi cuna verticale – | con lui fuso in simbiosi, | e cresce turgido e forte, suggendo | vita nuova da morte”.

Anche gli oggetti assumono una valenza come di accumulatori di metempsicosi, intendendo con ciò la capacità di racchiudere in sé, così come di evocare, memorie dei propri utilizzatori, quasi che ne contenessero le anime, quasi che ne fossero una sorta di reincarnazione psichica in un corpo statico, così ne Il bicchiere di Giulietta: “Sento nel calice un rimbalzo d’anime, come davanti a cose appartenute a generazioni, passate tra mani di padri e antenati. Senti un affollarsi di vita e affetti, di lontano dolore; senti quasi i gesti di chi prima usò, carezzò e sciupò un mobile od altro oggetto: vissuto, si dice infatti”.

La sensibilità fozzeriana (le idee prima che le forme), è certamente l’aspetto più coinvolgente della sua poesia, più dell’estetica dei suoi versi, che pure svolge la sua funzione con decoro e compostezza, ed unitamente ad alcuni piacevoli apici creativi che ravvivano il percorso tra le pagine, apici versicolari ma anche pittorici e figurativi, concretati nelle splendide ed eleganti raffigurazioni di Sergio Rinaldelli, che inframmezzano le liriche accompagnando il lettore e contribuendo a creare una degna atmosfera.

E’ una sensibilità che pure significa peso esistenziale, per chi con acume percepisce che “la cronaca degli eventi che appassionano il mondo è rimasta vuota di senso e lontana, è quasi nulla” (dalla prefazione), una sensibilità con cui è utile confrontarsi con l’occasione di una buona lettura, alla ricerca di quegli “squarci” che “s’aprono orizzontali”, noi “inteneriti d’innocente celeste | peruginesco”.
Recensione
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