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Ascesa all’Ombelico di Dio
E’ la
volta dell’Ascesa all’Ombelico di Dio” a confermarmi, se ce n’era
bisogno, la capziosa maestria della inconfondibile scrittura scarselliana. Dopo
aver letto, credo, tutte le opere di Scarselli, d’improvviso in questa, che è
opera multiforme di suggestioni e al contempo è anche abiura di precedenti
ipotesi e tesi, m’accorgo come non mai che il meccanismo della scrittura
scarselliana è corroborato dalla molteplicità degli sdoppiamenti e da una
deliberata, ironica e persino sardonica, ambiguità: un appena trattenuto
sghignazzo nel suo onirico divertissement. Di qui la scelta frequente di
immagini di Bosch, che spesso corredano i suoi libri, pregne d’un surreale
delirio saggiamente ragionato, come testimonia anche l’immagine fotografica nel
risvolto di copertina dove Scarselli appare “santo” per gioco, aureolato da un
palmizio!
Ho l’impressione che l’io narrante non sia il burattino alter-ego
mandato a spasso nelle escatologiche esperienze dall’abilissimo burattinaio, ma
il burattinaio stesso che, protetto da un impenetrabile usbergo, nella pagina
muove i fili del povero automa e delle sue arrovellanti indagini, di cui in cuor
suo conosce per filo e per segno dove andranno a parare. Tutto ciò con un
bonario e scettico cinismo ridendosene di sottecchi, ma anche
autosuggestionandosi a tal punto da gonfiare ancor più le sue fantastiche
iperboli. Ecco dunque che Scarselli invia il suo burattino-trastullo con la
favolosa speranza che qualche non calcolato imprevisto creativo stupisca lui
stesso-autore; l’occasione è una serotina passeggiatina di fine giornata in un
bosco nei pressi di casa.
Tutto all’inizio è molto “soft”, siamo nella
cosiddetta ora che volge al desio e – non si sa come – questa tenerezza subisce
di schianto l’inserimento dell’assillo, sempre ritornante nella tematica scarselliana, della brama di vedere Dio, di sorprendere il Creatore nel suo
reale assetto. E’ una costante che nella poematica di Veniero si manifesta
continuamente; persino nelle prime opere di un goloso erotismo di perdizione (Torbidi
amorosi labirinti e Priaposodomomachia) il Protagonista non fa che
cercare Dio, caricato a quel tempo da impositivi trascinanti ormoni. Quella
costante ora si sviluppa negli ultimi poemi sulla falsariga della Commedia
dantesca ma senza esserne parodia; mentre prima il nostro autore era segnato
fortemente dalla riscoperta della poematica medioevale e rinascimentale, ora è
invece intento ad una inconsciamente moderna e duemilistica destrutturazione (si
badi, non distruzione) atta a creare caos in antitesi all’ordinatissima
architettura dell’Alighieri dove Dio era certezza teologale al vertice; così
negli ultimi poemi l’Autore la sostituisce mirabilmente facendo man bassa di
materiale scientifico informatico finché, in Ascesa all’Ombelico di Dio,
s’intrufola nuovamente in un viscere: dopo tanto tempo trascorso dai Torbidi
amorosi Labirinti e dalla Priaposodomomachia il Nostro si dimostra
ancora gran maestro nel rappresentare l’irresistibile ossimoro tra attrazione e
ribrezzo che può esercitare il buio e umido calore, la morbida cedevolezza di un
budello. Dunque avevamo lasciato l’io narrante mandato a spasso dal burattinaio
Veniero nell’ovattata foresta disegnata quasi alla Disney (sia Veniero che
Disney sono due gotici fantasmagorici come il duomo di Milano) ed ecco l’io
narrante impantanarsi nel “tormentone” ingombrante dell’idea di Dio ma, a
seguito della deformazione delle dimensioni (come nei Viaggi di Gulliver
o come in quello angoscioso di Alice nel paese delle meraviglie) diventa
un microscopico viandante davanti ai mastodontici alberi del bosco e agli enormi
fili d’erba; inoltre da un ramo di quelle piante dev’essere caduta l’enorme mela
bacata che mostra l’entrata tonda d’un cunicolo operata da un verme.
L’essere
pensante che s’era fatto minuscolo come Gulliver, sperduto nel pensiero di Dio,
vi entra spensieratamente perché sembra l’entrata d’una discoteca; invece è una
buia risucchiante struttura, una lunga galleria che come in una fiaba-incubo
mostra strani personaggi come il Baco Portinaio e le icone umanamente sacre
della Mamma, dell’amico Bonaccorso, e quella esistenzialmente amorosa della
Super-Gemma, messaggera angelicata e propedeutica ammonitrice, già incontrata
nelle opere precedenti con le funzioni della Beatrice dantesca. E’ una preziosa
soluzione stilistica dell’autore per dibattere gli argomenti con se stesso, è la
Guida che nella fiction epica del libro esamina ad una ad una le ipotesi che più
stanno a cuore agli umani. Ella per esempio spiegherà come Dio esista solo in
quanto luce riflessa dagli uomini, che la rimandano simili a molteplici
frammenti di specchi; intanto il nostro viaggiatore, memore del tunnel con in
fondo la sospirata luce narrata dai reduci del coma profondo, incalza vanamente
e dubitosamente Super-Gemma con le sue domande.
Così, di quesito in quesito, di
dubbio in dubbio, si arriva alla raccapricciante rivelazione che gli esseri
umani conosceranno la verità su Dio solo installandosi per sempre nella viscida
mucosa del cordone ombelicale e nell’utero di Dio creatore e divoratore
cannibale. Ma Egli si nutre della materia umana pervenutagli, ed essi a detta di
Super-Gemma verranno incorporati per l’eternità in quella viscida mucosa.
Tuttavia, dopo pressante dialettica ragionata, l’incubo viene disgregato dal
fortunato apparire d’una microbica fosforescenza che richiamerà il Protagonista
alla realtà. Si riode allora il bucolico belare del ritorno serale delle
pecorelle all’ovile, lo scampanio lontano che invita al vespro, e il salmodiare
dei fedeli che si avviano alla chiesa; ora l’avventuroso protagonista
riconsidera l’accaduto non proprio con rassegnazione, ma Ragione e Scienza in
difetto di grazia e di fede soccorrono con la speranza di un esodo futuribile:
non raggiungeremo il mistero divino né in spirito né in materia ma solo
rigenerati dalla pura ragione; la quale, penso, contenterebbe atei e credenti,
ritenendo questi ultimi che anche la Ragione derivi da Dio. Si riaffaccia così,
benvenuta, la suggestione di elettroniche anime artificiali che salveranno gli
uomini e il mondo.
Scarselli, ateo e assetato di Dio, intenzionalmente o no cultore ed eretico
profanatore – ed in ultima analisi nichilista laico – dà spazio ad ogni sorta di
lettore e di lettura (fuorché alla confessionalità); se beffa c’è, è compiaciuta
e compiacente, tuttavia comporta sottopelle l’intenso coinvolgimento dell’autore
che qui, come di consueto, non dismette la sua veste di biologo e di ludico
amante della scienza. Dalla agognata soluzione scientifica del pervenire a Dio,
il critico e il lettore ricevono, se conoscitori delle ultime opere scarselliane,
la curiosa impressione che Ascesa all’Ombelico di Dio finisca laddove
precedentemente, due libri prima, le anime artificiali con sicurezza ed
esultanza, come in un crescendo di musica bachiana, trionfavano: un tuffo di
ritorno di Veniero, quasi un’autocitazione atta a disinnescare l’incubo tramite
il richiamo alla propria effervescente epifanica creatività?
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Recensione |
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