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Tre poesie

Serse il ciclista

Serse, che fece oltraggio all'Ellesponto
col ponte lungo centomila piedi
e centomila cavalieri e fanti
lo percorsero, facendosi beffe
dei flutti furibondi e del tridente
di Poseidon, scaraventato invano
contro il robusto legno e ferro della
strada eterna, inventata da geometri
ed architetti in sfida a dèi e al buon senso
di matematici e di timonieri
di navi con le vele come ali
e ragazze festose per polene?
Chiede Elena, piegandosi a guardare
il nome sulla lapide, le lettere
consunte, quasi mute, forse pensa
al suo, legato a quello stesso mare
e a uguali guerre. Osservo anch'io, a fatica
riconosco il fratello dell'eroe,
quello minore, sgraziato, un po' storto,
triste, col capo chino sempre, quello
che pedalava sempre in gruppo, mai
uno scatto, e neppure mai il sogno
di una fuga. Dico alla dottoranda:

– Un altro nome Serse, esagerato,
anzi grottesco, chi sa come giunto
a essere pronunciato in un paese
banale nella piana che dechina
da Marcabò al mare. Ma una volta
fu primo, era già in vista del traguardo,
ebbro di applausi della folla e grida
del suo nome, e Zeus proprio a quel momento
fece precipitare fino al fondo
la sua bilancia, di lui, che aveva già
trentatré anni; e una rotaia, allora
la ruota che si storse e il sasso –
Non ascolta più, distratta dal vento
fatto oscuro e dal tuono che veloce
si approssima. – Che sciocchezza i nomi
di lontanissime vicende, strane,
impossibili. Andiamo via, lasciamo
che i morti seppelliscano i morti,
i loro e gli altri: Mi farò la doccia,
cospargerò la pelle di profumi
d'Arabia, per la cena metterò
un abito leggero, molto breve,
berrò con allegria il vino rosso,
nel calice inzuppando la focaccia
dorata;. a notte, un po' ebbra ma prudente,
racconterò i miei viaggi sulla Luna
e tutta la mia vita del futuro
che ho scritto nella tesi, finta e vera, l'enorme
rumore, grida, canti,
confusioni di danze, infine il folle
che, balbettando, inviterà ad andare

Costanza, l'attrice

L'ha data proprio a tutti (ed anche a tutte)
per quindici anni almeno, per gli States
e per l'Europa con le statue ancora
e con le chiese infrante, lei, la sola
trionfalmente nuda negli alberghi
miserandi o dorati, fra i cespugli
delle periferie macilente, in riva
di anonimi torrenti, in mezzo ai giunchi
da cui, mentre scopava, d'improvviso
si levava sereno il flauto (oh, ora invento
per addolcire la vicenda sempre
identica, monotona, i lamenti
compiaciuti, l'agitarsi dei ginocchi,
il volto sfatto dal piacere rapito),
e più lontano il canto di un pastore;
ma anche nel gabinetto di ministro
e (molto più spesso) in quello merdoso
di aride stazioni di provincia.

Abbiate un po’ pietà, o vecchi candidi
che state tutto il giorno a commentare
la vita d'altri nel bar tranquillo
che hanno aperto diecimila anni fa
sopra le mura d'Ilio. È morta ch'era
ancora tanto giovane, chi dice
di un cancro, chi di cento pillole
per più sicuri sogni nel mattino
o almeno per il sonno della pace
dell'anima. Sul comodino dicono
che avesse la gattina di péluche
dell’infanzia e un libro, intonso, quello
di uno scrittore non ricordo più
di quale parte del Cielo. Al funerale
non andò nessuno. Solo una rosa
mandò un regista, giunse un telegramma,
ma era incomprensibile, in una lingua
ignota e per di più tutto macchiato,
come se fosse venuto da un enorme
futuro. Tutto questo ha un senso? A me
non tocca mai rispondere, per mia
fortuna. Io scrivo, cioè ricordo,
non altro, ma (alla cameriera timida
chiese un bicchiere di barbera e il conto,
e non si alza, continua a contemplare
il Belbo esiguo, le colline ormai
quasi abbrunate). È una sera antica,
di quei tempi finiti, che nessuno...
(una colomba scura si posò
sul tavolino, incominciò a beccare
le briciole di vita, a lungo; infine
volò verso occidente, dove c'era
l'eco rossa di nuvole serene).

La pastora

– Una pastora giovane: nel prato
scosceso, al centro, con la verga in pugno,
e tutti, in giro, gli animali. – Pecore,
capre, giovenche candide e pezzate?

– No: porci e scrofe, ed è ella succinta
per non lordarsi in tanto brago e puzza,
ed è pure costretta a intervenire
spesso fra strilli e grugniti a dividere,
a sospingere via i più riottosi,
a costringerli infine a incolonnarsi
verso la conca d'acqua fonda, buia,
per poi entrare mondi nello stabbio.

– Era la povertà a farle fare
quell'infame lavoro? Carestia
nel suo paese dell'Oriente o guerre
con i guerrieri che, negli armistizi,
con lacci, funi e gabbie vanno in; scuole
o per boschi alla caccia di ragazze
vergini per portarle nei teatri
a farle danzare nude davanti
ai turisti e, poi, quando sono esauste,
frustarle ancora per domarle e in templi
e bar infine consumarle, e questa
fosse qui la meno aspra di speranza?

– E se l'unica fosse che volesse
tentare ancora la trasformazione
opposta a quella che la dea o l'angelo
che fu di luce fece, e prima o poi
le bestie immonde uscissero dall'acqua
lentamente assumendo volti,
voci pur rauche e errate, mani tese?

Stava seduta sulla panca, dopo
aver chiuso la porta, stanca. Aveva
accanto pane, un pezzo di formaggio,
un bicchiere di vino. Contemplava
il tramonto scarlatto di framezzo
gli elci, le querce fruttifere, i pini.
Domani si sveglierà presto, e l'alba
pazientemente interrogherà mentre
si verserà la grande tazza colma
di latte.


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