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A distanza di vari anni dalla pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, L’anima segreta [1], Raffaella Bettiol ha dato alla luce recentemente la sua seconda raccolta, Ipotesi d’amore, che sin dal titolo vuole mettere in rilievo l’aspetto congetturale, dunque presunto, incerto che un sentimento complesso come l’amore non può non sottintendere.

L’opera è suddivisa in sette sezioni, intitolate rispettivamente Familiari, Intimità, Colloqui, Eterno Femminino, Umanità Sofferta, Luoghi, Ancora. La prima, Familiari, raggruppa il maggior numero di componimenti, ossia venti, a loro volta suddivisi in otto sottosezioni, che rappresentano altrettante tappe importanti, datate, nell’esistenza dei genitori e dell’autrice. Per la materia che tratta riveste, dunque, grande interesse, specie ai fini d’una migliore conoscenza della poetessa stessa e, in ultima analisi, della sua poesia, per cui le si è dedicata particolare attenzione.

La prima sottosezione, intitolata Un giorno ad Urbino (1933-1936), è esplicitamente dedicata ai genitori, di cui si delineano aspetti della vicenda amorosa, intrecciati a episodi di vita e a caratteristiche personali, talvolta anche minori, quali ad es. la tendenza della madre a procedere sveltamente, addiritura a correre (“corri felice”, II, v.2, p.9, sintagma iterato al v.19; si veda anche III, ove, riferendosi al padre, si annota: “Insegui con lo sguardo | quella ragazza bruna che corre”, vv. 1-2, p.10), mentre si sottolinea il “passo stento” del padre (Un giorno ad Urbino, v.14, p.7; III, v.4, p.10).

Già nel componimento d’avvio testè citato emerge un elemento peculiare della raccolta: la propensione alla policromia (“Non so quale stagione fosse | se del glicine | o del rosso castagno”, vv. 8-10, p.7; l’immagine del glicine ritorna in I, v. 10, p.8, ne L’erba morella, dedicata al padre, in cui si allude alla primavera che “infiamma il glicine”, v.3, p.25 e ancora in Forse un angelo, “Di azzurro glicine l’aria del mattino”, v.1, p.49). Detta propensione si manifesta in più luoghi, ad es. nella terza sottosezione, La guerra (Gradisca d’Isonzo 1943-1945): “Arrischia l’inverno | il verde della scogliera | tra il rosso delle bacche | e l’azzurro assedio | del mare” (vv.4-8, p.17) e ne L’innocenza di Dio: “L’autunno silenzioso | rosso di rose tardive” (vv.4-5, p.70 e passim). Anche gli effetti di luce hanno un grande rilievo nell’opera: “si è appena acceso il giorno | incendia l’aria il mattino” (II, vv.3-4, p.9), “luminosa Urbino” (ivi, v. 22), “riposa sotto la luce | il bel Palazzo” (III, vv. 14-15, p.10 e passim).

Dopo i momenti di felicità nella vita di coppia dei genitori, più volte messi in rilievo (“Sorridenti scendete | lungo via Raffaello, Un giorno ad Urbino, vv.1-2, p.7; “sorridente, madre, gli tendi la mano”, I, v.8, p.8; “corri felice”, vedi sopra), nel quinto ed ultimo componimento, rivolto al padre, della prima sottosezione, affiora un momento di crisi, “dal cuore | una pena nuova, | il ritmo indissolubile | d’un amore arduo | forse amaro” (vv. 13-17, p.12). Seguono versi che sembrano invitare all’oblio, suggerito dal tempo ormai passato (“Sono trascorse le vicende | delle persone | che abbiamo amato”, ivi, vv.18-20), ma nella poesia successiva, la prima della sottosezione Una gelida bora (Trieste, 1938-1943), la poetessa pare far riferimento alla stessa pena, allorchè annota: “…madre, | improvvisa volgi a un’ombra strana | che s’indovina | e inquieta il tuo cammino” (vv.5-8, p.13) e ancor di più, nel componimento seguente, sempre rivolto alla madre, in cui più sentita appare la partecipazione della poetessa allo sconforto materno: “Una strana inquietudine ti assale | tra i fiori un biglietto |  per il caro professore | e un nome di donna… | Quelle rose non sono appassite |  … | non dissolvi l’ansia di quel dono, | solo un pegno d’amore chiedi |  alla tua solitudine” (vv.5-8, 17 e 19-21, p.14).

In Un fascio di luce (Venezia febbraio 1952), quinta sottosezione, si annuncia, dopo la nascita di tre figli, l’arrivo del quarto, cioè della stessa autrice, che “…preme | alla vita” (vv.13-14, p. 21). Su questo avvenimento si fanno, negli ultimi componimenti della sezione, osservazioni e commenti degni di nota: al padre la poetessa rivolge queste parole, presumibilmente riferendosi al giorno della nascita, “tra breve mi stringerai, | figlia nata forse per caso” (II, vv. 9-10, p. 23). Nell’ultimo verso si coglie l’amarezza di chi sente un forte bisogno di amore e di accettazione e che solo una nascita voluta e consapevole può soddisfare. Nell’ultima poesia della sezione Familiari, Scuri i capelli, dedicata alla madre, dopo i due versi “mi tieni in braccio | fiera di questa tarda maternità” (vv.4-5, p.26), improntati a una sorta di posteriore compiacimento, tornano alla memoria momenti di sofferenza: “In soffitta cercavo sempre altri sogni | e giochi, tu eri lontana | come assente | in un altrove che non so. | Inutilmente ti chiamavo | fragile cristallo la mia infanzia” (ivi, vv.9-14). Questi versi dolorosi trovano riscontro nella poesia della prima raccolta, intitolata Una figlia alla madre, segno che il risentimento che li ha originati perdura nel tempo ed ha lasciato profonda traccia nell’animo di chi scrive: “Avrei voluto soltanto parlarti | …Mai le tue labbra risposero | nel fragore mutevole degli anni, | e pure eri donna, come ora io sono, | … | ora non ho più domande da farti | ché già i tuoi silenzi | disserrano la mia ansia” (vv.1, 6-8, 15-17, p.26). E poi l’inattesa conclusione: “E pure vorrei ancora parlarti | ora che nuda la tua anima | nel sole morente dei miei giorni | quasi incontaminata dalla morte | viva si disvela nel pianto | della mia stessa carne” (ivi, vv.18-23). Lo stesso tentativo di recupero della figura materna si ritrova nella chiusa di Scuri i capelli, con un “Eppure” che di nuovo funge da esordio: “Eppure ora ti rivedo | stringermi tra le braccia | in una quieta felicità, | dietro a noi scorrere passanti” (p.26). L’espressione di “quieta felicità” in cui è colta la madre sembra volerci suggerire che quel recupero, tenacemente perseguito nel corso degli anni, si è potuto, alla fine, realizzare.

Tra i temi ricorrenti nella raccolta si è già indicato quello dell’ “altrove”, “un altrove nel tempo e nello spazio” [2], come si è giustamente puntualizzato e che, essendo vago ed indefinito, assume spesso contorni negativi ed inquietanti. E’ presente nel V componimento della sottosezione Un giorno ad Urbino, ove, in tono venato di timore, si dice al padre “altrove ora porti la tua vita” (v.12, p.12) e subito dopo, significativamente, si allude ad “una pena nuova” cui già si è fatto cenno; ritorna nell’ultimo verso de L’erba morella (p.25), ma assume particolare significato nella già menzionata Scuri i capelli, ove l’“altrove che non so” della madre, “…lontana | come assente”, determina l’angoscia della figlia, che inutilmente la invoca. Ad una variante dello stesso tema si ispira il componimento Notturno, primo della sezione Intimità, il più lungo dell’intera raccolta ed uno dei più sentiti e commossi, dedicato ad una amica poetessa scomparsa. Qui l’“altrove” è rappresentato dal viaggio ideale, di doloroso addio, che le due amiche compiono insieme, nel corso del quale si adombra un agognato, ma ovviamente impossibile, rapporto con l’amica morta (“Sento che ancora mi cerchi | e sorridi”, p.31), cui si rivolgono pressanti inviti e irrelizzabili desideri (“Parlami ancora”, ivi; “Vorrei che tu venissi | lungo quel sentiero | perso nella baia”, p.32; “Dammi la mano”, verso che sembra echeggiare Antonio Machado, ivi; “Seguimi”, p.33; “seguimi | aiutami a cercare un varco antico”, p.34; “Non allontanarti”, ivi) . Un icastico verso pone fine al lungo componimento: “Difficile dirsi addio” (p. 37). A proposito del cenno a Machado, va detto che non desta meraviglia il fatto di reperire possibili reminiscenze della letteratura spagnola nella lirica di Raffaella Bettiol, assidua lettrice di poeti che a quella letteratura appartengono. I versi che precedono, ad esempio, ove la poetessa sollecita l’amica scomparsa a farsi in qualche modo viva, fissandole quasi un appuntamento “lungo quel sentiero | perso nella baia” possono ricordare quelli in cui un analogo invito è rivolto dal poeta Miguel Hernández, nella bellissima Elegía, all’amico Ramón Sijé, scomparso repentinamente. Del resto è sufficiente scorrere Ipotesid’amore per cogliere, nei vari componimenti, riferimenti continui al mondo ispanico in generale, e dunque anche latino-americano, verso il quale Raffaella Bettiol rivela un’evidente propensione.

Pure il tema del viandante appare spesso nella sua lirica: si ritrova nella già citata poesia Forse un angelo, titolo che in forma dubitativa allude al “viandante dell’anima”, dunque a un compagno spirituale e misterioso, cui si rivolge la poetessa: “Non so riconoscerti | l’angoscia inquieta il cuore | e lievemente il respiro vibra | al tuo passo silenzioso” (vv.5-8, p. 49). Riappare in Jesus, dai grandi occhi (“E tu mio viandante rispondimi”, v.19, p.55) e nell’avvio di Coos: “Viandante mio | conducimi a Dio” (p.68), versi iterati nella chiusa con una piccola variante: “e tu mio viandante | conducimi a Dio” (p.69).

Mette conto infine osservare che una vena di inquietudine, di dolore esistenziale, di scoramento, di sfiducia nella vita attraversa talvolta Ipotesid’amore: si veda, ad esempio, il su citato verso “l’angoscia inquieta il cuore” (p.49) o in Coos i due versi “d’esistere l’inconsistenza | incerta la vita” (vv.3-4, p.68). In Pallida la laguna, il senso di malessere diviene universale: “…tutto vive | in inquietudine senza fine” (vv. 22-23, p. 50), il divino stesso non appare immune da dubbi (ivi, vv.24-25), il mondo si fa “imperscrutabile” (Un’estate tardiva, v.21, p.51).

Ancora molto ci sarebbe da dire su questa matura opera di Raffaella Bettiol, sia in rapporto ai vari altri temi che vi compaiono, quale quello del tempo (“Non mi tormenta l’amore, | ma questo maledetto orologio | macina inesorabile dei giorni | giostra vitale inarrestabile.”, L’orologio, vv.1-4, p. 99) o quello collegato della morte (“la terra inghiotte | la stessa tua morte”, Per un poeta veneziano, vv.33-34, p. 39), sia in rapporto alla lingua, che meriterebbe di essere attentamente analizzata. Qui, per ragioni di spazio, che una recensione non può ignorare, si sono analizzati solo alcuni aspetti della sua lirica più recente, ma si spera non verrà a mancare presto l’occasione di parlarne ancora e più diffusamente.

Note

[1]. Panda Edizioni, Padova, 1997, Prefazione di E. Mandruzzato, Nota critica di L. Nanni, Postfazione di G. Segato.

[2]. Vedasi la recensione di S. Valentini a R. Bettiol, Ipotesi d’amore, in “La nuova Tribuna letteraria”, Venilia Editore, Abano Terme, 2006 (IV trimestre), n° 84, p. 50.

Recensione
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