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La poesia negli Stati Uniti d'America
Secolo quanto mai ricco, tormentato e complesso, non sarà certo possibile esaurirne anche il più semplice excursus in un paio di puntate. In questo lungo arco di tempo si passa dall’epoca pionieristica a una considerevole diffusione della cultura dall’una all’altra costa, ha luogo uno storico scontro di interessi e di mentalità fra il nord e il sud del paese con la Guerra Civile, viene eliminato l’istituto della schiavitù, cresce la vasta industrializzazione che ancora oggi caratterizza in prevalenza gli stati settentrionali, si manifestano le prime proteste sociali, si verifica già nei primi decenni quel movimento di pensiero tipicamente americano che fu il Trascendentalismo, così determinante agli effetti della straordinaria fioritura di capolavori nota come ‘The American Renaissance’ (questo sarà pure il titolo della grande riconsiderazione critica di Francis Otto Matthiessen nel secolo successivo) i cui massimi artefici furono personaggi ormai noti anche da noi e fra persone non particolarmente versate nelle letterature d’oltreoceano: portano infatti i nomi di Nathaniel Hawthorne, Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, Herman Melville, Walt Whitman. Fra di essi il primo non produsse pagine liriche ma soltanto narrative; agli altri dovremo invece tornare nell’ambito del nostro argomento, ma non prima di avere trattato di autori che godettero all’epoca di una giustificata, o giustificabile, notorietà: che magari non sempre coincide con la prospettiva storico-critica attuale. Ancora ai primi del Novecento, tanto per citare un esempio, non era Walt Whitman il grande bardo americano, salvo per una ristretta schiera di specialisti, o tanto meno la sconosciutissima Emily Dickinson, bensì perdurava la fama di Henry Wadsworth Longfellow, il più insigne fra i cosiddetti ‘bramini di Boston’, docente universitario a Harvard di lingue straniere e grande traduttore – quindi diffusore – di letterature europee. E questa sua opera promozionale oggi viene in genere più apprezzata che non i suoi lavori originali in prosa o in versi. Longfellow e gli altri ‘bramini’ (quali James Russell Lowell, Oliver Wendell Holmes) erano in sostanza dei conservatori, nel senso che scrissero, magari su argomenti americani, nella scia dei maggiori poeti inglesi del tempo, da Wordsworth a Lord Tennyson. Ci occuperemo innanzitutto di William Cullen Bryant, nato verso la fine del Settecento (1794-1878) a Cummington, Mass., figlio di un medico di campagna che ebbe sette figli. Compì studi classici e legali, divenne avvocato, poi redattore di giornali. Nel 1829 fu chiamato come redattore al newyorchese Evening Post, incarico che tenne per una cinquantina d’anni diventando un’autorità in campo letterario. Discendente dal gruppo dei Puritani originari, lasciò il calvinismo per farsi unitariano (come, in genere, i trascendentalisti, ma anche molti altri dei suoi contemporanei, rifiutava il dogma della Trinità). Si opponeva alla schiavitù, sosteneva il liberismo mercantile e al contempo il diritto degli operai a organizzarsi in loro unioni di tipo sindacale: posizioni che oggi apparirebbero in contrasto fra loro; in realtà mostrano il minimo comun denominatore dell’amore alla libertà e un rispetto molto americano per l’iniziativa individuale. Fu pure tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art. Se il suo poemetto Thanàtopsis, traducibile come ‘Visione della morte’ da lui esteso come liceale diciassettenne con abile ma monotona melodiosità non impressiona più il lettore moderno, a ben guardare si nota come da un inizio di stile wordsworthiano si passi presto a un tono più rude e personale: non solo è ambientato sulle rive dell’Oregon, ma il suo romanticismo ha decisamente tratti non inglesi… Ancora più oltre su questa linea si spinge nella celebre lirica “To a waterfowl” (A un uccello acquatico, titolo già usato da Ph. Freneau) in cui si avverte, in quegli ariosi spazi solcati dal volatile migratore lungo fiumi, paludi e spiagge marine, la poetica suggestione di vastità oltreatlantiche. Certo di ascendenza puritana, ma già corretta da un emersoniano senso di fusione con la natura come creazione divina, la chiusa: “He who, from zone to zone, | Guides through the boundless sky thy certain flight, | In the long way that I must tread alone | Will lead my steps aright”. (Lui che, di zona in zona | guida il tuo volo sicuro per il cielo infinito | nella lunga via che devo percorrere solo | dirigerà i miei passi).
Secondo un rigoroso ordine cronologico dovremmo introdurre la figura, più che interessante, carismatica di Ralph Waldo Emerson, il filosofo di Concord, Mass., nato a Boston nel 1803 e ben presto salito a grande influenza per le sue teorie filosofiche, la sua dissidenza religiosa anche in campo unitariano, le originalissime pubblicazioni, l’illuminata oratoria non disgiunta da insolita maestà e attrattiva personale. Ma, prima di trattare di lui e del suo largo seguito in particolare nell’intellettualità del New England, ci pare utile fare posto a un personaggio assai problematico, molto meno saggio e meno fortunato e tuttavia per altri versi brillante e tuttora indimenticabile quale fu Edgar Allan Poe, pure di Boston (n.1809), e autore, nella sua breve vita (morì a Baltimore nel 1849) di narrativa, saggistica e poesia, creatore di generi (a lui risale l’invenzione della detective story, della narrazione fantascientifica, del poema cosmogonico), giornalista e redattore di riviste culturali. L’unico vero romantico americano, lo definì uno studioso del calibro di Mario Praz. E certo non è chi non ricordi, almeno in grazia di qualche trasposizione filmica o televisiva, almeno qualche sua celebre horror story… Tuttavia non è per i suoi racconti, né per il suo unico romanzo Le avventure di Arthur Gordon Pym – anch’esso largamente terrificante negli sviluppi dell’azione e per la chiusa misteriosa – che lo ricordiamo qui, ma proprio per la sua produzione poetica.
The jingle man (l’uomo dai sonagli, perciò una specie di giullare) viene ancora oggi definito da alcuni nella sua propria patria, per gli effetti fonici oltre che musicali da lui ricercati nei versi che meglio caratterizzano la sua vena. La sua fama maggiore perdura di fatto in Europa: e di un’Europa di stampo vagamente medioevale o rinascimentale Poe celebrava volentieri in versi e in prosa i fasti, gli aristocratici valori, l’architettura, i terrori, le crudeltà, i misteri. Si ripete comunemente che questa fama è raccomandata alle sue novelle, ai suoi Tales, eppure egli è, per quanto ci risulta, l’unico scrittore di cui siano stati trascritti in forma poetica, due fra i più tipici racconti: Silenzio, una fiaba e Ombra, una parabola (Cfr. P. Van Doren Stern, ed. The Portable Poe, 1966). La stessa ipersensibilità e irrequietezza nervosa che furono tratti salienti del suo temperamento fanno pensare più alla personalità di un lirico che non a quella, tradizionalmente più solida, di un narratore. Esiste comunque una continuità dei fini estetici e degli argomenti fondamentali dalla poesia giovanile alla prosa e alle rare liriche degli anni maturi. Sia in un campo che nell’altro lo scrittore ci offre non tanto una sua organica visione della vita, quanto il riflesso delle sue emozioni fantasie ossessioni e perfino paure di fronte a quel mistero della morte che – per voga corrente all’epoca e per istinto personale – è tema preponderante nelle novelle. Il tema amoroso è invece ben più presente nelle poesie (una cinquantina in tutto), ma spesso anche qui frammisto a pensieri e visioni funebri. Da dove gli derivasse questa connessione ossessiva fra i due temi è stato accuratamente studiato da Marie Bonaparte, celebre allieva di Freud, nel suo E.A.Poe. Une étude psychoanalytique, agli inizi del ‘900. Edgar, nato da una attrice sposata a un figlio del noto Generale Poe, vide morire di tisi la fragile e bellissima madre, quando aveva soltanto quattro anni. Malgrado l’esistenza di una prima figlia, anche lei bambina, nata da quel matrimonio, il giovane e sconsiderato padre abbandonò la famiglia poco dopo la nascita di Edgar. Il quale, idolatrando con ogni evidenza l’attrice malata e poi morente, rimase affetto per tutta la vita da una fissazione materna che gli fece costantemente preferire donne di malferma salute – compresa la tredicenne cugina Virginia da lui sposata e poi morta giovanissima – oppure possibili amiche-madri da cui potesse aspettarsi valido sostegno e protezione. Il piccolo Edgar e la sorella furono adottati da famiglie diverse. Il bambino entrò così nella casa dei coniugi Allan: si trattava di un ricco mercante di Richmond la cui moglie, e qui sembra entrare in gioco davvero il destino, era una bella valetudinaria a cui andarono sempre le maggiori simpatie del piccolo e poi del giovane allievo ufficiale, che si fece purtroppo cacciare da West Point per debiti di gioco, scontentando così una volta di più quel padre adottivo il quale non nutriva interessi letterari, ma aveva pur sempre fornito al ragazzo la possibilità di vivere come un ‘Virginia gentleman’. Inevitabili a un certo punto la perdita di questo prezioso appoggio, e tutte le susseguenti disavventure del geniale ma bizzarro scrittore con cui Mr. Allan proprio non riusciva a trovare un terreno di intesa. E’ della prima giovinezza del poeta la lirica di preziosa perfezione metrica e stilistica “To Helen”, considerata un omaggio a Mrs. Stanard (morta poi anch’essa prematuramente nel 1824), madre di un amico di Edgar, Robert Stanard, e di cui il ragazzo si innamorò, forse per la prima volta in vita sua, sebbene la donna fosse ben più anziana di lui (ma, come si può capire dai versi, ancora di straordinaria avvenenza):
(Elena, la tua bellezza è per me | come quelle barche antiche di Nicéa. | Che dolcemente, su un mare profumato, | portavano l’esausto viaggiatore | alla spiaggia nativa. || Solito a vagare per mari disperati, | la tua chioma di giacinti, il tuo viso classico | le tue arie da Naiade mi hanno portato in patria | alla gloria che fu greca | e alla grandiosità che fu di Roma. || Guarda! Nella lucente nicchia della finestra | come statua mi appari | una lampada d’agata in mano! | Ah, Psiche, da regioni che | sono Terra Santa!) C’è fin d’ora un che di funereo per il paragone finale con quella immota statua… La lirica rappresenta per stile e contenuto un momento di equilibrio fra il temperamento e la cultura romantica dell’autore – che già parla di sé come di un maudit – e il suo classicismo. Byroniano è il poemetto, o novella in versi Tamerlane (Boston, 192) che sottolinea il contrasto fra ambizione e amore. Al Aaraaf (Baltimore, 1929) è un ‘paradiso’ di amori angelici in un aldilà inventato dall’autore nella scia, si può pensare, del Vathek di W. Beckford, del Kubla Khan di Coleridge e di consimili mondi di evasione creati da J. Thomson, T. Moore e altri. Era di moda pure il mondo orientale, da cui il titolo: che è quello di una surah del Corano indicante una specie di limbo o purgatorio. E similmente Poe collocò il suo ‘luogo oltremondano’ fra cielo e terra, facendosi così iniziatore del poema cosmogonico. L’assunto è in tono con la venerazione dell’autore per la bellezza, che – qui personificata in Nesace -- viene mandata da Dio sulla terra come diretta rivelazione del divino all’umanità e come protezione dell’anima dal peccato. Un’immaginazione che non sarebbe dispiaciuta al settecentesco Jonathan Edwards, il severo calvinista che tuttavia insisteva sull’approccio estetico alla divinità! Il famosissimo The Raven, il corvo, fu pubblicato il 29 gennaio 1845 sull’Evening Mirror e immediatamente dopo sull’American Review. Ebbe subito un grande successo. Il filo conduttore di questa ‘narrazione’ è tipico: uno studioso che ha perduto la donna amata sente bussare alla porta, poi a una finestra; pensa a misteriose entità: quando apre, entra svolazzando un corvo che, evidentemente ammaestrato, sa pronunciare una sola parola, nevermore (mai più) e con quella risponde, o sembra rispondere, alle molte angosciose domande che il protagonista gli pone. Ne risulta una visione del mondo e della vita tutta negativa, esposta in lunghi versi dal funereo, ossessionante ritmo musicale. In un suo celebre saggio La filosofia della composizione uscito circa un anno dopo il poemetto, l’autore pretese di avere ‘costruito’ questa lirica con una sorta di fredda ingegneria poetica. Si è molto discusso se sia il caso di dargli credito, comunque in arte contano i risultati, non la strada percorsa. Che dovette essere abbastanza complessa e laboriosa se furono necessari quattro anni perché The Raven giungesse alla forma tramandata a noi: senza dubbio un’opera di alta suggestività poetica e drammatica. Varie altre liriche più brevi (“To one in Paradise”, “Lenore”, “Ulalume”, ecc.) si collegano, con il loro desolato lamento e il loro più o meno esplicito no more a The Raven. “The bells” (Le campane), inizialmente incentrata sullo stesso argomento (nella prima versione del 1848, di due sole strofe, le campane argentine delle nozze erano subito seguite dai ferrei rintocchi funebri) fu dal poeta ripresa un anno dopo e, in un solo giorno di febbrile lavoro, fu amplificata fino all’attuale versione di centotredici versi suddivisi in quattro strofe: è una composizione citatissima, che spiega, se non giustifica, l’appellativo di the jingle man affibbiata all’autore. Si tratta di un esempio di poesia onomatopeica, in cui il suono dei sostantivi e soprattutto dei verbi usati (la lingua inglese è particolarmente ricca di vocaboli onomatopeici indicanti suoni in svariatissime sfumature e gradazioni) ha un’importanza ben maggiore del significato letterale e perfino delle immagini che da esso si librano sul piano dell’immaginazione.
Ma rendere gli stessi effetti fonici con una traduzione è pressoché impossibile! L’approssimazione all’imperversare dei rintocchi di campane d’argento, d’oro, di bronzo, di ferro trillanti, gioiose, più gravi, più cupe dal principio alla fine, non può che essere per difetto, a paragone della frenesia imitativa dei loro ritmi mirabilmente scatenata da Poe! Accanto a questa festosità possiamo collocare pure altre (poche) poesie d’amore insolitamente liete di tono: “Eulalie” (1836), e “Annabel Lee”, o “For Annie”, scritte un decennio più tardi. Come curiosità, ricordiamo qui che allo scrittore americano si deve una breve composizione di dodici versi in onore della Vergine, dal titolo “Catholic hymn”: è una preghiera di voluta semplicità quasi infantile, una richiesta di protezione in brevi versi danzanti. Può ricordarci, per analogia, le preghiere mariane scritte da autori del mondo protestante: lo stesso Wordsworth compose su questo argomento uno dei suoi sonetti più intensi… Si può concludere con Andrew Lang (‘Intro’ to Poems and Essays, 1964) che la poesia di Edgar Allan Poe potrebbe essere forse facilmente demolita da un punto di vista critico, ma, quando tutto fosse stato detto contro questa lirica fatta più di suoni che di significati e di illusoria facilità per quanto riguarda il ritmo, e i contenuti più suggeriti che espressi, rimarrebbe sempre, indistruttibile, l’inspiegabile fascino di queste variazioni musicali su un tema unico o quasi. Del resto simbolisti e decadenti francesi – e attraverso di loro moltissimi lirici moderni di ogni paese – sono rimasti incantati da questo fragilissimo ma nuovo modo di fare poesia evocando attraverso la musica delle parole; e ancora dalla purezza di una estetica lucida e volontaristica, o dalla tensione febbrile e morbosa di certe visioni. |
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