| |
Postfazione a
Lettera a una donna
di Stefano Zangheri
la
Scheda del
libro
Erotismo tra realtà e fantasia
Antonietta
Benagiano
L’inconsistenza
fisica dei ricordi poteva riprendere
vita attraverso processi di acquisizione di
particolari
momenti della loro fisicità.
(da Lettera a una donna di Stefano Zangheri)
Riflettiamo sulla vita che siamo
in grado di dare alla inconsistenza fisica dei ricordi ad opera del
sorprendente congegno della nostra scatola cranica, e ci viene da pensare che, a
proposito di quanto maggiormente diletta o lascia un forte segno negativo, siamo
un po’ tutti affetti da ipertimesia, non sempre positiva perché può diventare
anche ossessione. Ma la nostra sindrome ipermesica va su breve scala, non
possiamo di certo, in linea generale, vantare una memoria a tutto spettro. Ci
fermiamo qui, non vogliamo addentrarci in disquisizioni che
esulano.
Di forte pregnanza per una interpretazione dell’asse attorno al quale sembra
ruotare il primo romanzo di Stefano Zangheri, poeta già acclamato, è lo stralcio
ch’egli ha posto in esergo, tratto da “Il piacere” di Gabriele
D’annunzio: il protagonista Andrea Sperelli fuga ogni altro godimento nella
tensione verso la fiamma inestinguibile d’un sol desiderio, piacere nel
quale fa risiedere la felicità. Ma non è del tutto al bando la continua ricerca
di sé stessi, anche se duro è il gnothi seauton ai “miseri mortali che,
come le foglie, ora fioriscono in pieno splendore, mangiando i frutti del campo,
ora languiscono e muoiono”.
1) Duro è avventurarsi a conoscere i propri limiti, se
ruit hora, al bando le dissertazioni platoniche e aristoteliche, di
quanti si sono, nel pensiero non solo occidentale, susseguiti con meditazioni
finalizzate a ricercare e definire ciò cui l’essere umano sembra tendere da
sempre, una felicità che non fugga
nell’attimo.
C’è
nello stralcio dannunziano anche l’accenno al tempo vissuto nella felicità, che
è valore perché lascia il ricordo, all’altro tempo trascorso inutilmente per
la felicità, deprivato quindi di valore. Non si è nel primo romanzo del
D’Annunzio ancora inaridito quel battito che Roberto Pasanisi chiama
trepidazione sentimentale, 2) sicché il protagonista de Il Piacere,
per l’illustre critico perfetta autoincarnazione dannunziana,
rappresenta il momento dell’illusione ancora possibile: l’artista può celebrare,
pur nello sfacelo ‘prossimo venturo’, la sua privata religione della bellezza,
in un’orgogliosa seppur pericolante separatezza dalla volgarità della vita.
3)
Il
romanzo di Stefano Zangheri, nell’iter memoriale di un soggetto già
dall’infanzia segnato nella psiche da taluni eventi e da rapporti di affettività
non manifesta, sembra voler essere la ripresa del tempo vissuto nel godimento
del piacere, vissuto quindi in momenti che dovrebbero essere di felicità. L’io
narrante, non narratore esterno ma soggetto dello stesso vissuto che viene
ripreso, si presenta volto a quel piacere, secondo Platone, carnalità dell’anima
concupiscibile.
4) Pertanto, più che da una love addiction, risulterebbe
dipendente dal piacere fisico. Tale viene percepita anche la donna che
costituisce la sua passione e si lascia dall’auctor, come da altri, sin
dalla giovinezza cercare per quel godimento verso cui anche lei tende. Vi
perviene talora attraverso la violenza subita, come confessa all’io narrante
chiamato a consolazione, anche se, sotto certi aspetti, da quella trae quasi
beneficio perché scalza il forte dolore della perdita della madre.
La
comprensione non fa difetto al giovane che pensa inoltre agli altri sguardi
che avrebbero colto il desiderio al posto della richiesta di comprensione e
avevano potuto finire l’amplesso penetrando la voglia già dilatata dalla prima
abbozzata conoscenza di sensazioni ormonali.
La particolare storia fra i
due, l’io narrante (torna nel romanzo Stefi Stefi…come un’eco) e la donna
(Apatia nelle pagine finali), ha avvio nell’adolescenza con la scoperta
dell’attrazione carnale che dà a entrambi godimento, per esso soprattutto si
cercano ma anche per allontanare nel calore del congiungimento il loro profondo
senso di solitudine. La storia s’interrompe per un quarantennio, viene, dopo un
incontro occasionale, ripresa, ma, distanti ormai dall’adolescenza, si complica
per le personali esperienze di vita che li hanno resi meno propensi a un
pensiero positivo, vivono pertanto ancora il piacere carnale ma con una
complessità che lo sottrae alla leggerezza del tempo lontano.
E l’io narrante
dichiara: … ho capito che l’amore non è altro che la più grande delle nostre
ossessioni, che nasce solo da dolori profondi, da solitudini immense, ma
principalmente da frustanti rifiuti, da laceranti passi che si allontanano, da
immagini sessuali dove la presenza è permessa solo alla fantasia , che diviene
la ruffiana della ricerca di soddisfazione, sempre pronta a concederti la misura
esatta di ciò che desideri, andando a rubare per te momenti di intimità non tua,
dove con estremo sadismo sovrappone la tua immagine.
L’uomo
realizza il massimo nella immaginazione visionaria, una unione con il
profondo del corpo di lei che – dice – nessuno avrebbe mai potuto
esplorare, chiuso a qualsiasi tentativo di irrompervi, difeso dall’avere ormai
avvertito l’idea di un amore talmente particolare da essere unico perché
costruito dalle mie sensazioni che non avrebbero avuto mai la possibilità di
essere ripetute da nessuno. Era la metafisica di me stesso il baluardo
invalicabile per ogni potenza fisica o sentimentale, perché esistente solo in
una dimensione esclusivamente mia, tanto da poter essere rimosso dalla tua mente
ma pur inconsciamente non sostituito nella stessa dimensione, perché
l’unione di due corpi diversi… può avvenire anche senza unione fisica nel
rispetto di una natura che ci ha fornito anche un sesso nel pensiero con il
quale far nascere, senza vischiosità di sperma, l’amore, la bellezza, l’arte.
In
questo modo può ripetere a sua volontà il piacere, attuare il possesso pieno
come non accade nella realtà fisica, avviarsi anche a sperimentare la bellezza
dell’arte.
E nella Lettera scandaglia la vita, analizza sé e la
donna, segue il caleidoscopio di immagini che balenano e vogliono essere
ricordate, si pone alla ricerca accurata del primo significativo momento dal
quale sono scaturiti gli altri, si fa parola, da parte di entrambi così scarsa
negli incontri.
Lo
scatto improvviso della carnalità, gli impeti di bramosia incapace di
addolcire con almeno uno scampolo di sentimento estreme posizioni di animaleschi
sfregamenti, annullava infatti anche la bellezza della parola per la quale
l’essere vien detto ‘umano’, sente ora l’io narrante di doverla recuperare, di
ripercorrere la storia di cui è possibile parlare solo in due (a loro due
soltanto infatti appartiene), prima che sia tardi anche per lui. Almeno
la parola è ancora presente a chi, nel recupero visionario del piacere, ritrova
pure quanto è irrimediabilmente andato via, quella parte della vita di maggiore
vigore, di esaltazione della passione.
Resta ora la grande capacità di immagini
visionarie, gli resta, attraverso esse, il recupero di quel tempo: Sono
andato spesso in un posto di mare, dove gli scogli hanno la bava delle onde.
Contemplavo l’orizzonte per incrociare il sole che si tuffava a un’ora della
sera. Non era solitudine, era l’insieme delle cose che mi avvolgeva, senza
volto, senza identità… ero meravigliato di non avere nessun pensiero… Perché ti
sentivo arrivare dal mare, sentivo le onde che aumentavano il rumore, lo
sciacquio dei risucchi come baci sulle rocce. Ed ero roccia che veniva leccata e
baciata dal mare. Non era voglia di morire, ma di vivere l’attimo come una vita.
Non sono mai riuscito a ricordare di essere tornato a
casa.
L’ attimo
come una vita: l’io narrante ha coscienza di non potere, nella brevità del
tempo, confidare nel domani, sa quindi che null’altro va inseguito perché non si
perda l’attimo presente nel suo recupero di piacere, il solo che possa
considerare esistente. E la ripresa, come il protagonista dice alla
donna, è anche per capire se gli avvenimenti a cui abbiamo partecipato sono
stati veramente vissuti o se invece sono sfuggiti di mano, passati indenni sul
nostro senso di vita. Ciò che non esiste come ricordo è infatti da
considerarsi non vissuto.
L’opera
in esame non è il solito romanzo del narratore che ama, ad allettamento,
soffermarsi a descrivere momenti di carnalità, ce lo preannuncia il sottotitolo
Biopsia di un amore. Il passato viene ripreso non solo per il piacere,
anche per analizzarlo: l’io narrante, analista della donna, è al contempo egli
stesso paziente, auctor di una narrazione dove rifluiscono dinamiche del
passato che nella riproposizione si attualizzano.
La narrazione appare, però,
deprivata di un fondamento unificatore, in balia di momenti, di cose, è
(richiamiamo Gianni Vattimo) 5) pensiero debole che entrambi domina e ogni
aspetto. Diventa difficile sottrarsi ad esso, ricercare qualcosa che vada al di
là del fondamento esistenziale nel piacere, ed è proprio per questo che il
godimento si permea di malinconia, nella donna per quel lasciarsi vivere nella
consapevolezza che null’altro può esistere oltre il piacere del breve godimento,
nell’io narrante per l’accentuarsi negl’ incontri del tratto costitutivo della
sua natura, già presente nell’incipit del romanzo dov’è delineato un
adolescente deprivato di affetti significativi, insofferente, solitario, con
scarso spirito di adattamento e tanta voglia di novità.
Costretto alla soluzione
del collegio in un paese poco distante da quello natio, incontra proprio lì
l’altra adolescente come lui: Tu come me, in una pietas che spesso appariva
mistica, in una fratellanza metafisica, in un bisogno del corpo e del suo calore
come catalizzatore di un tranquillo possesso di noi stessi.
E’
una carnalità che nel disagio esistenziale va oltre se stessa, come evidenziano
tante pagine del romanzo, pure quelle dov’è presente il dialogare, talora anche
con toni lirici: Con gli occhi chiusi – dice lui – si vedono cieli più
belli, con le stelle dei ricordi di quegli attimi che hanno brillato la nostra
vita. Anche se l’universo è di tutti ognuno sa che le sue stelle non sono
visibili per gli altri… Io ti ringrazio di essere la testimone del mio tempo
migliore…
Rivendica
l’io narrante la particolarità della loro storia di attrazione carnale, per lui
si ammanta di uno splendore che solo essi possono vedere.
Altrettanto
difficile è dare una interpretazione il più possibile esatta e convincente di
una qualsivoglia opera letteraria: bisognerebbe infatti non partire da alcun
preconcetto, non essendo esso presupposto necessario a un giudizio, potrebbe
anzi distorcerlo, e talora neppure l’assenza di pregiudizi assicura l’esattezza
interpretati- va. Del resto, rifacendoci a Jacques Derrida, 6) diciamo che nel
testo non c’è l’essere ma solo le sue tracce, soltanto di queste possiamo quindi
tentare una interpretazione, della parola che parla priva di ogni scorta.
Ed è nelle tante pagine del romanzo che il protagonista della particolare storia
di passione, di cui vengono accennati momenti dei gaudenti incontri fatti di
silenzi, ci dà infine la parola priva di ogni scorta. Sgorga come analisi
della problematica condizione esistenziale e del suo mistero, della solitudine e
dell’avvicendarsi delle casualità, della paura di essere se stessi, di chiedere
e dare, della mente che si avvita e vagola in meandri senza uscita che pure
paiono avvincenti per quell’escogitare modi e forme che possano approdare
all’elemento portante nel caleidoscopio di immagini, della psiche altrettanto
problematica della donna che la memoria recupera e immette nel dialogare che è
mancato. L’uomo sembra rimproverare i silenzi degli incontri, anche per questo
li ripercorre con la parola, mentre la donna resta in un vago; considera
il tempo per quello che è veramente, se lo lascia quindi scorrere: Non
abbiamo mai parlato in modo sufficiente. Abbiamo avuto il tempo ma lo abbiamo
usato per il silenzio. Molto silenzio e sguardi abbassati. E lei: Non è
stata colpa di nessuno. Le
parole
avevano poca rilevanza, era tutto istintivo, come
se i fatti passassero più velocemente dei pensieri. Cosa potevamo dire?
Attrazione
carnale dove sembra aleggiare un quid che va oltre, avvolge la stessa
carnalità
superandola.
Nell’ultimo tempo, con il peso sempre più greve degli anni, si avverte nella
donna quasi un cupio dissolvi che ne determina poi forse la fine: Ho
vissuto e sono vecchia, stanca, senza amore. La solitudine è venuta da una prima
volta e si è allungata a dismisura. E alla richiesta: Hai voglia di
andartene?, al momento conferma l’amore per la vita, pian piano poi le si
spenge. E l’uomo resta ad attendere il tempo, l’oblio, seduto a scriverle
la lettera in una stanza forse di ospedale: Verranno piano le Erinni e tu
risorgerai dentro una strana voglia di averti, sarai la luce di un giorno di
sole in un inverno freddo e umido…Ma è ancora presto e tutto è ancora chiuso in
una semplice ossessione di vita, in uno scherzo di una natura vivace, che non sa
stare ferma ad aspettare che qualcuno la
attragga.
Il fil rouge di Lettera a una donna, primo romanzo
di Stefano Zangheri, strutturato con alternanza di antefatti puntualmente
analizzati e dialoghi, dalla scrittura fluente come oralità senza infingimenti,
talora forte talaltra con lirici accenti, pare essere una carnalità appassionata
e al tempo stesso meditabonda e malinconica che talora travalica la realtà
nell’immaginario fantastico di piacere maggiore, in aperture della psiche con
cui perviene alla sublimazione dello stesso piacere.
1) Omero, Iliade, XXI,
463-466
2) Roberto Pasanisi, Il Poema Paradisiaco, in “Alla bottega”, 2, 1986,
pp.19-21, p.2
3) Roberto Pasanisi, “Prefazione” in Duemila e oltre,
p.5, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli,
2016
4)Platone, Fedro.
5) Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti Il pensiero debole, Biblioteca
Economica Feltrinelli,
2009
6) Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, 1971
| |
|
Materiale |
|