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La poesia di Paolo Ruffilli è caratterizzata dalla musicalità. Nella prefazione a Le stanze del cielo, Alfredo Giuliani sottolinea come i versi dell’autore sprigionino una musica elegante e raffinata tra Béla Bartók e il cool jazz. Il verso di Ruffilli è breve e musicale, ispirato ai librettisti d’opera, quali il Metastasio o Lorenzo da Ponte, la sua parola è estremamente rastremata, esatta, volta a cogliere l’essenza.

Si è parlato di antilirismo nei confronti del linguaggio poetico dell’autore. A mio sommesso avviso, è riscontrabile nei versi dell’autore un lirismo sottaciuto, privo di ismi, ma non per questo inesistente. L’andamento, infatti, incalzante e teso della scrittura, crea una forte tensione emotiva, che pur non cadendo mai nel sentimentalismo, scava, comunque, goccia a goccia l’animo del lettore : “Senza di lei | la sete, il desiderio: | un vuoto più profondo |  di tutto il pieno | vomitato giù | fuori dal mondo”.

È una poesia concettuale quella di Paolo Ruffilli, direi anzi che il pensiero stesso prende forma nella sua parola, una parola spesso dai toni corali, narrativi.

Il volume Le stanze del cielo si suddivide in due parti: la prima, dedicata al dramma dei carcerati, dà il titolo alla stessa raccolta, la seconda, rivolta al problema della dipendenza dalla droga, s’intitola La sete e il desiderio. Il libro si apre con una dedica a tutti coloro che, per colpa altrui o propria, hanno perso la libertà. La perdita della libertà, vista come bene supremo per l’uomo, è appunto il tema centrale che viene affrontato. Il volume inizia con un incipit del poeta cinese Mori i Po, il quale subì senz’altro l’influenza del pensiero taoista (il che traspare nella sua indignazione contro le guerre e nella sua comprensione per gli umili e per le donne): “I poeti al contrario di tutti gli altri | sono fedeli agli uomini nella disgrazia | e non si occupano più di loro quando tutto gli va bene”.

Alla pagina iniziale è riportato uno scritto di Anton Čecov, sul grave problema della giustizia e in particolare del rapporto di questa con la responsabilità personale: “ era sicuro di non aver commesso alcun delitto, e poteva garantire che anche per il futuro non avrebbe ucciso, rubato , incendiato… Ma quanti delitti venivano commessi senza intenzione? e le calunnie? e gli errori giudiziari? Non a caso la saggezza popolare insegnava che alla miseria e alla prigione bisognava essere preparati”.

Alla domanda se possa Paolo Ruffilli considerarsi un poeta civile, risponde Alessandro Giuliani nella prefazione: “Ruffilli, istintivamente, mette sempre in rapporto ciò a cui dà voce con il contesto sociale in cui si muove e parla”. Nella raccolta precedente, infatti, La gioia e il lutto, in chiave corale, era trattato il tema della morte di un giovane per droga. Sulla copertina, quasi a stigmatizzare il dolore e la sofferenza, era riprodotta l’immagine del bellissimo dipinto di Giovanni Bellini, intitolato, la pietà.

Il tema della pietas si pone al centro anche di questo libro, dove la perdita della libertà, si configura come privazione della stessa dignità di essere umano.

I versi del poeta cinese Mori i Po parlano della grande umanità dei poeti verso gli altri; da sempre gli scrittori si sono, infatti, occupati nelle loro opere dei problemi delle persone più deboli. François Villon, nella sua celebre ballata degli impiccati chiede pietà a Dio e agli uomini, per gli chi è stato condannato a morte: “Mai un solo istante restiamo seduti; | di qua e di là, come fa il vento soffiando, | a suo agio, senza tregua siam sballottati | e in più colpiti e dagli uccelli beccati. | Non siate della nostra confraternita, | ma pregate Dio che tutti noi assolva!”

Il nostro attraverso un’attenta analisi psicologia, introspettiva del condannato, ci dimostra come la pena, la sanzione sia sempre inadeguata rispetto alla complessità della natura umana: “E’ un patto: si arriva | a giudicare il fatto, | non la persona. |  E una sola azione, | non corrisponde all’uomo | non può rappresentarlo | né tanto meno cancellarlo”. E’ un discorso molto complesso quello concernete l’espiazione: il rapporto tra delitto e colpevolezza. Certamente non si è mai in grado di giudicare fino in fondo un essere umana, tuttavia, la collettività deve anche tutelarsi contro la pericolosità di taluni individui.

Il testo costituzionale stabilisce espressamente all’art 27 terzo comma: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

In sede costituente molto si discusse sul concetto di rieducazione, perché evocava i famosi processi propri dei regimi totalitari. Tuttavia prevalse la linea del doppio binario, ossia, che la pena fosse da un lato retributiva, ovvero proporzionata al fatto commesso, ma dall’altro anche rieducativa, volta cioè al recupero sociale del condannato. In base al secondo comma appena citato della Costituzione, dagli anni settanta in poi, con una serie di leggine, sono stati inseriti molti provvedimenti, atti a favorire un reinserimento del condannato, (sconti di pena, permessi ecc..), che in qualche modo hanno minato il concetto stesso di certezza della pena, da molte parti ora invocato.

Il problema forse focale, che emerge dal libro di Ruffilli, è costituito dall’assoluta inadeguatezza del nostro sistema carcerario, che dovrebbe essere profondamente rinnovato, in modo che non venga mai compromessa la dignità dell’uomo, anche dell’uomo che delinque. Ma per questo occorrono ingenti finanziamenti, risorse e la nostra società in questo settore è sempre stata latitante.

Con grande capacità psicologica, introspettiva Paolo, ci fa rivivere tutta intera la sofferenza di un carcerato, la sua claustrofobia e dolente dimensione spirituale: è la voce stessa del pensiero monologante del condannato a parlare con il lettore. Dal poeta vengono scandagliati tutti i minimi pensieri del detenuto, per il quale il tempo, inevitabilmente, diviene un’attesa senza luce e senza speranza.

La seconda parte del libro, sempre in forma di monologo interiore, ci parla della schiavitù in cui si cade attraverso l’uso della droga, fatto, del resto, che unisce le due sezioni del volume, in quanto anche i carcerati, per sfuggire alla loro situazione, fanno uso di droghe. Vi sono momenti, in questa sezione del libro, di grande forza ed intensità espressiva, oserei dire lirici, che coinvolgono il lettore nei vortici visionari e dolorosi, nell’alternanza emotiva dei sentimenti del tossico dipendente:”Non è il dolore | che mi ha reso muto, | non ce la faccio più | con questa solitudine | infinita…”

E’ dunque l’anelito alla libertà che anima questo libro. L’autore ci parla della libertà spirituale, dell’insopprimibilità della stessa e del dovere morale, al quale siamo chiamati tutti, di tutelarla e proteggerla, sia essa la nostra o quella degli altri: “Vorrei lasciare | adesso sì l’inferno | del tempo mio perduto, | cercare di levarmi | giù dal volo | ma non riesco | a smettere da solo”.

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