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“Le cose più belle stanno nella notte | come confezionate in un vaso di vetro; | si deve avvitare il coperchio:| allora odorano, lievitano | ribollono | danzano, | allora sanno di dolce come l’uva”.

Credo che non vi sia espressione più esatta, per definire la poesia di Lucia Gaddo Zanovello, dei versi di Gertrud Kolmar, poetessa ebrea di Berlino, morta presumibilmente nel 1943, nel campo di concentramento di Auschwitz . La scrittura per l’autrice (come del resto per la grande berlinese) è un colloquio continuo con sé e con l’altro da sé, in un’espressione fantastica che, pur escludendo una confessione autobiografica, realizza un procedimento di identificazione e di sdoppiamento. La forma espressiva che Lucia Gaddo Zanovello sceglie è sempre alta, in quanto sa consegnare alla poesia la forza del suo pensiero, al limite dell’udibile: “Nulla è più chiuso di questa tempia | che accorda isole di silenzio | e spande lume sulle antiche vedute | nella mente lontane”. Come ha scritto Luciano Nanni, chi conosce l’opera prima dell’autrice noterà nella stessa tracce di uno stile, che attraverso il tempo fa crescere in senso qualitativo l’organismo cui appartiene, mantenendone i caratteri fondamentali.

E’infatti la scelta lessicale il dato da cui parte la poesia dell’autrice, una scelta dettata da moti interiori, da vibrazioni spirituali, atte a trasmetterci metafore lievi ed ardite come il pensiero stesso. La parola, per la Nostra, è un caleidoscopio attraverso il quale si possono intravedere i più diversi mondi, le più diverse verità, parola che viene utilizzata nel suo valore polisemico più ampio .Di frequente, inoltre, l’autrice fa ricorso a neologismi, o al contrario, ad arcaismi: per indicare, ad esempio, il suono, la voce stessa della luna che dallo spazio ci raggiunge, usa il lemma Volumine ed, invece, per sottolineare la sua ascesa solitaria al cielo, l’aggettivo raro ed antico erma.

Da questi esempi si può vedere come sia libero e disinibito l’impiego del linguaggio da parte dell’autrice, che ha un dominio pieno sulla parola, recuperata in una fosforescenza lessicale, come scrive Cesare Ruffato, intrisa di valori etico-metafisici.

Se la parola è il dato pregnante per la poesia, non si può negare, tuttavia, che per l’autrice padovana il lessico sia sempre e comunque uno strumento del pensiero. Lucia Gaddo Zanovello sembra quasi dirci: cogito ergo poieo. Scrive infatti: “Ma il pensiero, | no | scarta l’abisso | vagolo di serpe | di fosforescenti dubbi resta acceso, | di luce inestinguibile, | deiforme, | luna che si insatellita di amore”.

Le urgenze linguistiche, di cui abbiamo parlato, riportano il discorso sul tema della struttura del periodare, nel quale ritroviamo di frequente il ricorso a rime baciate, rime incostanti, rapide e ad accordi metrici, sia pure in metrica libera. Diffuso è ancora il ricorso all’iterativo onomatopeico: “Muta eco, vita | a viva vite avvita, | al gorgo gurgite gorgoglia | gòrgone recisa | di spartito male”.

Le immagini che l’autrice predilige sono quelle notturne, lunari, vissute in una dimensione, oserei dire, metafisica “Stelle | come gridi acuti nell’abisso | degli spazi vani dell’inconosciuto | intonano | al poco sangue umano | l’inno dell’impotere,  | misura frale | di un esistere divino,..”

La luna, che da sempre ha rappresentato per i poeti un altrove immaginario di luce e sogno, da un punto di vista strettamente simbolico rappresenta i ritmi biologici e conosce una storia paritetica a quella dell’uomo, anche se la sua morte non è mai definitiva.

Celeberrimi sono i versi leopardiani ispirati alla luna: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai, | silenziosa luna? Sorgi la sera e vai | contemplando i deserti; indi ti posi. | Ancor non sei tu paga | di riandare i sempiterni calli?” S’istaura tra il poeta e l’astro un colloquio privilegiato dai toni cosmici e metafisici, in un processo di antropomorfizzazione.

Scrive Lucia Gaddo Zanovello: ”Erma salì | profetica e perfetta | èmato enfiando nelle vene | igneo sguardo | a contemplare | l’errante errare | di quest’isola nel mare”. La luna, per l’autrice, intona la memodia , ossia il canto della memoria ed è una “luna viola” ad intonarlo. Perché ci si chiede viola? Perché il colore viola, colore della trasparenza, rappresenta a livello simbolico la temperanza, l’equilibrio fra la terra e il cielo, i sensi e lo spirito, la passione e l’intelligenza, l’amore e la saggezza, ma anche la malinconia, perché nei monumenti medievali Gesù indossa una veste viola al momento di compiere il sacrificio, in quanto riassume in sé l’uomo figlio della terra, che si accinge a redimere, e lo Spirito celeste. Il colore viola, quindi, per la Chiesa Cattolica ha finito con il rappresentare il momento più alto della passione, ossia il sacrificio.

La luna per Lucia Gaddo Zanovello è un altrove di bellezza, di serenità non priva di malinconia, dove rifugiarsi, perdersi per ritrovarsi. Il linguaggio, come già precisato, è sempre alto, si potrebbe dire al limite dell’udibile; infatti esiste un breve iato tra vita psichica e linguaggio verbale. Nei versi di Lucia si riconosce una profonda cultura, un’attenta ed appassionata lettura della poesia novecentesca e non solo.

Nella poesia Pispigli assonnìti ritroviamo echi montaliani, là dove splende il bagliore atemporale di un meriggio, presagio di una possibile eternità: “Come serrare, serbare | dentro gli occhi chiusi | l’abbaglio | per lenire poi la coatta | sferragliante veglia || fosse la vita il quieto | torpore del meriggio, | promessa di luce interminata!”.

Nell’autrice vi è sempre un tensione rivolta al trascendente, che si evidenzia, in questo caso, nell’espressione “promessa interminata!”. Da notare la raffinatezza dell’aggettivo interminato, aggettivo di carattere letterario, che in questo contesto rende compiuto il concetto che si vuole esprimere. Echi danteschi, invece, si possono riscontrare ad esempio nei seguenti versi: “ma nella selva delle possibilità | muove e muore tanta umanità”.

Tra gli elementi che ritroviamo più frequentemente nei testi è l’acqua, simbolo stesso della vita , del sogno amniotico che in noi sempre perdura, e naturalmente del Verbo: “e melodia ritorna | da un planare di ricordi  | sull’acqua della mente || immersa odora del fluido tutto | che dal nulla spira.” Con metafore, direi, talvolta ardue affiora il mare, culla primaria della vita, a cui si ritorna dopo la morte per rigenerarsi “…trovare che il tempio del tempo | s’intana nel mare | con tutto il colore del sole nel cuore | e di fuoco non muore.”

Talvolta l’autrice si sofferma sulla neve, su notti gelate, forse, perché, come lei stessa scrive, la neve rappresenta un momento assoluto di rivelazione: “Se pazienti, | ridiscende la neve | a rivelare verità silenti | preziose e fuggenti | come l’inverno | alieno, quasi una Luna | per un serotino cielo di opalino”. Un momento di rivelazione, come del resto è la poesia stessa, di cui le parole non sono che semplici specchi, che riflettono l’animo stesso del poeta.

Scrive Antonia Pozzi, della quale Lucia Gaddo Zanovello condivide lo slancio verso la bellezza e la ricerca delle verità, oltre alla rarefatta tensione espressiva: “Parole- |rispecchiate il mio cielo || di voi pensai | dopo il tramonto | in un’oscura strada | quando sui ciottoli una vetrata cadde | ed i frantumi a lungo | sparsero in terra lume.” La costante ricerca del bello e della parola alta e significante avvicina la poesia dell’autrice alla corrente mitopoietica, contraria ad ogni tendenza minimalista. La poetessa padovana ha una fede profonda nella poesia, intesa come mezzo per incidere sulla storia: “La Storia non chiede pazienza di saggio | ma dita bruciate di calce | che imbianca | e battezza col sale del giusto | l’onesto lavoro di tutti”. Il compito dell’artista è, dunque, morale, etico, le sue parole non possono non incidere sulle vicende umane: “un richiamo sordo | si fa eco astuta: || pilota ancora | il lento purgare della Storia”.

La vita stessa resta comunque per l’autrice, come sottolinea Giorgio Poli nella prefazione, “un grumo dialettico, oscillante tra negazione e affermazione, ma soprattutto un enigma”, un enigma che va comunque vissuto nella sua pienezza, sembra dirci l’autrice, perchè un altro amore alla fine ci dovrà parlare: “ Lascia che la Vita ti attraversi viva | tormenta di buriana | nella trama rarefatta | di una forma greve | immersa nel dolore dell’errore | nato dalla rotta nella facilità | quando insorgi al travaglio | e allo sgomento non reggi. | | Leggi, invece che la sferza degli eventi | e l’assedio delle prove | fanno di te il diamante | che ora sa di fango | e sta nelle dita del pianto.”

C è una certezza, quindi, nel messaggio poetico dell’autrice padovana che, comunque, alla fine ed oltre il dolore, vi sarà una ricompensa ed una vita nuova, quasi una rigenerazione, una reincarnazione panica negli elementi della natura: “Poi, assaporato, riarso, | rivivrai stella | nello sguardo | del cielo che ti specchia ora, | e nel vivido ricordo di chi | da te, nei miti gesti verdi | ebbe alimento | ed incorrotta voce | di pupilla. || Sarai monito di sole, | debito di zolla che nutristi”. Una natura che, quando trascolora l’autunno, testimonia la nuda essenza dell’anima, perché scrive Lucia: “Nelle cromìe trascolorate | sta il dolce dolore della Storia”.

Memodia ,in conclusione, è il canto della memoria che coinvolge il presente e il passato, ma anche il futuro, con intensi scarti di dolore, ma anche di vivida luce. Il ricordo opera una sorta d’illuminazione sulla carne stessa dell’autrice, ne disvela l’essenza, da cui emerge l’anima stessa di Lucia Gaddo Zanovello, la quale si riconosce, ancora e sempre, in una fanciulla piena di speranze e d’attese: “E non vuoi distrarre | questo sonno d’ascolto | questo sogno sperduto | illuminato di nonsenso | dentro la sola vera età | che l’io ha | quella fanciulla, | pura  | di ogni gioia e di attesa.”.

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