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Alessia e Mirta
Come emerge evidentemente già dal titolo, a essere centrale in questa raccolta
poetica di Raffaele Piazza è la figura femminile, che viene rappresentata con
evidenza attraverso le due protagoniste, fulcro dell’azione poetica, Alessia e
Mirta. La prima, Alessia, anche se concretamente descritta nelle sue vicende di
vita, spesso quotidiane e ordinarie, è una figura di donna fortemente
idealizzata, una sorta di apparizione salvifica (a lei si associano frequenti
attributi come “luna”, “azzurro”, “cielo”, termini classici del linguaggio
lirico desunto dalla tradizione) la quale con la sua gioia di vivere si impone
per l’immediatezza, l’ingenuità verrebbe da dire, della sua persona, tutta
centrata nella ricerca di un completamento nell’altro per il tramite
dell’esperienza amorosa, per lei centrale come chiede una donna che cerca
ardentemente la vita per attraversarla in tutta la sua concretezza, la sua
carnalità. La seconda, Mirta, è invece una donna “bambina di 44 anni”, tutta
pervasa dalla fragilità del suo essere “donna dei boschi e prigioniera / del
[suo] film”, la cui storia si incrocia con quella dell’autore, lei “amica” la
cui vita si è interrotta con il gesto tragico del suicidio, e si interseca,
senza che venga però precisamente circostanziata, con quella di Alessia per il
tramite di Giovanni a cui appare come “cenere”, materia depositata dal ricordo,
lei che appare a Alessia “nel fondale di una via / deserta pari a una dea /
terrena”, in una sorta di nostos da un suo “oltrecielo”. Storie entrambe
raccontate a metà, sospese, all’insegna del dubbio; compito del lettore, se
crederà, interpolarle, ovvero lasciarle in quello spazio imprecisato che è
appannaggio della poesia.
Entrambe le figure femminili si colorano di una forte valenza simbolica, pur
mantenendo una certa concretezza per la puntualità circostanziata dei fatti che
accadono; a prevalere è questa idea della figura femminile come presenza
numinosa (simile a quella di molta poesia di Bárberi Squarotti), “stupore di
fronte alla verità / dell’arte che è vita e battesimo / perenne”, apparizione
che occupa integralmente il campo, permeando di sé le vite, lasciandovi una
traccia indelebile. Il nesso esplicito che accomuna le due figure non è mai
definito con esattezza, si lascia all’intuito del lettore creare un nesso
possibile, per identificare e porre in atto “redenzioni ad ogni / sillaba detta
o non detta” in modo che queste possano “farsi parola”; è al lettore che spetta
una decifrazione possibile di questa poesia apparentemente denotativa, quasi
ingenua. Ne deriva un’idea della poesia come immediatezza, urgenza del dire,
perché si è in fondo mossi “dall’attesa che accada la vita”, che questa da
possibilità in potenza possa divenire atto che si compie, svolta possibile.
All’autore spetta trascrivere
diligentemente (ecco il perché anche di un andamento spesso narrativo, quasi
diaristico nell’insistenza con cui si seguono i tragitti, le azioni minime
compiute da Alessia in particolare), a lui spetta riportare i frammenti della
vita anche nella loro evidenza prosaica se serve, perché ogni accadimento è
dono: “Grazie per avermi dettato / questa poesia”, dice l’autore riferendosi a
Mirta. E la poesia si dà in questo suo sapersi porgere al lettore, che la deve
potere e sapere accogliere, nella semplicità del suo esprimersi, come si
“cullano le attese pari a / battelli all’ancora”.
Dal punto di vista stilistico il linguaggio usato dall’autore è saldamente
innervato nella nostra tradizione lirica, a tratti anche arcaico nello sfoggio
di termini desueti, ardito nella costruzione sintattica con frequenti inversioni
latineggianti, iperbati spregiudicati, qua e là impreziosito da termini composti
e/o insoliti (o neologismi?) come quel “fiorevole” che è frequente attributo di
Alessia (o forse è un’autodichiarazione relativa al linguaggio “fiorito” che
l’autore intende adottare?). Il lettore è trascinato in un movimento
ritmico-prosodico molto personale che lo guida nel viaggio di scoperta, nel
percorso iniziatico per sintonizzarsi con queste apparizioni, sempre al limite
fra reale e possibile.
Piazza si schiera al di fuori di qualunque ordine stilistico e contenutistico
precostituito, la sua è una poesia quasi anti-storica e anti-contemporanea per
temi e scelte. Si potrebbe essere tentati di ritenere che voglia essere
coscientemente “inattuale” con questa sua scelta “deviante” di poesia, perché
forse è proprio questa per lui la strada perché si possa (anzi si debba: “il
faut”), dicendola con Rimbaud, “être absolument moderne”. Aldilà quindi di
qualunque giudizio estetico, che spetta al singolo lettore esprimere e alla
critica accreditata verificare, credo che, da soli, questi elementi
contribuiscano a poter affermare l’indiscutibile cifra stilistica dell’autore,
quella che è fondamentale per suscitare la curiosità del lettore.
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Recensione |
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