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Liceali. L'insegnante va a scuola

La scuola e, di conseguenza, gli insegnanti che ancora vivono la professione come una vera e propria missione, sono un osservatorio privilegiato per assistere alle evoluzioni della nostra italica gioventù. Quando all’ardore dell’insegnamento, inteso come insegnamento alla vita più che alle singole materie di studio, si unisce una vera e capace passione per le lettere, ecco il bel libro di Francesca Luzzio, Liceali, appunto.

Ma il sottotitolo sibillino “L’insegnante va a scuola”, lascia sottintendere, oltre al lapalissiano senso di colui – o colei – che si reca nell’edificio adibito ad uso scolastico per esercitare la propria professione, anche che l’insegnante, quello vero, ogni giorno trae insegnamento dai giovani cui impartisce le sue lezioni. Ed è su questo doppio filo che si snodano i veloci racconti che compongono la prima parte della raccolta.

I protagonisti sono talvolta i professori, talaltra gli studenti, tutti alle prese con quell’immane fatica che è il “diventare grandi”, fatica che tocca anche chi grande lo è già, almeno dal punto di vista dell’anagrafe, ma ancora non ha smesso di apprendere, di capire, di crescere. Dalle pagine della Luzzio, traspare netto un forte sentimento di amore verso gli studenti, certo non fisico come rischia di diventare quello della giovane insegnante Lo Cascio, proprio nel primo racconto, e per questo ancor più emblematico, ma si tratta di un amore più puro, stilizzato, imbrigliato in uno schema, e per questo differente, forse talvolta più forte, rispetto a quello materno.

Nello scorrere dei racconti incontriamo studenti oppressi, alle prese con la droga o col primo amore, con furtarelli o violenze, o alle prese con famiglie troppo opprimenti, o tutt’altro che presenti. Molti tra gli scenari che la crescita presenta ad un giovane dei nostri giorni, sono analizzati in modo profondo ed efficace dall’autrice. I racconti, nella loro morale, sono quasi del tutto scevri da giudizi, ciò accresce il loro valore sia dal punto di vista didattico, sia dal punto di vista di testimonianza umana. Infatti la Luzzio si limita a narrare i casi, e a porre sotto la giusta luce quei meccanismi che le sta a cuore portare all’attenzione del lettore, per mostrare quel che succede negli animi e nelle menti dei giovani, e da lì trarre un insegnamento globale, su quali sono i rischi che gli adolescenti corrono e quali sono i metodi che adottano per uscire dalle situazioni complicate o semplicemente per sopravvivere. Mancanza di giudizio, dicevo, e con ciò non vi è una mancanza di presa di posizione, tutt’altro, la posizione è di chi osserva, capisce e trae un insegnamento, non quella di chi si limita a dire sì o no, giusto o sbagliato, perché in definitiva non vi è – quasi – nulla di completamente giusto o sbagliato, vi è solo un tentativo che non ammette prove o cambiamenti, e che si chiama vita, con le difficoltà proprie di chi si sta affacciando su un mondo, quello degli adulti, che già è incomprensibile per chi lo vive, e magari influenza, figuriamoci per chi vi appare per la prima volta.

I racconti, come dicevo, rappresentano la prima parte della raccolta, la seconda è dedicata alla poesia, l’argomento non cambia, ciò che cambia è il metodo espressivo, e con esso la coloritura e la quantità di sentimento cui l’autrice si lascia andare. Perché dico questo? Dopo quanto detto della sezione dei racconti, narrati in modo asciutto e quasi schematico, a tratti quasi con toni di cronaca, in questa seconda parte la Luzzio si lascia (finalmente?) andare, e il suo occhio si vela di affetto, gli spigoli vengono smussati, le labbra si addolciscono in una piega di amorevole comprensione.

Le poesie sembrano quasi essere lo sguardo dolce, talvolta dolente, sulla vita scolastica, su quelle stesse situazioni narrate nei racconti ma, con la loro collocazione al termine del volume, sembrano volerci dire: “Ecco, lo avrei anche potuto dire così”, con più dolcezza, usando un linguaggio più elevato. Ma l’autrice ha forse voluto dare al lettore una prima lettura dei fatti più chiara, nitida e poi ha usato la parte poetica quasi come una colonna sonora, prima la visione della mente, poi quella del cuore. Ed il risultato è davvero molto bello.

I racconti sono narrati con un linguaggio pulito e talvolta conciso, immagino volutamente semplice quasi a riecheggiare le voci che si odono in una qualunque scuola in cui alle dotte citazioni e ad una lingua usata in modo didattico, e quindi un po’ formale, si vanno – inevitabilmente – a mescolare cadenze ed espressioni che appartengono alla calata locale. Secondo il mio personalissimo parere, ma è una questione di gusto mio, le espressioni tipiche dello slang giovanile sembrano davvero un inserimento molto forzato, senza di esse forse (sottolineo forse) alcune parti avrebbero mantenuto un maggior lucore. Ma si tratta di minimi granelli in un ingranaggio narrativo che funziona assai bene ed arriva a toccare il cuore di chi studente lo è stato ma un po’ si sente ancora sui banchi di quella scuola che si chiama esistenza.

Recensione
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