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Perdere il filo, e poi divagando sfregiare, e smarrirsi e schermarsi. Ad esempio, si possono convocare altre auctoritates letterarie, si possono trasgredire – involontariamente – le intenzioni dell’autore (anche quando, come in questo caso, l’autore è prodigo di chiarimenti in appendice). Ma quelle intenzioni possono essere anche deformate con un’altra intenzione, la nostra. Con Vista sull’Angelo di Massimo Scrignòli si è sistematicamente esposti al rischio del travisamento e alla tentazione dell’interferenza indebita. D’accordo, ma l’opera suona come qualcosa che, non banalmente, definiamo un richiamo. Anzi, come qualcuno ha detto – di altri orizzonti spirituali –, un irresistibile richiamo. Ci torno dopo dieci anni, e per farlo devo per il momento scavalcare le prose poetiche del recente Lupa a Gennaio, un’altra opera serrata e criptica, un altro oggetto indelebile. Ogni opera poetica dovrebbe essere letta da una mente infantile che gioca a sentire e sente; da un metricologo, che dà conto delle possibili, e sperabili – e spesso evidentissime – meraviglie foniche e ritmiche di un sistema coeso; e da un dannato della Terra, un incrocio tra Baudelaire o Pasolini e un qualsiasi macellato dall’Occidente. Innocenza, competenza, vitalità, coniugate insieme: nel mio caso, ovviamente, è solo una chimera. Altrimenti o non sentiamo «il suono dei sospiri», o non sentiamo che «tutto è santo» e neppure che «occorrono troppe vite per farne una» (mescolando Petrarca, Pasolini, Ginsberg e Montale). E questa dichiarazione non petita valga come nota a queste pagine. E a questa nota non è indifferente la lettura di Lupa a Gennaio. Le due opere di Scrignòli sono sovranamente accomunate dall’estrema concisione del dettato, che finisce quasi per divenire opaco per eccessivo lumen, impenetrabile per eccesso di stratificata pregnanza, addensato nella pervicace interna arsione di ogni oggettualità semantica e denotativa. Ho detto a che punto sono, ora iniziamo. Nella forma di un racconto in versi – questo il sottotitolo, e racconto rimanda piú a una ritmicità variabile che a un rigido schema di misure sillabiche – Vista sull’Angelo è un dialogo intertestuale interagente con la tradizione sapienziale e con altri sistemi di comunicazione e registri estetici cui Scrignòli presta le proprie ragioni, cosí da amplificare la polivalenza di segni già intrinsecamente arcani. Il sottotitolo dice racconto: cosa ci viene raccontato? L’opera è strutturata in cinque stazioni, quindi fermate, pause di un andare, di un passaggio (Senza ritorno, Il cedimento di Dio, Del Sublime, Del Tempo, La Casa). Stazioni di cinque testi (fatta eccezione per l’ultima, che ne contiene nove), ognuna delle quali profila un tema senza ledere la continuità narrante. Ma l’estensione nel tempo dei costituenti e degli emblemi non sempre è lineare: questa lieve antilinearità narrativa, o, se si vuole, questo ricercato difetto di correlazione tra le stazioni, non comporta alcuna incoerenza con l’assunto – ermetico da lambire l’esoterico – dell’opera. Una intermittente voce narrante si interroga, interroga l’angelo, si inoltra nell’invisibile, qui indugia e di qui arretra, si districa in un coacervo simbolico, traspone e distorce il contenuto correlativo del simbolo, promuove congiungimenti e disgiunzioni. Per quanto questo dérèglement dei significati sarà, con Rimbaud, raisonné, sottoposto a un programma, a una misura, a un criterio: a una regola d’arte. Come ho appena detto, a un primo sguardo Vista sull’Angelo si incrementa anche per sfasature narrative: ad esempio, La Casa, connotazione allusiva di una origine, sta come – problematico – compimento. Mentre la stazione Senza ritorno, che dovrebbe accennare a un compendio di acquisizioni, è in apertura del libro. La Casa è la presa di congedo dal mondo, congedo che tuttavia si combina con un diversamente edotto riammettersi nel mondo. Cosí, i grandi temi inaugurali, sulla cui diffusione il testo si struttura, in epilogo beneficeranno della cognizione di un itinerario, cioè l’esistere, «senza ritorno». Deduciamo questo alla fine del percorso di Bildung, ma eravamo stati avvisati all’inizio. «Cosí io muovo. Vado dove sono»: sarà l’ouverture di Lupa a Gennaio. «La vista: uno sguardo sopra ciò che dall’alto nasce e cade. Sopra l’Angelo, che è portatore di segni ma anche essenza dell’immagine», dice la quarta di copertina. Che riproduce La Morte e il becchino di Charles Schwabe, dove in primo piano l’angelo, le cui ali sono a forma di falce, è palesemente angelo della morte. Che ordisce – con esito multiplo da mise en abîme – un’altra morte, quella di un operatore della morte. E sulla destra si riconoscono le tombe innevate – con propagazione del tema – attigue alle chiese del versante Nord delle Dolomiti (Toblach nell’àmbito di Vista). Si passa per riprese e per ricontestualizzazioni, declinando a tutto campo la legge dello straniamento: soluzione impediente il sopravvento dell’ovvio, sia nella percezione dei vincoli spaziotemporali che nella visione del mondo. Sono in discussione letteralità formale e letteralità morale. Scrignòli tenta un’altra versione, al di là di ogni intenzione logica: evita il confronto diretto con denotazioni letterali, rivela, nel noto, ciò che era tagliato fuori. Come? Deautomatizzando la lingua anche con espressioni situate in anomala posizione sintattica, benché interattive. E allo straniarsi del nome non può non implicarsi il linguaggio angelico, all’umano remoto. Tipico degli angeli, del resto, è il mostrarsi come visitatori provenienti da altre esistenze. Nell’opera quindi vengono a commisurarsi due ontologie, l’umana e l’angelicale, una logica terrena e una logica angelica, alle cui origini risalgono gli esiti metafisici del versificare. La spettralità metafisica ha un risvolto apollineo nella euritmia di ragione ed estasi: ma di un’estasi alla ricerca delle condizioni necessarie e sufficienti del «trasumanar». In Vista sull’Angelo l’isolamento metafisico è esattamente la posizione dei referenti sensibili, delle presenze e delle costruzioni simboliche, delle categorie trainanti e delle figurazioni. Quanto all’umano: di tendenza tutt’altro che antropocentrica, non memorante, acquiescente nell’indeterminazione, pressoché fuori della scena, solo presupposto in qualità di sguardo. Estremamente vago e discontinuo, quindi, e nella condizione di non potersi certificare, è anche l’io lirico codificatore. Scrignòli non vi trapianta il dato biografico, il tratto esistenziale, né il soggetto della enunciazione si scherma nei dati esterni adunati nelle sequenze del racconto. Sulla rappresentanza del self dominano una volontà conoscitiva (l’angelo è custode dei segreti) e una ansiosa volontà di trasumanazione. Ora, se da un lato Scrignòli pare condividere con la pittura metafisica l’enigma dell’ora, l’idea di un presente che passa e non collima con l’effettiva durata di una temporalità non cosmologica (l’iterazione ne costituisce l’effetto piú immediato), dall’altro se ne discosta per rifarsi al procedere circolare di Eliot, che nei Four Quartets coglieva un’altra intemporalità, un tempo senza tempora, la convergenza di transitorio ed eterno, circostanza accreditata dal fatto che gli elementi – quelli persistenti e stabili, e quelli, non per questo minori, o intrinsecamente labili o tendenti a digradare lungo l’opera – del catalogo allestito in Vista ritornano in reciproca interazione, senza mai patire effetti di congelamento dei significati e delle dotte connotazioni allegoriche di un nome aggiornato non sappiamo a quale tempo. E contemporaneamente il racconto di Scrignòli potrebbe andare all’infinito tornando continuamente su se stesso. Anisocronie diffuse e diseguali attribuzioni di tempo a ogni contingenza investono anche questo racconto in versi. Ad esempio: quanto tempo copre Auschwitz, quanto «il cammino di chi non si arrende», e quanto la parola ottobre? C’è un inavvertibile ed incorporeo margine che delimita la visuale sull’angelo: un diaframma marca la divaricazione tra due mondi per alcuni versi adiacenti. Angelo è conoscenza, «essenza dell’immagine». La definizione rientra nell’uso della tradizione ebraica in relazione alla icona dell’angelo che appare e scompare, ed è comunque solo in funzione della gloria di Dio. Ma qui siamo fuori di ogni ordine e gerarchia e schiera celesti, lontani dal coro angelico – in Vista la designazione cherubino non ha nulla a che vedere con la beatitudine eterna, ed è per due volte allusiva di morte. Non c’è piú il Dio da contemplare, di conseguenza non c’è piú alcuna scienza divina di cui fruire. L’angelo, tradizionalmente sostegno spirituale dell’umano, vive al servizio di Dio e gode della sua adorazione. Nulla di tutto questo in Vista sull’Angelo, dove «distratta» e «smarrita» è anche la figura-guida dell’arcangelo, e smarrito è il senso religioso della vita. (Per contro, l’elogio – da parte di Cesare Guglielmo – della parola angelità introdotta da Luigi Bartolini: «una derivazione diretta, di primo grado» da angelo rispetto ad angelicità, che deriva da angelico comportando, con l’ulteriore passaggio, una dispersione di senso. Angelità implica sia un maggiore livello di idealità, sia una maggiore tangenza allo spirituale, e quindi, da quest’ultimo lato, apre a una piú intensa eticità dell’esistenza). Se ogni nome comunica un’essenza o una funzione, angelo è colui che adempie alla funzione di messaggero, servitore divino, e a lungo l’umanità ha creduto nel carattere di unicità di questo mandato. Ma che resta in Vista della devozione agli angeli? E chi colmerà la distanza tra mondo e sovramondo? Gli angeli mimetizzati di Kafka, «gli aiutanti», nella loro oscillazione tra l’inquietante e il clownesco, non aiutano, accentuano anzi l’umano sconcerto. Impassibili garanti della burocrazia, sono declassati nella stessa misura del sovramondo – un divino degradato – di cui sono intermediari: annunciatori di un altro sfacelo – questo, in Vista, in séguito al «cedimento di Dio». L’angelo di Scrignòli a tratti sembra mostrare qualche affinità con l’Angelus Novus di Walter Benjamin cosí come Massimo Cacciari lo sorprendeva nel memorabile L’Angelo necessario: «L’Angelus Novus va all’Aperto, con lo sguardo rivolto all’indietro. Una profana attenzione per ciò che a noi è destinato, per la nostra Geschichte, lo ha cosí rigirato. Un vento – pneuma e spiritus ou-topici – continua a trarlo là dove origine e meta coincidono. Ma questo ‛ubi’ non si riflette piú nel suo sguardo. Ora è perfetto non-dove. E soltanto questa perdita o assenza gli permette di farsi interprete, o, forse, meglio, immemore figura, cifra, impresa della catena delle nostre catastrofi. Rivolto ad esse, le porta con sé, ins Freie. Le salva, le libera. Non è cosí rigirato, dunque, per dire addio semplicemente, ma per trasporre in sé, verso l’Aperto, la cosa perduta, l’assenza, per salvare dalla “puttana ‛c’era-una-volta’” il volto assente dell’amata». Tuttavia, se l’«angelo della storia» si volge a un passato di cui vorrebbe riconciliare le rovine, ma le sue ali sono sopraffatte dalla tempesta – il progresso – che lo spinge verso quel futuro dal quale distoglie lo sguardo, l’angelo di Scrignòli è «seduto sul silenzio», un silenzio immemorabile e senza storia, è «abbracciato alle ginocchia, arenato / nel segreto delle sue ali». Angelo estenuato, spossato, immesso anch’egli nel caduco, nella mortalità. Nel tradizionale visiting angel all’umano viene indicata la soglia del trascendente. L’angelo di Vista non ha l’indole dell’essere angelicale montaliano in quanto fa astrazione tanto da contingenze biografiche che da identificazioni esatte. Scrignòli rivisita la folta angelologia poetica da un altro profilo, quello della osservabilità. La vista, infatti, è sull’angelo, non è dell’angelo. Sull’angelo che fa trasumanare la vista e che ci scorta verso la morte. Ma la nostra vicenda di vita e di morte riguarda anche l’angelo, e a confermarlo basterebbe l’immagine di copertina del libro. Nella quale l’angelo è deviazione dalla nostra prospettiva preferenziale, la vita. La vista si focalizza sull’angelo, cioè – nelle confidenti intenzioni umane – sullo stato eidetico delle cose anziché sulle cose commiste ad imperfezione. Ma cos’è la vista? È il socratico daimónion, un incrocio tra la voce angelica e la coscienza? Ed esattamente, chi è che guarda? Forse, chi guarda è ciò che avanza dell’umano dopo la sua uscita dal mondo. Mentre gli altri costituenti del mondo perseverano almeno nella loro concettualità simbolica: mare, fiumi, alberi, città, e, emblematicamente, biblioteche. «Per uscire dal mondo dobbiamo / intuire decifrare tradurre». In che senso dovremmo intendere questa inderogabile uscita dal mondo? Ai fini di una interrogazione non adeguatamente posta sulla identificazione dell’essenza del limite (si veda la prima nota). O di una riflessione sulla finitudine, in ogni caso causa di felicità: perché la finitezza consustanziale al terreno è comunque un fattore dell’esistere e del perdurare. Cosí Franco Rella: «la caducità è la forma della vita terrena. Non è assenza di vita» (nota alla IX delle Duinesi). Vista sull’Angelo è una meditazione sulle cose ultime che malgrado la ripartizione in stazioni fluisce – complice la rarefazione delle pause sintattiche – a partire da una terzina del Paradiso di Dante: «Comincia, dunque; e di’ ove s’appunta / l’anima tua, e fa’ ragion che sia / la vista in te smarrita e non defunta». Come si ricava dalla citazione dantesca in esergo, lo sguardo dell’interprete, benché straniato e abbagliato dal mistero e dalla densità dell’espressione, deve sí epochizzare le proprie geometrie e i propri vincoli, ma non per questo nebulizzarsi in pura tenebra informe. Non a caso, il canto XXVI del Paradiso ha a che fare con il linguaggio, il testo, l’interpretazione, sia nella loro propria e primaria accezione linguistica e segnica, sia nel loro orizzonte apocalittico e metafisico. Nella loro tensione tra Alfa e Omega. Come posso trarre dal commento anarchico di Massimo Sannelli a Dante, questo è un punto capitale, in forma di doppio imperativo: bisogna iniziare a dire, bisogna modellare la propria attitudine. Dante è momentaneamente privo della vista, quindi con un senso in meno (oggi si chiamerebbe handicap, allora si chiamava prova mistica). Cominciare in Dante è praticamente un verbum dicendi, e in piú indica la condizione del poeta, cioè Dante stesso (già nella Vita nova: «dimorai alquanti dí con desiderio di dire e con paura di cominciare»). Chi ben comincia, per Dante, è ben parlante. E si parla per influsso di Amore: e Amore è Dio e Dio è Amore. Quindi chi comincia bene (chi comincia a parlare, e cioè chi parla) è un degno fedele, e poeta, e amante dell’amore. Tutto questo per quel gioco di riflessi per cui Dio-favella-Amore-poesia-devozione, con tutti i loro rapporti, anche postumi, sono la stessa cosa. Questa speranza attraversa anche Vista sull’Angelo? Ogni inizio risale da lontano. Qualcosa di simile leggiamo in Lupa a Gennaio: «Ha inizio nuovamente in una parola. Viene da lontano, la sola che atterra da un silenzio maternale. E respinge ogni possibile teoria, fino a quando il fondo, in noi, diviene cima». In Vista l’abbastanza inusuale incipit reso con la congiunzione coordinante copulativa può significare la prosecuzione di un discorso iniziato altrove («E tuttavia», come dire in continuazione, senza interruzioni), o un ripensamento o un tirare le conclusioni. E l’opera, per assurdo, potrebbe costituire un paragrafo di una trama che prosegue. Ma il sintagma inaugurale può avere valore avversativo o marcare un parziale contrasto verso quanto idealmente precede o è preliminarmente presupposto. La situazione è ellittica: si è perso l’inizio, o qualcosa è stato taciuto. Ma dove era stato detto? Scavalcando la Vorgeschichte, è Scrignòli ad introdurci in medias res: «dovremo // intuire // decifrare // tradurre / l’angolo minimo di tempo dove // il pane è una luce verticale». L’intuizione – la risalita del fondo in Lupa a Gennaio? – ha scalzato l’intelletto sovrano: responsabile, quest’ultimo, di screditare il dominio dell’immagine. Si tratta ora della tensione nell’instillare alcune proprietà dell’esperienza ordinaria nella verticalità del vivere e del sentire? O di lambire un sapere cui si accederebbe solo nella prospettiva di una uscita da un mondo scevro di verità umana? Oppure della percezione del convergere di origine e fine? O dell’inesistenza di una fine – o di un fine – nel tracciato? L’itinerario è arduo, e pervaso di una visionarietà blakeiana. Ci sono segni da decifrare in un quadro di radicale azzeramento dell’oggettivo, in un universo semantico fondato su arcani codici: porte assenti, scale da scendere. Il luogo della fenice, allegoria del ciclo della vita, della morte e della rigenerazione, e quindi dell’immortalità: ma che non riguarda noi. E un triangolo, termine categorico e modello di perfezione divina, astrazione. Antonomasticamente, mistero, qui mistero della coscienza del limite. In particolare, triangolo è il divino che ha facoltà di mediare tra creatore e le forme sensibili. E dimora della fenice, cioè di uno sguardo secondo sul trasumanare. Là dove «il dubbio della ragione», come detto nelle Annotazioni, non è un limite proibito, ma occasione stessa di trasumanazione. E accadrà di uscire dal triangolo «in un’altra parte del giorno». Dal punto di vista del triangolo la vita è solitudine, uscendo dalla fenice è indifferenza sovrana. È illusione («rondine illusa»), ossimorica «rosa di sasso», sensibilità e bellezza pietrificate o deflagrate al loro interno, perché la verità non è di pertinenza degli umani: desolation Angels, gettati nella vita. Ogni angelizzare destabilizza. La costellazione angelica del Novecento ingloba Klee e Scipione, Quasimodo e Licini, Rosselli e Woodman... Rafael Alberti, i suoi «angeli d’ombra», buoni e rabbiosi, feriti e bugiardi, disillusi e invidiosi, in crisi oppure sconosciuti, morti o sopravvissuti: gli esseri amati e perduti, i nostri pensieri e moti profondi. Stimmungen allucinate, stralunate, barlume del mistero che ci assedia. La costellazione angelica è estesa, e lo è per l’evidenza di due necessità: manifestare il bisogno di soccorso (angelo custode, sodale nella solitudine), da una parte; ammettere la tragedia della caduta, dall’altra. Caduta degli angeli, perché un ampio capitolo del Novecento è cosa da angeli decaduti. «Unire unire unire», Scrignòli enfatizza, «confondere gli occhi del sonno / con l’occhio del corpo quando il corpo / si apre allo spazio infiammato / del buio». L’iterazione degli elementi è un esercizio teso alla ricerca della verità, di qualcosa che non varia. La ripetizione, oltre e piú che figura retorica, è figura gnoseologica e ontologica, paradigma dell’essere e dell’eternità come in Parmenide, dell’angoscia come in Leopardi, della resurrezione come in Dante, dell’immobilità come in Montale e in Luzi, dell’eterno ritorno del diverso in Sereni, della nevrosi come in Sanguineti o in Rosselli e in Zanzotto. La struttura del linguaggio riflette quella dell’esistenza. Qui la martellante ecolalica potrebbe accentuare un anelito a una unio mystica. Comunque: fondere, non dissimilare, il sogno dall’esperienza, anche il sogno è portatore di significato e di conoscenza. Straniamento è la dimensione propria del sogno come, anche qui, preludio a nuova nascita: il risveglio. E come nel sogno, qui il tempo è fuori tempo, seppure si cerchi di ricostruire una qualche cronologia nella scansione, per altro simbolica e con lievi retrocessioni, delle stagioni. L’angelo è in contatto con lo spirituale dell’umano, e con l’umano parla solo nel sonno, attraverso lo straniato codex del sogno, scisso dal mondo e partecipe della poesia. «Il sogno è l’infinita ombra del Vero»: Pascoli nel conviviale Alexandros. Fuori del logos, Scrignòli sembra dire di rimando, c’è la possibilità «di un incontro straniero e fertile». Vista sull’Angelo è un sogno? Condivide con il sognare quell’addensarsi di situazioni trascinate nella loro stessa negazione, di atmosfere inverosimiglianti. Insieme alla forma di un resoconto che sembra proseguire mentre muove all’indietro. «Se il sentiero del ritorno avrà un pensiero / sarà un’iscrizione vuota». Un vento improvviso e oscuro si intrattiene «con la presenza / di una parola isolata»: è settembre, e ancora vivo «il ricordo di vele bianche». L’ipercodificato vento assiste alle circostanze alterne dell’umano e sopravvive alla sua sparizione. Il vento è diversamente allusivo: è trama di voce, illusione, intrasparenza, attesa, confine, profezia. E per abusio traduce il respiro della vita. L’assenza di sbarramento – che il «dubbio della ragione», con i suoi aut-aut, in altri luoghi edifica – viene resa con l’icona del vento, che simboleggia un trascorrere privo, contestualmente, di interposizioni e di orizzonti di superamento. L’angelo stesso è essenza di vento, sostanza eterea, ariosa. «Cenere», cioè scorie mortali, e rovina, «nebbia», ottundimento, nascondimento, ma anche «musica» stanno piovendo sulla strada disfatta. E l’incerta figura angelica che «sembra / il canto in fuga di un viandante» diviene, quasi per ipallage – nello scambio tra pietra e angelo –, vigilante sul sinestetico «azzurro seme del grano»: azzurro come l’infinito, congiunto alla quotidianità a portata di umano cui il «seme del grano» rimanda (nei versi di esordio, e piú avanti: «il pane è una luce verticale»). Tuttavia, l’albero millenario delle pagode guarda l’angelo «e scolora / tutto il suo infinito». Per Goethe la Gingko biloba esprimeva l’unità degli opposti, sintesi di unione e separatezza, data la forma lanceolata e bimembre delle sue foglie. «Ma la verità si è fermata nel grano» e l’umano dovrà testimoniarla attraverso un «trasumanar che rapisce la vista / e consola». Quindi, volgendo lo sguardo verso l’alto, la trascendenza (in tal senso «rapisce la vista») e appunto per questo «consola», distogliendoci dalle terrene ansie e brame. Ma la vista è anche sul mondo, sulle cose. Il male del mondo ha dato luogo al «cedimento di Dio» (e viceversa): si potrà ancora dire «che la luna splende come neve innocente»? E trascorrono sulla frontiera del sogno gli «specchi di Auschwitz». L’introduzione del vetro rientra in una strategia di delineazione derivata: Scrignòli ridescrive a partire da riflessi e rifrazioni delle cose e delle voci. La dimensione dello specchio è ambiguamente elusiva: lo specchio non trattiene le cose, che vi scivolano via. «Le voci sugli specchi non si fermano / passano e neppure le ombre / toccano la terra». (Analogamente all’ossimoro, che tende ad armonizzare i due opposti, lo specchio diversifica ed identifica: la dualità è data dalla trasmissione-proiezione di noi nello specchio. Il significato diviene incerto – «non vedo non sento / loro che pure mi guardano / mi ascoltano» –, doppio, ma nell’amalgama dei contrari l’antitesi è sciolta e trascesa, e trasformata in energia semantica, proprio in virtú della combinazione dei predicati). Come le voci sugli specchi, scorrono i fiumi del poeta (con riferimento esplicito a Ungaretti), fluiscono verso un’immagine di eternità fruibile in termini di suono, di ritmo poetico, e accolgono gli armoniosi resti di Orfeo, colui che conosce il segreto. Perché in ogni caso non è possibile schivare lo specchio, dove il nostro sguardo si coagula e prende senso, e svela l’autentico profilo – ma, con de Beauvoir, cosa vuol dire autentico? – della nostra anima. «Intuire decifrare tradurre»: l’umano e il suo linguaggio, qui, il nome della poesia. La nominazione – sorta di antilógos, da cui «intuire» – colma la nostra caducità. E gli invisibili angeli di Rilke, indifferenti all’umano e a lui trascendenti, nella IX delle Duinesi sono ignari dell’umano linguaggio che ha dato un nome e un senso al latente delle cose del mondo. In Vista sull’Angelo è assente sia questa algida distanza tra l’angelico e l’umano, sia il proposito di commutare i dati della realtà e della memoria in correlativi invisibili – traduzione, in Rilke, realizzata dall’angelo. Questa distanza sensibilmente sfuma in Vergers: quasi visibili, e quasi sempre nei pressi, gli angeli dei versi francesi di Rilke. A tratti l’angelo di Vista assume i caratteri degli angeli di Klee – specie dell’ultima sua fase creativa – con i quali alludeva all’apprendistato della morte ed effigiava una riflessione sull’aldilà. Tuttavia, in Klee l’angelo era spesso aspirante tale, inconcluso, sperimentatore, labile entità «ancora muliebre» o «in divenire», «dubbioso» o «richiedente», «militante». Angelo come trasparente emblema di incompiutezza, dell’arreso di fronte ad obiettivi non condotti a termine, quindi Armer Engel. E la condizione di attesa rimanda alla questione estetica, al senso dell’arte come fatto sciamanico. Il carattere di provvisorietà e di medianità tra l’umano e il superiore denota una sospensione costitutiva: come l’angelo, anche il poeta è sembianza di trapasso (scale e ponti in Klee), con competenza in entrambi gli stati. La poesia – in linea con l’incipit della Conferenza di Jena: «L’arte non riproduce le cose visibili, ma rende visibile» – è allora luogo del trasmutare da una dimensione puramente empirica a una dimensione originaria, incognita e da esplicitare – da qui, in Vista, «decifrare». E l’airone quasi bassaniano, altra figura alata, «sa che i solchi della vita / sono luoghi profondi / nell’aria». Si chiede Scrignòli, nella stazione Del Sublime: «Cercheremo le tracce? Dove / cercheremo le tracce / di questa perduta natura? // Quale segno imitare, se tutto ciò che è terribile / invecchia cosí presto… // (Tutto? fosse anche un Angelo?)». L’epigrafe di Edmund Burke – che Scrignòli sembra sottoscrivere – formula l’equazione terribilità-sublimità, d’accordo. E la concezione del sublime non è qui quella kantiana di una categoria artistica, né, in senso piú generale, il sublime costituisce un sentimento estetico che sorge dall’urto tra intelletto e immaginazione, tra ragione classica e infinito. Facciamo un sensibile passo indietro, e rimettiamo in campo lo Pseudo-Longino: essendo il pensiero e il sogno gli àmbiti da cui si originano parola, rêverie, visionarietà simbolica, il sub limine configura – scriveva Matteo Veronesi – una non solvibilità: ciò che è appena sotto la soglia – soglia, non confine, Walter Benjamin docet – rimarrà imbrigliato in questa tensione a trascendere. Sublime è ciò che aspira ad elevarsi restando irremovibilmente nello spessore variegato della soglia, sublime è la sfera da cui parola, silenzio, suono, gesto, forma o colore vanamente cercano di emergere, condannati a permanere, sfolgoranti ma non nominabili, in uno spazio «oscuro per eccesso di luce». È a questo luogo di tensione – l’incursione nel sublime – che in Vista si allude come a un «momento di un’attività profetica»? A questo tendere, ancora, oltre la letteralità? E la poesia è oltre – ultra – per definizione, sconfinante e fluttuante, o in modo nobilmente sublime oppure in modo giocoso-performativo-antiretorico: perché è inconcettuale. Risalente de profundis o rivelazione di uno jenseits der Dinge, sottrae il nome allo sbiadimento ad opera della comunicazione ordinaria. Anche l’albero, simbolo di perennità nel suo ciclico mutare lungo le morte stagioni, è malato, «e tutto quello che resta è poco», «un pensiero di Dio», «forse», stentato e in un contesto di antitesi («un largo istante»), in un luogo «dove noi / non possiamo rimanere». L’inverno «è la stagione giusta / per curare le trasparenze del viola» (viola è il colore della copertina del volume). Negli «occhi blu» della «Cherubina del vuoto» naufragano i due colori dialettizzati in Vista, il viola del finito e l’azzurro dell’infinito. Anche qui, l’omologia viene dalla sincronia dei contrari. La «Cherubina del vuoto» entra in Toblach con la musica di Gustav Mahler, e non solo dei Kindertotenlieder (che dopo Auschwitz assumeranno tutt’altro e piú fosco colore), richiamo ancora piú desolato. Toblach è silenzio recondito infranto solo dalle voci della natura (se non inibite dallo spesso strato di neve), in cui l’armonia assume il suo corpo inafferrabile e la terra leva il suo canto segreto – con Mahler, Il Canto della Terra. Oppure, per dirla con il Corazzini di Toblack, silente lido dell’attesa, sfera, livida e insieme assolata, della dissoluzione: «...E giovinezze erranti per le vie / piene di un grande sole malinconico / portoni semichiusi, davanzali / deserti, qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale». (Come in Vista, anche in Toblack i versi di esordio suppongono una antecedenza, quasi la congiunzione che segue i puntini sospensivi rivesta la funzione di saldare a immediati precedenti altri elementi di un elenco ossessivo, scandito dalla virgola: ritualizzata cadenza per dire la musica sepolta, l’andare del tempo e delle cose). È venuto meno il confine tra i due regni, le voci si confondono. È tempo «di capire / il pieno del vuoto»: di interpretare e ridescrivere la voce delle acque del fiume nelle invernali tinte incompiute. «Le parole di Rilke si riflettono / e cadono sulla cornice con un sorriso / verticale, conservando il viavai / incolore tra angeli vivi e angeli morti». Là dove forse l’angelo vivo e l’angelo morto – idea, il secondo, di dispersione e di melancholia dell’essere – sono le due forme del medesimo stato angelicale, che è poi l’umano, angelo caduto, che risale al cielo, essere che «si semina corpo mortale, rinasce corpo spirituale», come dice San Paolo. Il tutto viene però riletto da Scrignòli in chiave terrena. Il trasmutare e il trasumanare consistono in una pulsione non di superamento dei limiti dell’umano, ma di valorizzazione del mistero della loro insuperabilità. Trasumanare senza avere la certezza, dogmatica e rasserenante, e quindi limitante, della condizione oltremondana. La freccia del tempo trascende e fagocita, fino ad annullarlo, l’istante vitale, quello che Faust si illudeva di poter trattenere per sempre. Ora l’istante è in ogni momento già divenuto, traguardato – volgendosi fatalmente come Orfeo alle soglie dell’Ade – dall’angolatura di una visione postuma. È solo polvere, dimenticanza, ostensione dell’ assenza, «specchio di ghiaccio». La polvere vorrebbe soffocare persino la biblioteca (e ci sovvengono gli angeli di Wim Wenders – benché in Wenders siano gli angeli a guardare noi – quando si incontravano alla biblioteca di Berlino), dunque la memoria, la pagina, la parola, le sottolineature delle parole nella pagina come tracce dell’umano passaggio. Ma «il fiume ci riporterà intatto / il mare», se un angelo è «caduto oltre la soglia / della primavera», della rinascita. Vivere è transitare speculativamente «dentro e fuori la vita», poesia è la nomenclatura di questa percorrenza. Anche il canto XXVI del Paradiso si richiama all’orizzonte apocalittico della beatitudine, che sarà completa dopo la distruzione dell’universo, per la sua funzione purificatoria. (Anche se di rigenerazione come occasione terrena nel libro di Scrignòli si può parlare in termini apocatastasi – in contrapposizione all’apocalisse, alla rivelazione – in quanto induce a sperare in una evenienza soterica, mentre l’apocalisse agita di fronte ad ognuno lo spettro della dannazione, rappresentando il definitivo trionfo del bene sul male, la definitiva cacciata del male nell’abisso della dannazione eterna). Il conseguimento di una piena beatitudine presuppone l’immersione nel guado, per quanto doloroso, del tempo, della storia, dell’umano. Come l’angelo di Wenders che ha deciso di diventare umano, accettando la morte, nella risoluzione a risalire il fiume, espressione che sa di un’antica massima umana con la quale a un certo punto avviene di fare i conti: «Avanti, nel guado del tempo, il guado della morte, noi che non siamo ancora nati scendiamo dalla torretta. Guardare non è guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhi». Il declino dell’umano, percepito finora come una eco marginale, culmina qui, e da questa catabasi terrena tenta di levarsi in nuove trame. La Casa, infinito crocevia, punto di rifrangenza di elementi eclettici e fattori contestuali, è luogo metaforico in cui non resta che «un solo // muto // alfabeto». Alfabeto allora, e non parola: questo «muto alfabeto» potrà ancora comporsi in parole? Si è nella condizione – da Allen Ginsberg – «to recreate the syntax and measure of poor human prose»? Cosa hanno in comune l’opera letteraria e La Casa? Ciò che è presente e vivo dell’esistenza è da considerarsi solo una variante svalutata del passato? L’omissione, ciò che è passato sotto silenzio, «i nomi degli anni infedeli», costituiscono questo racconto in versi, dove, cosí come nella Casa, nulla è adempiuto? Quella dimensione che pareva onnipervasivamente ombrosa e introflessa cambia lievemente di segno con il riferimento alla figura tarkovskijana di Nostalghia: «Andrej accende ancora la candela / è tempo di allontanare ogni cosa. // La parola s’incendia, la pioggia / attraversa la casa / ma non consuma la candela / né le voci dell’acqua». Versi, questi, che idealmente si ricollegano alle tarkovskijane superfici liquide da attraversare e all’elemento igneo come dramma del dissidio tra l’immobilità del corpo e le aspirazioni dell’anima. In proposito Scrignòli chiarisce nelle Annotazioni: «e quando durante il tragitto il vento spegne piú volte la candela, Andrej ritorna al punto di partenza per riaccenderla e riprendere il “viaggio”. Simbolo dell’agire e del fare, atto catartico estremo». Trasportare, salvaguardandola, una significanza che non resti in ombra, perché il fare non smarrisca il suo senso. Acqua è l’inconscio, diceva Jung. Benefico flusso vitale quando non intralciato nel suo scorrere mai conforme a sé. Catartizza, procura un approdo. È il tempo stesso: fa nascere e fa cambiare, dà e toglie la vita. Se si arresta, si arresta anche la vita. La simbologia dell’acqua torna in Lupa a Gennaio nelle diverse accezioni, ed è la stessa acqua, sempre. La stessa di Paul Celan: «l’acqua ammutolita della Senna». E «da mille anni l’albero delle pagode / osserva l’Angelo seduto sul silenzio». Il silenzio dell’angelo è l’enigma metafisico che trattiene la propria rivelazione. E il senso del segreto è l’alfabeto, «muto», «infedele», «perduto», quell’alfabeto (lo scioglimento del silenzio nella creazione letteraria?) che fu dono degli dèi prima di ritrarsi dal mondo degli umani, un «soffio antico», un «dolce trasumanar della vista / su questa terribile felicità». Explicit liber. «Trasumanar» può essere infelice? L’ossimoro mette in guardia: diventerai un dio, ma sarai un dio triste – e l’idea di tristezza viene richiamata dall’attributo dolce, che rimanda all’identificazione dolce-triste cosí spesso frequentata in poesia. Inoltre, con Dante, la trasumanazione si potrà «significar per verba»? Angelizzare è l’atto poetico («ispirazione che riguadagna il cielo», «commercio con il cielo», come in Mallarmé) che media tra immanenza e trascendenza, materia e sovramateria, alla maniera in cui oscilla tra l’espressione e l’enigma secondo il paradigma angelicante, per cui conoscere è sapere della caducità. Vista sull’Angelo si avvia alla conclusione con l’incalzare di presenze vegetali e animali, voci surrogatorie dell’umano uscito dal mondo, annientato nella sua contesa con la natura. E alla fine delinea – ma con quale speranza? – uno spostamento di egemonia nella prospettiva del nominare, del configurare un nome che interpreti le rovine della storia per una piú impegnativa Nachgeschichte. Quindi, rispetto a ciò che accade, o non accade, o che deve ancora accadere, i giorni a venire saranno tutti da risillabare a partire da un disegno trasumanante (di qui, il terzo elemento della triade normativa di Scrignòli, «tradurre», portare oltre). «E l’uso della memoria, le somiglianze / antiche che ci liberano dal futuro, tutto // tutto questo ha valore solamente se accade / là dove la parola non si spegne. Enigma / nell’enigma, luce sfogliata tra un’eco d’ombra / e il fiato di una parte di vita dimenticata». Riferimenti
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