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Senz’alfabeto

Prolegomeni

La scrittura vera, in immagine, inizia nel IV millennio A.C. con le tavolette sumere, sia per pittogrammi che per “fori” con infissi pioli di legno atti ad evidenziare calcoli. Nel 3000 A.C. vere e proprie proto scritture su lastre di rame sono presenti in India. Dal 3000 A.C. fino al 2500 gli Egizi, sulle rive del Nilo, elaborarono la “scrittura degli Dei” che darà origine ai geroglifici. Dal 1000 al 700 A.C. l’alfabeto fenicio dà origine alla lingua greca ed al suo demo-alfabeto dotato di vocaboli. Ma saranno gli Aramaici gli antesignani della scrittura ebraica ed araba, fino a quando il latino farà la prima apparizione sulla “pietra del foro romano”. Nel Medio Evo, la scrittura “carolina e gotica” esporterà il latino nell’Europa occidentale, mentre ad Est nasce l’alfabeto cirillico. Riportiamo questi antefatti storici al fine di comprendere quanto l’alfabeto sia legato alla scrittura e quindi allo sviluppo dell’evoluzione umana, per cui essere senza alfabeto ha la significazione dell’Anterem. Anna Maria Guidi, senza dubbio, ha voluto intitolare la sua raccolta, metaforicamente Senz’alfabeto quale luogo dell’assenza e punto della memoria senza tempo e senza luogo, tutto da recuperare a partire dall’ “ante”. Da subito ci appare evidente, quanto l’uso dello scrivere sia per la poetessa creativo, immaginifico e metafisico, semanticamente e semiologicamente, poiché le ha permesso di adire alla propria originaria vitalità, attraverso un’espressione che contiene anche il silenzio, verso una terra di frontiera, dove i nuclei alfabetici del comunicare ci rivelano come si possa vivere per frammenti espressivi, nati ancor prima del pensiero, là dove si colloca la poesia, che anticipa il movimento infinito della parola estetizzata anche diversamente, spesso per neologismi, capaci di dare corpo a stati d’animo e emozioni per interazione verbale, più ancora del tradizionale processo di rappresentazione, per cui il titolo dell’opera diviene vera e propria entità polisemica che va ad inquadrarsi in un ampio discorso di natura speculativa, la cui semantica ci riconduce allo “spleen”, alla diaporia, all’inquietudine esistenziale. Citiamo ad esempio integralmente la lirica che sigilla la preziosa raccolta e che ne ha lo stesso titolo: “radiose assumo / particole d’aurora / in lieviti di cielo delibando / sempre fresca la fame / del pane dell’esistere: / assolta le parole / a corpo libero assumo la vertigine / della nientitudine plenaria / che illimine crepuscola e inalbica / nell’imprimizio ver(s)o / che in tace il sogno dice / senz’alfabeto”.

La copertina

La scelta della copertina, riproducente un olio e pastello su tela di Francis Bacon, dal titolo “Seated Figure” del 1974, ci appare già come un mantra. Infatti l’inquietante fissità dell’immagine dipinta, sullo sfondo l’inorganicità tabulare del bianco, che tutti i colori contiene, in prima evidenza una asessuata figura, di fronte alla quale un’appena intravista speculare immagine, ci appaiono come simbolo che riquadra e dequadra, stacca e confronta, cristallizza il tempo, temporalizzando la cristallizzazione stessa, e preannuncia uno spazio emotivo condiviso tra dettaglio e visione d’insieme, che si carica di per sé di una intraducibile “stimmung”, quale regressione a tempi d’animismo primitivo, quando ancora nell’umanità non prevaleva il “genere”, né vi erano repressive regole rispetto ad esso, né arti della rappresentazione e dell’evocazione, tra il niente ed il niente.

Gli exergo

I versi degli exergo presenti sono ripresi da “Poesie della crudeltà” di A. Artaud, citati rigorosamente in francese, servono da guida e sono fiume carsico che scorre e lega le sezioni, assolvendo al compito di voce fuori campo, funzionale all’interpretazione dei testi, che si rivelano come orizzontale viaggio, già iniziato con le precedenti raccolte, delle quali restano ben presenti le cicatrici, o dove l’amore e morte continuano l’eterno gioco della vita, portandosi dietro, letterariamente, uno sciame di pensieri ed una seducente levigatezza, del tutto guidiana, delle immagini.

Le liriche

Le liriche sono per lo più di carattere epigrammatico e sembrano spogliare un tempo che le coglie e le accoglie, facendo sì che tutto si trasformi in modo palpitante, mentre l’insieme, scorre nei versi per sottrazione e addizione, moltiplicazione e frammentazione, rivelando le pause del silenzio, che nella poesia di Anna Maria, diviene “echemetia” cioè silenzio interiore. In tal senso, la poetessa prova ad indagare il lento fluire, stando dentro alla sua sospensione, dove è capace di ritrovare una traccia, quale via di momenti imponderabili, secondo la creazione poetica del reale e delle piccole, grandi cose del quotidiano, che oscillano tra immobilità e movimento, che minuziosamente si disegna, dando vita ad una personale animazione che ha l’ossimorico effetto di fissità, poiché la poetessa, tramite neologismi tende a de-costruire la realtà, che finisce per configurarsi come “décadrage”, disinquadratura funzionale alla narrazione. Ne facciamo un esempio, tra i molti possibili, con la lirica “Singolar tenzone” dove è scritto: “a singolar tenzone / in zumate di piume ti-tubando / disfidano i piccioni / in piazza Signoria / assatanate mandrie di turisti / sguainati all’assalto / dell’assolata inerzia del Biancone”, nella quale il fermo immagine diviene istante vivo, come fotogramma filmico. Ed è così che la raccolta sviluppa una storia, quella autobiografica, simile al non-ritmo dei sogni, costituita da frammenti, da dettagli tendenti alla compiuta linearità della narrazione, tesa a registrare il flusso interno del movimento e la sua quotidiana orizzontalità, tra associazione e visione d’insieme, destituita di pateticità e permeata da un tempo litotico. Citiamo ad esempio la lirica “L’obliquo struscio” che recita: “cedua rampica il monte / la solenne baldanza della quercia / così l’obliquo struscio / della carne mortale: / materia in maschera / a corto passo a spasso / sull’inteschiato corso / del serotino carnevale / fuco la vita / feconda e regge / la morte ape regina” dove la parola poetica prova il proprio illimite eccedendolo, secondo natura e morte, in rapporto di tensione tra loro. Anche l’amore attesta, in modo inusitato, la propria inseparabilità ed eternità, sia pure attraverso il sogno e la declinazione instancabile del nome, citiamo ad esempio i versi-cuore di “Mendace appartenenza” che recita: “… incognito rabbi senza volto / di spalle a guardia dei suoi sacrati altari / benigno confidando a noi affida / l’offertorio dei suoi riti di grazia: / acerbe spighe / da maturare in campo / della mutua rinuncia / al possesso del grano…”, dove nell’atemporalità del sogno, che è poi il mondo di Parmenide, avviene lo svolgimento continuo del pensiero, secondo l’affezione del vissuto, che si riafferma in una enigmatica purezza che affascina, rendendoci conto di emozioni forti vissute, da una sensibile personalità.

Voici passer l’Ange / Et le ciel qui s’en vient vers nous”. Questo l’annuncio dato dall’exergo delle liriche: “l’assaggio”; “albico stupore”; “fiocco senza nodo”; “il pedaggio”; “riconciliazione” che di per sé è già una interpretazione. Infatti in questa sezione la disposizione d’anima non si riduce alla sua Epifania, poiché si carica anche di una forza intrinseca serenante e significante, che si configura come mondo interiore, capace di trasmettere gioia di ascolto, aprendo spiragli di incognito, seppur rinvenibile nella quotidianità delle cose, come si evince nella serrata compattezza diegetica di espressioni quali: “questo cucchiaino d’armonia; come una corta stringa di coturni / che non mi riesce allacciare; due raggi mai soli / in uno stesso sole; libere migranti / al pedaggio del volo; fo le fusa alla vita / come il gatto al padrone di casa” tutte chiuse-sintesi di armonia delle liriche citate, che fermano la sovranità dell’istante positivo e normativo della stabilità. lontano dal quasi “nihil” del limine e del “pathos” esistenziale. In una “summa” d’incantato movimento universale, ricco di immagini, di musica, di cadenzato ritmo, dove tutto è energia, fluiscono le liriche dell’ultima sezione dal titolo rispettivamente: “il nido del sole”, “l’infiorata”, “vane valanghe”, “il pomario”, “nuda nel nido”, “monella di merende”, “senz’alfabeto”, nella quale Anna Maria Guidi, dopo un’iniziatica discesa nell’esistere, rientra al fine nell’arca probatica del mondo, dove sostanziare la vita. Ecco allora che la raccolta, per ossimoro, riesce ad assegnare alla parola stessa la chiave della sua decifrabilità e la lingua, che la parola esige, al fine di estrarre la sostanza dalla vacuità del divenire del mondo e persegue lo scopo di una compiuta verisimiglianza spirituale e psicologica. Questo il “principium individuationis” di una poetica che, attraverso nuove forme del dire, va a creare un evento al quale abbiamo il piacere di partecipare e condividere con altri, al fine di portare a conoscenza un modo di poetare, giunto ad una nuova maturazione stilistica, che non poteva tardare ad arrivare, come proposta coraggiosa che è già l’evento dei primi anni del Terzo Millennio.

Recensione
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