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Charles Guérin. Anima senza patria
Anima
senza patria
è il
canto di un esule che lamenta il nonsense che l’attanaglia, che gli scava
dentro un dolore innominabile a cui non sa dare risposta. La lingua nativa
francese di Charles Guérin, nella sua sensuale musicalità, restituisce tutto il
fascino di un languore romantico e decadente, delucidato sapientemente in
italiano da Franco Orlandini. Dell’uno, così, assaporiamo la segreta malia
dell’indefinito, dell’altro accarezziamo il senso profondo delle parole denudate
alla luce chiara della traduzione. Immagini delicate e rêveries
simboliste permeano i testi di un intenso lirismo: “La sera, con la nebbia
chiara e azzurra, | si spegne lieve come una parola | d’amore sulle labbra
dell’estate; | (…) Nel giardino, ch’è assorto nel riposo, | con un fresco
sussurro trema una spiga d’acqua, | il cui stelo talora frange.” (Lasciatemi
addormentare…); “Le sombre ciel lacté se voûte en forme d’arche, | Un grand
silence ému berce les choses; l’arbre | Palpite au vent léger qui passe” (Le
poète); “Settembre mette al dito dell’anno | l’anello d’oro rosso.” (Sere
di settembre). Intuitiva e suggestiva è questa metafora del poeta: “Come un
coltivatore affaticato | si stacca dalle zolle, | umilmente il poeta, | in
quest’ora, s’astrae | dalla carne e solleva | verso la notte vivida, |
scintillante e profonda, | la fronte che pur genera | la sua luce e i suoi
mondi.” (Il poeta).
Viene
evocato il mito della vita bohémien, con le notti dissipate tra “giovani
danzatrici d’Erode” e alcool, in cui annegare lo spleen (“Camuffano, lì
dentro, la propria pena e il cuore, | rinnegano la fede che conforta, la
bell’arte sincera”, Nelle taverne): “Oh, il dipartirsi lùgubre | delle
béttole, all’alba, quando il vento | fa tintinnare i vetri dei lampioni! | (…)
gli alberi lacrimosi, lungo i muri, | ove, fanciullo divino, il poeta | barcolla
ubriaco e oppresso da tristezza. | Vattene, al sangue che brucia, fa bene |
l’umida pietra; vattene, | o sognatore, ad appoggiare i gomiti | e la fronte sul
ruvido | granito del parapetto d’un ponte.” Si aspira ad un cupio dissolvi,
ad immergere nel dionisiaco oblìo del Lete la propria insolubile tristezza:
“L’arida bocca aspirerà la bruma; | il fresco della morte riempirà le narici | e
tu vedrai, funerea e forte voluttà, | il fiume scuro, largo, pesante come un Lete,
| gran viaggiatore in corsa ad abbracciare | altre città, il fiume
mescolare, | in un lento risucchio sui pilastri, | l’ombra, il sangue e l’oro
che non può trascinare”.
Raffinatezza stilistica e sensibilità ardente costituiscono l’alchimia poetica
del verso, senza escludere, tuttavia, la profondità di meditazioni che
raggiungono anche spiccati vertici di spiritualità. Un forte sentimento
religioso, ad esempio, echeggia in questo testo: “Chi alla porta picchia | e
prega lacrimoso, | si ritiene un estraneo | che nessun oste accolga; | deboli ci
si sente; | trepidanti si dubita | che nella creazione abbia valore, | la
propria anima, più della foglia; | si teme che la luce | divina non sia più che
una stella | superstite nel cuore | di pochi uomini puri. | Il mondo è triste e
vecchio, | ed i sopravvenuti, | pei quali il cielo è vano | come una parola
sconosciuta, | hanno di nuovo coricato il Cristo | nel suo scuro sepolcro.” (Il
dubbio). Il proprio cuore sembra troppo inaridito per accogliere la
sconvolgente novità della voce divina: “Mon coeur est amer comme un fruit
desséché. | Que Dieu jette son nom sonore à la ravine, | Et mon esprit, coteau
pierreux et désolé, | Ne rendra pas l’écho des paroles divines.” (Mon coeur).
(“Il mio cuore è amaro | come un frutto essiccato. | Dio lanci il suo nome |
sonoro nella forra, | e il mio spirito, ripa | pietrigna e desolata, | non
restituirà l’eco | al richiamo divino.”) (Il mio cuore).
Insorge
nell’autore francese un anelito mistico che rassomiglia alla voluttà spirituale
di Baudelaire, drammaticamente sospeso tra Inferno e Paradiso: “Enfer ou
Ciel, qu’importe?” (Le voyage). Così, struggente è questa invocazione
viscerale a Dio: “Ma, nonostante tutto, o mio Dio, | voglio credere in Te. |
Concedimi il candore verginale, | del fanciullo la fede. | Vigile, buono,
semplice ch’io sia. | Donami soprattutto l’umiltà, | perché io offra al vento |
del tuo santo volere, | la docile e profonda commozione | di un campo di grano.
| Permettimi d’obliare che una sera lontana | il dubbio traboccò dal calice
divino. | Rendi, alfine, al mio cuore | la gioventù d’amare: | germogli ancora
il seme | nel serrato giardino! | Smarrito cerco la tua croce al bivio, | nella
natura vivente ti chiamo; | o Dio! è tempo ormai | che Tu, non insensibile, |
ascolto mi conceda; sii conforto | all’anima mia triste, tua ancella, | poiché,
come l’abisso stellato dell’amore, | di notte, mi spaventa l’immensità dei
cieli.” (O mio Dio…). Vi è in lui un sussulto di bontà, di umanità, un
vagheggiamento di una vita percepita come missione, dedita agli ultimi, anche se
teme che l’antica natura prenda il sopravvento e lo lacera il dubbio che tutto
sia inghiottito inevitabilmente dal nulla: “Far progetti, lottare | con in pugno
la spada o il martello, | e con i vagabondi dividere il mantello, | esser buono,
sincero, generoso, | essere un uomo | che semina del bene e sol per questo ha
nome; | entrare come un raggio di sole nei tuguri, | riempir d’amore il cuore |
arido e duro degli emarginati, | far visita a chi sta in un capezzale, | a chi
ha afflitta l’anima, dicendo: | «Credete in Dio, è lui che a voi mi manda»; |
ogni sera sentirsi più sereno e migliore… | Signore, questo sogno | che ho fatto
sul finire | d’una notte d’aprile, | non rimarrà ancora,| dopo tanti altri,
vano? | Oppure, un dì, verrò annoverato | tra quegli apostoli, che, soddisfatti
| d’aver compiuto la propria missione, | muoion con gli occhi aperti |
sull’eterno mattino?” (Essere un uomo). Una nostalgia di purezza, del
mito dell’età d’oro dei sani valori e delle genuine tradizioni degli antenati
viene decantata in modo elegiaco in questi versi: “Debole e singhiozzante più di
quanto lo fui | nel giorno del battesimo, a voi penso, | o miei antenati, che,
alti e diritti, | con l’animo viveste | e la forza dei cedri. Sulle vostre |
fibre vibranti cantava la voce | del Creatore, come un puro soffio | tra rami
risonanti. | Il cuore largo e ricco vi si apriva | come un granaio; in voi
trovava ascolto | la supplica del povero alla porta; | e con candida fede
piangevate | sull’Evangelo. Il pane quotidiano | sia benedetto; benedetti il
giorno | e la notte, dicevate; e la vita scorreva | come limpida acqua
sull’argilla.” (Agli antenati). Ancora un altro grazioso ritratto
incornicia il passato idilliaco degli antenati: “Più tardi, al transitare
dell’Autunno, | rugoso giardiniere, vedevate | bimbi alle vostre braccia stare
appesi | come un dorato grappolo di frutta. | O miei antenati, semplici ed
onesti, | il declino del corpo in voi trovava | anime ancora grandi.” (L’estate
ardeva).
La
solitudine sembra un male incurabile, per cui il suo intimo grido non trova eco:
“Potrò, un giorno, un’anima incontrare, | che risponda al molteplice grido | del
mio dolor profondo?” (Un giorno…). La sua è “una pena antica”, per dirla
con Pavese, la stessa che appartiene ad Ungaretti, “uomo di pena” e a tutti i
poeti che, come viene figurato efficacemente ne L’albatros di Baudelaire,
non riescono ad acclimatarsi in questa “aiuola che ci fa tanto feroci”, come
declamava Dante, troppo angusta per gli spazi d’infinito che l’anima reclama. È
il disagio di Leopardi (“A me la vita è male”), dei crepuscolari e decadenti,
del “male di vivere” di Montale, un malessere profondo cui non si sa dare un
nome e da cui non si trova scampo: “Voi che laggiù passate, conoscete la pena, |
la pena che racchiudo in fondo all’anima? | (…) pena che non ha nome; ansietà
senza causa | di orfano rimasto, nella notte, | privo d’ogni canzone che lo
culli; | simile, sotto i pianti, | a rose che si piegano col calice | greve di
pioggia dopo l’acquazzone.” (Sera di settembre).
È proprio
questa inquietudine mai sopita che il poeta si porta dentro, una nostalgia di
eterno, di assoluto, del divino mai placata, il sentimento proprio di “un’anima
senza patria” (che riecheggia lo straniamento di Ungaretti espresso in
Girovago, “E me ne stacco sempre | straniero”) su questa terra vana in
perpetuo esilio, che rincorre forsennatamente il suo cielo: tutto ciò
costituisce l’ispirazione segreta e turbolenta del poeta che, ad appena 34 anni,
travolto, ancora nella sua giovinezza, da quell’inguaribile brama puntualmente
inappagata, ha valicato l’estrema frontiera. In À Jamnes sono contenute
questa dichiarazione di poetica e la nuda confessione della propria identità
smarrita: “Anima senza patria nella mia carne abita. | Stasera, una delle più
pesanti della mia sofferenza, | mentre, fiamma spargendo sopra il mare, | i
raggi del tramonto doravano la sabbia, | coi capelli inzuppati dal vento misto a
spuma, | io andavo, e come un ciottolo | mi rotolava l’impeto del sogno. | Lo
strepito terribile dell’onde | sembrava mi chiamasse con la voce | dei paesi
bruciati, dei vulcani e dell’isole…”
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Recensione |
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