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Deltaplano

Deltaplano è il pretesto simbolico che compare alla fine della raccolta, come a svelare l’enigma del titolo cui dà il nome, una sorta di alibi per sfuggire all’oppressione dei giorni, alla livida cortina dello spleen, come lo definirebbe Baudelaire: “Passerà questo tempo balordo, / e la notte chiara di stelle, / notte di sogno, / dove ristagnano ancora cupi / gli animi induriti dall’argilla. / Si snoda il tuo pensiero / per scivolare libero nell’aria (….) Forse mi resta accanto almeno un deltaplano.” È come se si tentasse il “varco” montaliano, se si cercasse “una maglia rotta nella rete” per evadere dalla prigione del reale: “Scivolo tra i silenzi di questa notte / in una città di lividi umori, / nel torpore di una vita / rimasta in bilico sul baratro - / (…) / Ed ecco, l’alba, foriera di nuove illusioni -” (Silenzio); “Un oceano di silenzio è muro / di queste illusioni / cassa ridondante di echi ormai lontani.” (Oceano); “Voglia di lacerare il drappo della sera con le unghie - / (…) Ho provato a sognare città invisibili, / dove risiedono artisti e saltimbanchi, / scrittori e giocolieri, / cabarettisti della vita, ormai giunti a firmare / l’armistizio con la realtà. / E con la penna sussurravano ai singhiozzi del cielo.” La monotonia assedia l’esistenza con il nonsense che serpeggia ad additare il nulla: “Grumi di ricordi / riecheggiano in chilometri d’asfalto. / incerto passo del mio divenire / senza un porto di illusioni / E il giorno è come la notte, / la notte è come il giorno - / Oggi, domani e dopodomani.” (Ricordi).

È un canto sommesso quello di Michele Miano, non un grido, ma quasi un sussurro a sfiorare il silenzio senza ferirlo: ciò costituisce il fascino delicato e l’originale timbro di questi versi. La pioggia, infatti, è l’immagine più ricorrente che suggerisce il sottile mormorio che adombra l’arcano: “Pioggia sottile, sottovoce, / sembra alitare strane parole, / preannuncia fresca la sera, / profumata. / E il cielo sembra annegare / in un mare di stelle.” (Verso sera). Una segreta malinconia alimenta la vena creativa del poeta – erede della sensibilità lirica del noto zio siciliano Alessandro Miano (1920-1994) – che s’insinua anche nell’esuberante esplosione della vita della primavera: “Primavera ritorna / e il dolore mi addenta / con morsi di gelo. / È il vento che scuote profonde solitudini. / Lieve cielo / terra che respiro. / Sospeso ad un filo di vento / scioglimi da questo peso. / Volteggiate rondini / come bianche colombe; / le vostre ali mi scavino un nido nel cuore; / cuore che mi travolge e spezza.” (Primavera). La natura è speculare della bellezza di cui rifulge l’anima: “Un alito di vento / accarezza le foglie. / L’aria tiepida / avvolge il volo delle farfalle. / Un usignolo geme da lontano, / scroscia il limpido gorgheggio / e splendono più tersi i colori nelle ali. / Prima linfa, / vestita di germogli e / rami in fiore / fluisce nel grembo della natura. / Ognuno ode grida / di fanciullo, / di una vita che si desta.” (Vita); “Trasparenze ed evanescenze, / ondulazioni e vibrazioni. / La natura al tramonto. / Sorpresi da passaggi di nuvole, / da catene d’ombre. Fruscio di fili d’erba. / Mormorio delle cose e dei ricordi”; “La natura, le sue trame i suoi canti / e la vita come un’immagine vana che / si mette a fuoco solo quando si è distanti.” Si vive un’osmosi panica con il mondo naturale: “Verde questo giorno senza cielo / caduto come grido in un baratro / assorto da millenni d’infinito / degli ineguali giorni / Questa strada senza sole, / afflitta di nubi, dal frastuono della sera. / Verde è ora la collina delle voci / che a primavera brillerà di luci / e brulla rimarrà / La sabbia ora si dirada e / io sarò l’onda che s’adagia ai bordi della sera.” (Frammenti IV).

Un dolore sopito sottentra come una lieve melodia dietro la trama delle quotidiane vicissitudini: “Cerco nei tuoi occhi i sogni che trattengo / e le speranze, e il dolore che colgo / giù a valle con i drammi che si nascondono / tra i muri bianchi, i viali verdi e i fiori. / Spianata che verso paesaggi sfumi / di aromi di colori, dall’erbosa / cima balza tra gli abeti una perla / carpisci di rugiada.” (Cerco).

È un lirismo soffuso, quasi “impalpabile”, che permea queste rêveries poetiche: “Raggio di luna, filo argenteo, / trapassi e non frangi geometrie / di ragnatele per posarsi rilucente / su steli d’erba. Impalpabile. / ti nascondi sempre nel chiaro di luna.” (Sensazioni – Paesaggi dell’anima); “Per un attimo mi sembra di raggiungere / il nervo delle cose. / ma un battito di ciglia non è / un colpo d’ali che ti solleva / ed è vana ricerca aspirare / al sillogismo dell’esistenza. / Così ritorni nell’orbita della vita / come una favilla, ormai incasellata / in una goccia, come in un’impronta / di luce un tremito d’ombra. / Ormai il filo sfrangiato / un fiato fioco di luce, / disseminato il tepore sull’orlo d’oro, / muore su una spiga di grano.”

È una poesia che sgorga per improvvise trafitture del cuore, come nascoste faglie da aride zolle di terra: “La natura è immersa nella primavera. / L’aria è vapore. Le stelle dipingono angoli di cuore. / E le trascorse stagioni / riaffiorano come parole evanescenti. / Ora l’oscurità invoca con le sue ombre, / labili ricordi e la voce delle stagioni.”; “Per frantumare il silenzio / è necessario il coro degli angeli, / grido senza voce dei condannati, / gemito dei non nati. / Filastrocche mai cantate dagli uomini.”; “Essere e divenire. Identità e mutamento. / Bramare. / Ma non pensarci. / Basta non pretendere niente dagli altri. / (…) Colline, sentieri inondati dall’alba. / La luce rinasce.”

Il sole sorge e tramonta sulla fatica di vivere degli uomini, attoniti dinanzi alla loro endemica miseria: “Vieni alba a salutare anime e cose, / di questo scorcio di mondo. / Vieni alba. Come se fosse la prima alba del mondo. / L’ultima di ogni uomo / in questo paese di morti di fame.”; “E padri e figli. Fratelli e sorelle. / Vederli ogni giorno. Crescere, invecchiare - / E non trovare mai le parole - / Aggrovigliati nella lotta per il boccone quotidiano, / giriamo attorno alle verità del cuore.”

L’incognita del proprio destino è avvolta in un mistero imperscrutabile che si affaccia sulla soglia d’ombra della mente come un brivido inconsulto, se si considerano le ipotesi e le probabili conseguenze di una strada intrapresa al posto di un’altra alla svolta di un bivio: “Sento l’eco dei nostri passi. / E il sibilo del treno che non è mai passato. / Non chiedermi mai / quale sarebbe stata la trama del nostro destino / nelle longitudini del mio respiro, / soffermandomi sempre ad ogni bivio del mio passato. / Non chiedermi mai / quale sarebbe stato il nostro porto di rugiada, / (…) Oltre il mio orizzonte, / le risposte che non ho, / in un quaderno ancora senza titolo.”

Il sentimento amoroso è pervaso di pudore e di incanto: “Mi sei apparsa come una vela in mare, / nel tuo volto di sera lunare / sei fiorita al mio sogno / ritrovato così all’improvviso. / Senza sapere come.” (Frammenti I). L’amore veste la creazione di divina tenerezza: “Atto d’amore nel mattino verde / arde per la lieve litania dei colli / per le foglie rapite della voce eterna. / Arde nella grazia e nel vestigio d’un fiume, / d’una fiumana ansiosa / d’acque orizzontanti / che gonfiano le vene della terra.” (Atto è l’amore). L’anelito al divino insorge come una struggente invocazione dal buio delle proprie amarezze: “Il tempo è freddo / e buia è la speranza / di te, mio Dio / ed ora mi trafiggi / alle parole / di te, mio Dio.”

Suggestivi spunti per decifrare la poetica di Michele Miano ci vengono offerti da Davide Foschi, che scrive nell’introduzione: “Epistemologia del tormento, dell’attesa, dei rimorsi e delle attese… questa è la poesia di Michele Miano; gli echi di Ungaretti e dell’ermetismo a scavare il suono e il senso d’ogni singola parola, mai casuale, mai scontata, vanno a fondersi nell’animo dell’uomo, del poeta, che vive ogni singolo elemento, ogni più sfacciata manifestazione della natura ed ogni attimo della sua esistenza come meta-segnale d’un qualcosa che sta per avvenire, o che non è avvenuto per fato d’ignote e incomprensibili vedute. Michele Miano è artista che sente tra le gocce di pioggia la voce dell’universo, che scova il senso del dolore e della morte anche dove meno è in mostra, come nello sgorgare della primavera; (…) La lotta con le apparenze, la battaglia con il non vivere non si risolve con Miano in un’irreale approvazione di ciò che è stato compiuto ma con la vaga sensazione che il nocciolo del mondo è lì, dietro ad un velo, quasi a portata di mano, un velo oltre il quale egli stesso s’assume responsabilmente il dubbio di non potere, o di non dovere accedere.” O ancora si esprime efficacemente Alessandro Mancuso: “Una poesia delicata, di oggetti minimali che tendono all’assoluto, partendo da un punto di osservazione assolutamente naturale, impregnato di sensazioni gravide. La distribuzione delle parole nei versi di Michele Miano è centellinata, ponderata, sì da affidare all’interpunzione il respiro delle pause, dei silenzi tra un quadro e l’altro. I temi lievi e profondi colpiscono in battute immaginifiche d’impatto, aprendo squarci di visioni problematiche, d’interrogativi in sospeso.”

Recensione
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