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Disforia del nome

A fornirci la chiave di lettura di quest’opera dal titolo enigmatico è la stessa autrice nella nota che precede i testi: “Privativa è la condizione umana, forse tutta. (…) A bilancio di una navigazione faticosa, quasi sempre controcorrente, giunge talora, con la stanchezza, l’imbarazzo di dover riconoscere l’invalidità di ciò in cui si è creduto. Se poi dovesse dissolvere ogni altro dubbio o fraintendimento si genera disnomìa di ciò che era, è stato e non è più.” Una crisi d’identità, dunque, che misconosce gli ideali per cui si è combattuto, la propria personalità così come è pubblicamente accetta: un nome che non corrisponde più alla realtà. È questo un disagio profondo che lede alle radici l’essere, lo svelle dalle cose più care, dalle certezze assolute, dai volti amati. È terribile ad un certo punto della vita mettere in discussione ciò che si è alla luce di ciò che si è stati. Forse è la notte oscura di cui parlano i santi, in particolare S. Giovanni della Croce, la stessa Madre Teresa che in una recente edizione del suo diario (Sii la mia luce) si scopre continuare a compiere la sua missione pur annaspando nel buio: forse questo è un passaggio obbligato, che le tenebre ci mettano alla prova, per consentire una più potente e definitiva insurrezione della luce.

Non a caso questo accade agli animi più nobili, i quali hanno l’onestà e il coraggio di guardarsi dentro in una sincera trasparenza, nonché l’umiltà di denudarsi nella propria miseria, spogliandosi di ogni inutile orpello, della pretesa finanche di un nome. Infatti la maestà del linguaggio aulico persiste come un attributo permanente in grado di lastricare anche l’abisso: “Immaglia il foglio nel turbinare della mente / giù, alla cateratta delle risposte ricercate / e ferma greve nella rete lasca della quiete. / Seguono i giorni i labili contorni delle nubi / e il sole dimora fuori tana; / per questo schermo non penetra / ad asciugare le lente trame dilavate / dove non può posare il rigoglio che non ha cure. / È lo stelo che si accorcia al fiore / a protarne la bellezza, / così rimanga un poco nella sera vespero a vibrare: / il tono della luce che dispiega le sue ali di perla / parla divine lingue da sempre. / (…) Resta da cucire un manto azzurro / che vesta di sorriso un’alba tersa / dietro il vetro della vita eletta / adatta al sonno cilestre delle ciglia / e a un sogno, che si attarda / sulla soglia verde di un ritorno mite / fra le braccia del ricordo, / che faccia breccia infine / con lo squillo dell’avviso che richiama” (Immaglia). Si cerca “una maglia rotta nella rete”, per dirla con Montale, per sfuggire all’oppressione esistenziale: “Anima presa / ha naufragato i moti segreti, / gesti chiusi nell’impossibilità. / Come, quale pertugio dare / al serrato cancello / che tramite invocare / a quella darsena vuota. / Nello spazio del silenzio / grida solo / l’ultimo oplita / smarrito seme di questa vita / scesa nella nebbia scolorita / che disperde.” (Quale pertugio). Una profonda sofferenza invisibile attanaglia, gela l’anima sulla soglia del giorno eguale all’altro che s’affaccia: “Tutte le perdute foglie dei rami di un inverno /vestono il peso di stare / nel gelo della delusione. Si è arenata / la chiglia dell’anima allo scoglio / dell’impotere. / Inarca il tempo nel vento / freddo della neve nave che scioglie / dentro il mare tutte le sue pene. / (…) Tanta vita aperta dall’amore muore / lungo i fianchi della Terra / violata di notizie / scandalose agli occhi della gente mattutina / che ha i figli sui palmi delle mani, / non ha che i propri figli / da offrire alla povertà del mondo.” (Povertà).

Significativa è questa immagine della casa un tempo nido d’affetti, ora oscenamente violata, teatro di un eccidio, che sembra essere brutalmente franata su se stessa: “È zolla secca di fumo atro il tetto vermiglio stramazzato / che tanta vita generata difese. / Colati, nella voragine del nulla, / le impronte spese in ogni fare / e tutto il dire vano del mondo. / Casa per amore, casa di dolore /Casa di fiori azzurri, casa di sussurri / Casa dei rimpianti, casa di sbagli, tanti / Casa d’innocenza, turbata da infedeli voglie / Casa di tutti i pianti di chi ha da guardare avanti / Casa di vendette, giurate settanta volte sette / Casa spregiata, sfregiata e lapidata; / cumulano di lato, smottate, le tue disunite rovine tumulate. / Tutto giace fermo in mostra il torto fatto ai morti / ai vivi, ai nati in questi muri infranti / ai nati che mai di te sapranno, dal tuo fiorito uscio amaro.” (Requiem per una casa).

L’autrice sa dare voce alle emozioni con l’incisività delle parole e l’elegante plasticità delle immagini: “Ne prende un pezzo piccolo di vita / che grande la spaura. / Le batte così forte il cuore / che le esce come anguilla / da mano che non prende. / Stanchezza intorno, / amare troppo la bellezza / l’ha stremata. / Lascia il campo ai nuovi nati / e ai muti bimbi che verranno. / Troppo sole sulla strada / chiude gli occhi nella rada, / all’àncora dei veli delle vele / e alla bonaccia.” (Be quiet).

Spiccano meditazioni profonde ed assorte: “Nel giorno che non c’è / quanta vita nasce e muore. / Quanta ne semina la voglia di bellezza / sulle macerie che adduce la vecchiezza. / La domanda che incalza / dal limbo delle solitudini / dell’abbandono / è perché non esista felicità / in questa terra di mezzo / paradiso per pochi / o per nessuno forse.” (29 febbraio); “Tutto il centro vibra / del dolore di ciascuno, / chiodato d’attesa / teme la nullità della promessa / e l’insopportato viaggio nella vita.” (Reggenza).

Un lirismo intenso permea questi versi: “Il naufragio di questo sole / che a lungo riemergeva fluttuando fra le nubi / nell’azzurro del sopravvissuto giorno, / ha dilatato d’infinito sguardo il raggio / prima di cadere dalle spalle del monte / dietro la scia di stella dei vibrati jet / che solcano i mari oceani della vita. / (…) Inaridita pianta il frutto tace della messe / ma il fiore svetta ancora alla speranza / d’ogni colore adatto alla gioia d’essere. / L’insondabile abisso chiama delle voci / piene della vita amata, / dense della luce del ricordo / e i nomi adèsi all’anima segnata / riconoscono le madri, gli incompresi padri / pieni di un diletto amore, per sempre in dono dato. / Un’immobile lingua che parla / con la forma varia dell’apice dei getti verso il cielo.” (D’infinito sguardo dilata il raggio); “Trascolora il velo teso del cielo / squarciato dall’ordine cupo del prezzo da pagare / per l’orgoglio di andare ad amare. / La sinfonia dei giorni / ruscellati dal corrotto abbraccio della vita / sta nelle note lunghe di durata, / nella febbre d’esserci scostante. / Tutta l’attesa delle zolle / ascolta la preghiera silenziosa della luce / che alberga pellegrina / sulla corte cilestrina della brina.” (Prima bruma).

Lucia Gaddo Zanovello ci consegna un’opera di raffinata levità poetica, nella grazia innata di un canto che sgorga limpido e fascinoso malgrado (o forse proprio in grazia di questo - per la sublimità del soffrire-) il dato doloroso da cui prende l’abbrivio, nelle sue preziose Fioriture che s’ingemmano dalla trasparenza di perla dei silenzi: “Abita qui / l’alba che resuscita / il telo d’incoscienza / che ricopre il giorno appena nato. / (…) Ma nulla resta di ciò che è, / si vede dai ricordi / che fluttuano perduti verso riva / nell’infinita risacca del tempo / che batte e ribatte a terra / nomi sorrisi e frasi benedette. / Con la marea delle solitudini avanza / la luce che spegne tutte le stelle / e i lumi della notte / nel fiore dischiuso / che scrive di fame e sete / la corolla.”

Recensione
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