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La meraviglia

La meraviglia: è proprio questo tesoro perduto che insegue nostalgicamente il poeta, identificandosi nel fanciullo pascoliano che sa accendersi di stupore di fronte alle piccole cose: “Ma non so quanti diranno / era un poeta / uno che visse godendo / per piccole cose / uno che anche d’inverno / nell’aprire le finestre / immaginava eterne primavere / ma senza crederci.” (Succede a tutti).

È quanto resta al fondo del calice dei giorni ormai trascorsi, il deposito d’oro che è pegno dello splendore eterno: “Veder morire l’acqua e la fonte / il sorriso del giorno, i panorami / veder svanire la lunga spiaggia / lontana tra scogli e riverberi. / Veder mutare l’allegria, le maschere / la luce nelle stanze dove sei stato / e confondersi insieme e sovrapporsi / i ritagli del mondo colti dall’alto. / Veder languire tra le foglie il sole / o la bocca amata per anni, / veder gli oggetti consumarsi in attesa / di passare in altre mani. / (…) Veder morire quando tutto rivive / nello sguardo dei figli. / Veder morire quando tutto muore / ma mai la meraviglia.” (Veder morire).

Diverse sono le considerazioni che abbracciano i mutevoli passaggi esistenziali. Così, l’autore contempla la bellezza che “salverà il mondo”, la quale ha tuttavia la delicatezza fragile di un fiore: “Questo sottile incantamento e questo morire / giorno dopo giorno / anch’esso è un fiore. / E questa debole forza che rinasce / da un’ora disperata / anch’essa è segno non scelto / anch’essa è vita che si difende / anch’essa è un fiore.” (Questa debole forza). Nella propria interiorità s’invoca uno spiraglio di cielo che squarci l’oscura notte di dolore: “Solo il dolore resiste ancora / antico come una roccia / ignaro di sé e del proprio destino / ma non del patimento. / Oh cielo cielo / ancora ogni tanto ti chiamo. / Cielo di stoffa cielo di carta / cielo di stelle e di pensieri / cielo di oggi cielo di ieri / cielo di contrasti, di passioni: / cielo d’infinite inconclusioni.” (Solo il dolore).

La missiva s’investe di un’aura mitica, che affonda le sue radici in una tradizione antica, fino a risalire ai nostri tempi, al celebre “Caro amico ti scrivo” di Lucio Dalla: “Da tempo non scrivo una lettera a un amico / sono sempre più scarse le occasioni / e confesso che da questa periferia le cose / pur di giorno in giorno mutevoli / appaiono sempre le stesse / anche se fluttuano nel ventre di una nebulosa. / In una scatola di lacca sul mio comodino / ho appena messo dei ricordi di famiglia. / Ma è come distogliere la mente / da ciò che dentro ci assilla / per lasciare lo sguardo perdersi / sopra gli oggetti e le parvenze. / Dovrei dirti che da molti anni / mi dibatto nel mio perire / e allora guardo incredulo gli oggetti / i gingilli da niente e le piccole foto / di chi un giorno ci amò come poté / lasciandoci infine con noi stessi.” (La scatola di lacca).

L’attesa dello scrittore si tinge di malinconia lungo un molo solitario affacciato sul mare: “Quanti posti per morire / sfiduciati e dimentichi: / magari qui in cima al molo / dove non viene quasi nessuno / tra le vecchie macchie di pittura / e lamiere corrose dalla ruggine. / (…) Qui la vita passata o la presente / non dànno nostalgia / esistere lieti è un lusso / sostare stanchi è più facile. / Guarda dunque in avanti – fermo - / senza attendere miracoli. / Consegna i dubbi ed il resto / a questo molo deserto / alle lanterne rosa / ai bastimenti invisibili.” (In cima al molo).

Alla sera della vita restano soltanto i dubbi, i rimpianti e le stanchezze: “Molte fiamme nel mio cuore si sono spente / altre ancora non poterono ardere. / (…) Io scrivo appena le mie tentazioni / da deporre dinanzi all’ignoto. / Con scatti d’ira e di sangue / con passioni e rammarichi / covo in penombra a tratti / la mia dignità terrena / le promesse / i nodi dell’amore / e intanto cicale impazziscono / e vecchie sorgenti si seccano / e sterminati nomi e fenomeni / impallidiscono in una sera.” (Tentazioni dinanzi all’ignoto).

L’amore segue la sua logica misteriosa e incomprensibile: “L’amore dunque ripete se stesso / ma non soltanto questo. / Per me l’amore è un solco guidato / da mani costanti e volenterose / in un colloquio che a lungo dura / all’interno con i propri ostacoli. / Le api che vanno / le nuvole irrequiete / i fiori che crescono da soli / e non sanno perché. / Per me l’amore è questo darsi intero / a una ragione sconosciuta.” (A una ragione sconosciuta).

S’interroga la vita come un’incognita insoluta: “Interrogo spesso questa vita / che mi hanno regalato. / Oh vita inesausta che in noi consumi / i tuoi lutti / le tue sorgenti / le tue nostalgie.” (Interrogo).

Nella propria inquietudine interiore s’invoca un Dio che possa saziare l’innata sete d’infinito e di assoluto: “Di notte nel buio della stanza / tormenti mettono radici / e mi chiude gli occhi un bisogno / uguale di vita e di morte. / Non so più inventare metafore / che celino il dolore dietro le cose. / Dovunque intorno si uccide sempre / il ramo più verde dell’albero. / Vorrei gridare e non grido / e vorrei chiedere con forza: / dove sei Dio dell’amore? / Dio della provvidenza? / Dio dell’assenza?” (Al Dio dell’assenza). L’artista avverte tutto il cosmico smarrimento: “Una volta scriveva il poeta / per dire le sue gioie e le sue pene / e il mutare della notte / e il giorno e le sfumature degli alberi / e il vario sapore del pane. / Oggi, quando non sa dove attaccarsi / né cosa fare né dove vagare / ancora scrive l’uomo una poesia / ma non sa più a chi dedicarla / se non al proprio smarrimento / o a qualche vecchio lago prosciugato.” (Una volta). L’esistenza appare come una prigionia da cui non si può evadere, un circolo vizioso che non si può spezzare: “Si bruciano progetti su progetti / lasciando ponti alle spalle / e attaccati ai legami, a bisogni / mormoriamo a noi stessi: domani. / Da questa rete non c’è scampo. / Quante fioriture / quanti tramonti trascurati / quanto rare le soste. / Digeriti in fretta dalle cose / noi tra le cose. / Va la folla, la finta giovinezza / così pronta a inghiottirci in un labirinto. / Certo anch’io vorrei come molti / salvarmi non so dove / respingere la stanchezza crescente / nuotare libero al largo. / Ma da questa rete non c’è scampo.” (Da questa rete).

Offre lo spunto di un’intensa meditazione il rapporto viscerale col figlio: “Seduti accanto al solito tavolo / come ormai avviene da anni / io ti guardo ben dritto, figlio, / e penso che sei tanto cresciuto. / Se dall’altro lato del tavolo / molte volte mi avrai visto assente / certo non sai che quando caddi / sotto il peso di una mia croce / a salvarmi vicino c’eri anche tu / con la fragilità del tuo amore. / Tu giochi ora con l’aperta speranza / ed io ne circoscrivo il senso. / Fantastiche costruzioni / ruote e disegni in un angolo / sfumata tenerezza tra noi / sospesa lieve in questa stanza. / Ma ben dura è la mischia, vedrai, / dentro e fuori d’ogni recinto / dove strade biforcano strette / a oriente e ad occidente. / Si coltivano rancori, figlio, / si vive sempre all’erta. / E a distrarre non basta più / il tuo meccano preferito / poiché si gioca ogni giorno un poco / con qualcosa che muore.” (Confronto a due). Si evoca la figura paterna con la nostalgica tenerezza di chi avverte un vuoto incolmabile: “Molto spesso ti ritrovo padre / e ti parlo e riparlo nel buio / anche se molti anni sono trascorsi / da quando sei scomparso. / Certo quand’eri ancora vivo / ci siamo detti poche cose. / Mentre adesso che la vita si accorcia / ti ricordo fra vuoti improvvisi / e mi dà conforto pensarci / finalmente in compagnia. / È come se dal passato tu potessi / consolarmi non so bene di che: / forse del peso inevitabile / che in ogni uomo s’accumula / quando le porte alle spalle sono chiuse / e le finestre di fronte non sai più / su quale scenario si apriranno.” (Al padre). La moglie è presenza fedele e costante che investe di calore e di poesia la vita: “Ascoltami donna / dalle curve del tuo corpo / io traggo non solo calore / ma le promesse di un amore più alto / tu sei certo per me la prediletta / e il primo tra i fiori / tu rosa da sempre e canzone / pari solo alla mia speranza.” (Questa debole forza).

Suggestiva è la metafora del veliero che si sogna in partenza, mentre resta ancorato all’attesa: “Alba Maris / veliero di gesti corsari / nella rada eri come un uccello / fermo, in attesa di navigare. / Tirando a noi gli ormeggi / saltavamo sulla tolda / e giù per gli oblò in cerca / di girare la ruota del timoniere. / Eravamo in realtà immobili / nel mezzo di un finto movimento. / Intenti a comandare per gioco / partenze immaginarie / restavamo immobili a sognare / ancorati alla fonda con l’Alba Maris.” (Alba Maris).

Ad un’arguta ironia è improntata questa interpretazione della vita: “Ho vissuto inseguendo la vita / lei davanti – s’immagini una dea- / e io dietro che volevo afferrarla / cercando di farmene un’idea. / Ora l’idea è solo questa / e mi riempie da sola tutta la testa: / ho vissuto inseguendo la vita / ma l’ho raggiunta ch’era già finita.” (Quasi uno scherzo). Essa si declina in diverse sfumature: “Dovunque come un gran fuoco disperato / il libro non scritto dei desideri incompiuti.” (Il libro); “Si finge eterna la vita / mentre inventa schermaglie.” (Campiello). Si scruta la morte come l’altra vita che arride oltre l’orizzonte: “Ti penso misteriosa morte / oggi che la fatica di un giorno / ha cancellato la fatica di ieri / ma solo in apparenza. / Tutto nel tuo nome si somma / e tende a creare cortine / quando la sera ci ritrova / atterriti e confusi. / Accendi la radio per distrarti / gira la manopola e ascolta il mondo. / Ma quella che udrai sarà sempre / soltanto una pallida voce / in confronto all’altra che sale / dal tuo cuore sommerso. / O gravosa giornata che mescoli / antiche speranze e nuovi affanni. / O misteriosa morte che fai / d’ogni sconfitta / una misteriosa vita.” (Ti penso).

In mezzo allo sterminato deserto dei giorni la poesia resta l’unica oasi inviolata ove balugini ancora un ardente miraggio: “Ho inseguito impossibili traguardi / in paesi senza confini / per poi ritornare a questo foglio / dove si rifugiano parole. / Quante volte la strada è stata buia / e priva di misericordia. / Quante notti d’inverno con la nebbia / le spalle strette in un cappotto / rasentavo i muri e le case / e mi sembrava di soffocare. / Anche se poi una voce inattesa / riusciva a risollevarmi / dandomi la forza e il conforto / di una pausa provvisoria. / Si riaprivano quasi per incanto / antiche armonie. / E ritrovavo allora brevemente / questo rivolo d’inchiostro / questo dolce e faticoso pensare / che mi sostiene nei momenti estremi.” (Questo rivolo d’un inchiostro).

L’ultima sezione è investita dell’ebbrezza spumeggiante del mare: “Amo il mare perché mi parla / più d’infiniti discorsi / ed apre allo sguardo orizzonti / impossibili da colmare. / Amo la vista dei porti / da cui salpano navi verso l’ignoto / con le stive cariche di pretesti / e mercanzie come miraggi.” (Miraggi). È come risalire alla fresca e limpida sorgiva del proprio vissuto: “Quando ritorno al mare / sulle rive dove sono nato / mi capita ancora di scoprire / incantesimi perduti. / Tra sentieri di pietre ed alghe / che profumano di salso / avverto sempre un bisogno profondo / umano di rifiorire. / E allora dico grazie ai pini / ai profili di valli e insenature / e alle bianche spume che contornano / isole stregate. / Ho vissuto qui le mie scommesse / le separazioni e le partenze. / Ho spiccato da qui i primi voli / e le corse su pattini felici /entro luoghi cari all’infanzia / con la sua sete d’infinito.” (Adriatico).

Un capolavoro di notevole suggestione lirica ed efficacia icastica è Davanti ad un mare azzurro, ove la memoria del luogo incantato della propria origine, Zara, convive con quello attuale del fascino malioso lagunare di Venezia, uniti dal comune denominatore dello stupore d’eterno delle acque : “Non t’inganni il rumore che invade / l’aria e le orecchie / perché qui dove la vita ferve e par più vera / in fondo è un giardino di stordimenti / un perdersi entro guerre, commerci / e difficile conquista è il silenzio. / capace di ridarti a te stesso. / Sei nato anche tu nel punto / in cui i clamori si affievoliscono. / Io sono nato davanti ad un mare azzurro / che non si dimentica. / Ho visto passare la storia / per le strade, nei titoli dei giornali / traversando gl’ingenui amori / i fiumi e le adulte passioni. / Ho visitato luoghi lontani / tra il certo e l’incerto.”; “Qui s’incontrano le malìe / la sfera di cristallo / e la laguna che regala indifferente / letargo o afrodisiaci. / Sono dunque cresciuto in questo bazar / da cui vorrei a volte fuggire / per tornare – avventura impossibile - / al luogo più bello che ciascuno immagina. / Non importa dove sono nato / se sono nato in un posto dove si muore. / Sono nato in un posto dove il mare / è di un azzurro che non si dimentica / e mi porto dietro ancora acerba / fra le stelle fisse e gli asteroidi / una storia a frammenti che si compone / di continuo in un ignoto affresco. / (…) Da qualche parte con il vostro tarlo / dovrete misurarvi e insieme / con i petali secchi / con le ombre segrete e i numeri cifrati / le figure leggere / i matrimoni incompleti / gl’incontri mancati / e le attese di sempre. / Non c’è possibilità di capire / oltre l’umano.”

Raffaele Cecconi in questi versi tramanda la “meraviglia” contesa dall’una all’altra sponda del “mare azzurro”, che è testimone silenzioso e fedele di tutte le vicissitudini, custodendo nel suo grembo trasparente le perle delle emozioni sincere, i ciottoli dei ricordi, i detriti dei rimpianti, tutto quel gorgo inquieto dell’io che s’inabissa nei fondali sommersi e che si fa canto genuino e denso di pathos del poeta che emerge alla superficie della pagina iridata e increspata dalle onde delle parole: “Si compirà così il mio destino / volerò nei cieli notturni. / Farò il periplo della luna / lanciando dall’alto dei volantini / perché planino dovunque. / E li vedrò disperdersi nel cosmo / tutti bianchi privi di parole / con la gioia ineffabile di chi getta / per aria una manciata di coriandoli.” (Coriandoli).

Recensione
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