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La piega storta delle idee
In questi
testi Giovanni Di Lena segue “la piega storta delle idee”, indagando la realtà
nelle sue molteplici sfaccettature e contraddizioni. In mezzo alle negatività e
distorsioni s’innalzano i suoi grandi amori che sono anche la ragione della sua
vita, il suo “fiore” (come si esprime nella dedica posta ad epigrafe), quali la
poesia e la donna amata. Così, suggestiva è questa metafora di Alla poesia,
quale di sublime bellezza che seduce e perdutamente innamora, concedendosi
generosamente a coloro che la desiderano: “Con la mia debole voce, / continuo a
parlare di te / con gli altri tuoi / innumerevoli amanti. / Con parole antiche e
nuove, / con versi brevi o lunghi, / ognuno, come può, ti rende omaggio. / E tu
nulla disdegni, / perché sai che non è / nel messaggio o nella forma / la tua
universalità / ma nell’essere ovunque / e di tutti.”.
L’autore
professa una disarmante semplicità e trasparente onestà dinanzi ad una società
che camuffa la propria identità dietro maschere ipocrite e ruoli convenzionali:
“Non ho titoli da mostrare al mondo. / Non mi nascondo / dietro maschere
occasionali / o travestimenti di facciata. / Non ho bisogno di filtri / né di
ritocchi particolari / per incontrare i miei simili.” (Semplicità).
Ugualmente le relazioni umane sono improntate alla spontaneità e sincerità:
“Basta poco, amico, / per allontanarsi. / Un gesto involontario, / piccole
stupidaggini / mettono in subbuglio / i pensieri / nascosti nell’anima / di chi
fugge da se stesso / ed ostenta un subdolo moralismo. / Chi finge è vile! / La
spontaneità / appartiene alle persone serene / che non hanno bisogno di bluffare
/ perché hanno saldato il conto con la vita / e sono in pace col mondo.” (Amicizia
incerta). L’amore stesso se non si nutre di questa autenticità profonda non
può sopravvivere alla sua apparenza ingannevole: “Lontana dal palcoscenico
abituale / la tua smorfia non cambia. / Muta il tuo volto / mentre gli occhi
fissano / il grumo nascosto nel mio cuore. / Come un’eclissi di luna / svanì /
la storia di una vita. / Non ci divise l’orizzonte: / fu la nostra vicinanza / a
separarci.” (Ad una teatrante).
La
precarietà che priva di una stabilità economica e di un inserimento lavorativo
non riesce tuttavia a defraudare della propria dignità e della ricchezza
interiore, le quali sussistono indipendentemente dalle condizioni sfavorevoli:
“Senza salario, / pago un conto / che non mi appartiene / e mi ritrovo / ogni
giorno più povero. / Senza un porto sicuro, / cammino tra mille incertezze / in
un Paese stantio. / Il potere non mi vede / perché sono nessuno / però mi
cattura / nella sua rete fiscale / per offrire a viziosi gattopardi / anche la
mia speranza. / Io, che sono nessuno, / voglio tenere viva / la mia dignità.” (Io,
che sono nessuno). Il poeta osserva con disgusto come la corruzione dilaghi
e leda rovinosamente il tessuto sociale: “Castelli di sabbia / celano realtà
spettrali / e ospitano uomini senza coscienza. / Reconditi interessi / e trame
segrete / allontanano le coscienze / dalle grandi parate. / Si corre
all’arrembaggio / senza alcuna ragione. / La mia scelta? / Non cadere
nell’oceano / degli ammicamenti subdoli: / avere delle idee senza briglia / è la
vera libertà.” L’asservimento dell’uomo alle logiche del potere, a costo di
snaturare la propria essenza ed essere privati della libertà, è quanto di più
meschino e squallido vi possa essere: “Vi lasciate trasportare dalla corrente /
lontano dalla gente / ed ora, privati di tutto, / vivete in seconda fila, / lì
dove non brilla / la luce dell’autonomia. / Vivere all’ombra di un potente / può
essere rassicurante, / ma non è entusiasmante. / Non aspettate / di essere
barattati: / uscite dall’ombra / e cercate la vostra dimensione!” (Ai lacchè).
Quella di Giovanni Di Lena si può definire una poesia engagée, cosiddetta
civile, che fruga tra le pieghe distorte del sistema, là dove attecchisce la
cultura della menzogna e dell’imbroglio, per levare il suo monito di protesta:
“Contro ogni NO detto alla rinfusa / contro ogni SI che ci sotterra. / Formulo
slogan / e lancio parole in disuso / per combattere / la piega storta delle idee
/ che sovrasta il nostro tempo. / Suggestive impennate sociali / non riescono a
debellare / la zavorra governativa che, / disinvolta, / consolida il suo Potere
/ e alimenta il declino. / Allegri riformisti / - ossequiosi dell’ordine
costituito / sguazzano nella doppiezza politica / per galleggiare, lusinghieri,
/ nel brodo di giuggiole / ad essi servito.” (Slogan e parole). Si
rivivono i drammi nazionali sulla propria pelle, attraverso le tragiche
vicissitudini del padre, travolto dallo spietato ingranaggio
dell’industrializzazione: “Porto nel cuore / lo sgomento di mio padre / per la
guerra / che fu chiamato a combattere. / Porto nel cuore / la rabbia di mio
padre / che fece ritorno in Germania / e versò il suo sangue oltre il Brennero /
per placare la fame. / Non gli fu tanto ostile / il campo di concentramento /
quanto il ricovero / nelle baracche di legno / dello sfruttamento industriale. /
Porto nel cuore / il dolore dei suoi occhi / e la miseria nemica / che sconfisse
la sua speranza.” (Via Brennero). La crisi da economica diventa
esistenziale: “Per pudore non si esce di casa. / Ogni tanto lo sguardo / va
oltre la finestra: / con gli occhi persi / si osservano le cose passate / e al
tempo si sopravvive. / Si sta soli - come candele - / a soffrire in mesto
silenzio.” (La crisi).
L’autore constata amaramente l’atavica sonnolenza
meridionale, incapace di lottare contro le ingiustizie e per un futuro migliore:
“Sono passati cinquant’anni / tra rassicuranti promesse / e malattie oscure, /
false bonifiche / e morti improvvise. / Sono passati cinquant’anni. / La pancia
piena / non ci ha spinti all’azione / e l’egoismo / non ci ha reso saggi. / E
adesso / che il male è nel sangue, / le ossa sono frantumate / e la bufera ha
distrutto ogni cosa, / vorremmo dire basta, / ma siamo ancora in letargo. / Da
noi / la lotta / è un sogno pomeridiano.” (Il fallimento dell’attesa);
“Non siamo pronti / ad affrontare la rivoluzione / e scrollarci di dosso / la
cappa oltraggiosa / che affossa qualsiasi guizzo. / Siamo sempre proni / agli
obblighi – senza tempo - / dei superiori, / e alle regole, / già decise, / del
cambiamento. / Qualcosa – a volte – si muove, / ma slitta alla partenza: /
progetti fantasiosi / abbozzano uno sviluppo / che non ci sarà / o non si vuole
ci sia.” (Idee latenti). Vede la propria terra paralizzata dall’accidia e
insanguinata da incontrastati soprusi: “Questa bocca di fuoco, / che tanto
sangue ha rubato, / è l’orizzonte / di un mondo contaminato / dove un vuoto
accidioso / paralizza le menti: / si piange di dolore / e si aspetta. / Qui / è
venuto anche lo Stato / a dispiegare il suo impegno / e rendere onore / alle
memorie bruciate, / ma si sente profumo d’indifferenza.” (Taranto imbalsamata).
Il suo Paese, la Lucania, è preda imbelle di avvoltoi senza scrupoli che la
saccheggiano e la profanano brutalmente: “La tua naturale bellezza, / oggi
insidiata, / è l’angolo di paradiso / di ciniche lobbies, / o mia Lucania. /
Desiderosa di apparire, / ti sei concessa a troppi / perdendo te stessa. / non
hai resistito alle lusinghe / di spregiudicati avvoltoi / che ti hanno illusa,
sedotta / e abbandonata. / Imbrattata e non paga dello sfacelo, / hai accolto
vecchi nemici / nel Salotto Buono dell’ipocrisia. / Passiva e chiacchierata, /
come una vecchia puttana, / ti lasci prendere e defraudare / dalla cordata
mercenaria / ricevendone in cambio / l’ennesima beffa.” (Il salotto di Tempa
Rossa). L’affetto viscerale che nutre verso di essa si palesa nella
desolazione di saperla così martoriata: “Non so se queste parole disperate /
riusciranno ad insinuarsi nei meandri / delle tue viscere prostituite / e farti
rinsavire / con un’altra e più nobile coscienza. / Non so se questo grido amaro
/ potrà destarti dai sogni / che ottenebrano la tua ragione. / Non so se un
giorno, / tornando in te, / sarai capace di indossare i tuoi vestiti / smettendo
di venderti agli altri.” (Terra mia). La delusione è profonda e
angosciante: “”Da troppo tempo / calpesto / questa tetta desolata e intristita.
/ Inerme, osservo e sopporto / le sue millenarie abitudini, / i mali e i dolori
che giungono / e generano altri dubbi. / Sono consumato / e mi lascio avvolgere
/ - senza chiedere più nulla - / dal fascino dei calanchi abbandonati. / Stanco
di attendere / che una nuova primavera / torni ad avanzare inutili pretese, / mi
perdo / nel cielo sconfinato d’aprile.” (Nel cielo d’aprile);
“M’insegnarono ad amare / e rispettare. / M’insegnarono a pazientare / e
perseverare. / Mi parlarono, poi, / di sogni e di valori / ed io immaginai / un
mondo che non c’è. / Vivo in un mondo / di sogni infranti, / di apparenze e
approssimazione. / Vivo in un mondo / che – forse - non capisco.” (Fuori dal
mondo). Tutto, anche i più nobili ideali e le generose aspirazioni, sembra
morire sul nascere e la verità è soffocata dall’impaludamento dell’immobilità e
della rassegnazione: “Da noi / le idee giacciono morte o morenti / sulle
scrivanie del Potere / e gli investimenti, / come i malumori mattutini, / si
diradano in fretta. / (…) / Da noi / la verità è blindata / come i segreti di
Stato / ed ogni resoconto / è inutile / e marginale.” (Resoconto).
Nell’ultima sezione, Vicinanze, si fa spazio al respiro largo degli
affetti, come in questa struggente rêverie della figura materna: “Ho
sistemato tutto: / le lenzuola, / il copriletto ricamato, / le coperte, / i
vestiti / ed anche / i tuoi ultimi pensieri. / Ho sistemato tutto, / ma non
ancora il tuo sguardo mutevole / che riempie sempre di gioia / le pareti della
nostra casa.” (A mia madre). Intensa è questa dedica alla donna, alla sua
forza vitale e alla sua fecondità: “Donna, / baluardo del mio cuore, / tu
raccogli la mia rabbia / e col tuo canto / dolceamaro / soavemente mi quieti. /
Donna, / maltrattata, / venduta ed ammazzata, / ignobili esseri / credono di
possederti! / Donna, / compresa in ritardo / e affossata mille volte, / sei
riemersa sempre da sola / caparbiamente. / Donna, / sei tu / l’emblema della mia
libertà!” (Otto marzo). Con passione celebra la sua amata: “Tutto / della
mia vita / e / tutto / ciò che vive in me / dedico a te, / mia gioia! / La mia
linfa vitale / si nutre della spuma amorosa / del tuo essere / ed è meraviglioso
/ perché / la nobiltà delle nostre anime / va oltre ogni sciocchezza
sentimentale. / Come la Libertà / supera le barriere del Tempo / anche il nostro
Amore / si proietta verso l’Eternità.” (Insieme). È un mistero
inafferrabile e indicibile: “Non so come fai a tormentarmi il cuore / nelle
notti insonni, / ad occultare la mia persona / nel tuo manto voluttuoso / e a
chiudere la mia anima / nella tua clessidra incrinata. / Non so come fai / a
rubare i miei pensieri, / ad entrare nei miei sogni / e a far rabbrividire il
mio essere. / Non so come fai / ad alimentare il mio spirito / e a liberarmi la
mente, / ad inoculare nelle mie vene / l’ansia spasmodica / che sconvolge i
nervi / e / mi avvinghia tutto. / Non so ancora come fai / a volarmi intorno / e
raggiungere i miei occhi / col tuo sguardo leggero, / ad accarezzare il mio viso
/ ebbro di gioia e / a sopportare questo mio amore / smisurato.” (Quattordici
febbraio). Un’accorata tristezza, venata di rimpianti e nostalgie, alimenta
l’ispirazione artistica del poeta, il quale avverte il vuoto di ciò che avrebbe
potuto essere e invece non è mai stato: “L’infanzia felice / lasciò il posto /
ad un’adolescenza spensierata, / ma i giorni / di quelle età incantate /
trascorsero per te / come i grani di un rosario: / senza fine e senza aiuto. /
Essi andarono. / Impreparato alla vita, / ti colsero le difficoltà, / che
affrontasti con vigore, / ma con armi spuntate. / Per non morire / accettasti la
sventura, / sopravvivendo a te stesso.” (Esistenza); “Non sempre riappare
/ ciò che scompare / dalla mia vita. / Vivo dimenandomi / tra le lacerazioni /
delle cose che mi sono mancate. / Agli incubi resisto / e sopporto un lutto /
che mi obbliga a vivere / in silenzio.” Si sente il peso del “tragico
quotidiano”, come lo definiva Papini, nella ricerca affannosa della serenità tra
le fatiche talvolta insopportabili: “La vita va vissuta con ritmo / e i suoi
momenti riempiti: / ogni pausa è una speranza / che rischia di soffocare. / Si
fa giorno: / il terrore della quotidianità / incombe / e, / sereno, / graffia la
mia vita.” (Si fa giorno). Tuttavia, dalle macerie di tante disfatte
insorge un’alba nuova di speranza: “Da’ voce al silenzio / che mormora nel tuo
corpo, / alimenta il cuore / con un respiro più deciso. / In ogni caso / v’è /
una via d’uscita: / non è ancora l’ora di sbattere le porte. / All’alba /
bisogna abbracciare il sole / e non contemplare la sua immensità / al tramonto.”
(Mattino); “Forse la vita è strana: / manifesta la sua luce / quando il
buio / di te si è impossessato.” (Forse).
Giovanni
Di Lena ha il pregio di denunciare con lucidità i mali del nostro tempo legati
in modo particolare alla sua terra, come pure di suggerire con spontaneità e
limpidezza del verso verità esistenziali e di svelare il suo mondo interiore con
trasparenza e spontaneità, come enuncia egli stesso nella sua poetica.
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Recensione |
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