L’isola di Bouvet
L’isola di Bouvet, che dà il titolo alla raccolta, come scrive Rita Mascialino
nella postfazione, si trova nell’oceano Atlantico meridionale, nella regione
subantartica, è la parte emersa di un antico vulcano ricoperta interamente da
ghiacciai, avvolta quasi sempre da fitte nebbie che la rendono invisibile. È il
luogo più solitario e più freddo, squassato da venti tempestosi, habitat
di leoni di mare, di muschi e di licheni. Simboleggia, dunque, il massimo
isolamento del poeta: lungi dall’essere un luogo ameno, bensì orrido. Il poeta
sembra ghiacciato in questa condizione, laddove i versi si susseguono senza
punteggiatura, senza accentuazione e senza maiuscole, come ibernati anch’essi.
Sono come flutti inquieti vomitati da una sorta di “flusso di coscienza.”
L’atmosfera è surreale e metafisica, proiettata più verso l’astratto che il
fenomenico: “un
po’ di tempo / per ripiegarmi / dentro / dove decantano / le parole / gli
sguardi / per essere / catartico di me /e non coinvolgere / adesso / la
nostalgia dei giochi / e dopo / se esiste un dopo / dopo” (dopo).
La
solitudine esistenziale è un tema dominante: “stanza sul mare / fammi venire
dentro / riparami il tramonto / apparente icona / di questo lungo sogno / nato
senza salsedine / nell’acqua dolce / di un fiume di parole / tanto si muore soli
/ in un momento / chinati a ricomporre / frantumi di illusioni” (domani).
Il vuoto è opprimente: “ora giungono lente / similitudini passate / geroglifici
rari / di ore consumate / accatastate in fretta / al fuoco di una passione / che
non ha avuto il senso / di portarmi in regalo / anche cose da niente / qualche
giorno / che non appartiene / ai pochi anni / che hanno dato qualcosa / ai vuoti
di esistenza / abbracciati / ad orbite di ellisse / circoncisi / nei quanti di
speranze” (oggi). L’estetica dell’arte è ciò che ha la rivalsa sulla
vita: “questo pensare sempre / su se stesso / lanciare sguardi al vuoto /
giocare a dama / con quell’altra mano / è immaginaria radura /
fra due
monti / è cercare da poco / affetti di lontane fantasie / chiuse a ventaglio /
in un sottile gioco di ricordi / è innamorarsi ancora / di colori estremi /
odorando il sussurro della vita / sguardo della parola / guarda dentro / per
raccontarmi il bello che sta fuori” (senso estetico).
Anche il
ricordo dell’amore appare pietrificato dal solipsismo vorace e onnipresente: “mi
mancano i risvegli di Matera / scolpiti respiri / di queste notti senza apnee /
lineamenti d’amore / nell’accecante bianco del mattino / esco nudo alla pietra /
come nuda dormi ancora / ondeggiando l’odore della notte / dove l’umanità / ha
iniziato piegata il suo cammino / dentro astrali destini / ed è attimo adesso /
lampo di luce spenta / occasione di avere le tue mani / scolpite nelle pietre /
dentro me stesso / pietra d’intarsio di molli frammenti / ciottolo calpestato /
da mille camminate / d’innocenti / ora che tremo / al mistico del luogo /
cercando una ragione di divino / cercando di capire / se l’origine è pietra / se
una corona di spine / ha disteso il suo sangue sopra i sassi / se tu sei nata
qui / se quest’amore che mi porto addosso / è l’amore del mondo / se ha trovato
adesso / il
sonno dell’eterna conoscenza / di esserti figlio e amante / nell’infinito senso
di una terra / immota al tempo / che ne ha fatto natura di se stesso / ma ho
rubato le notti / graffiti già pagati del mio tempo” (Matera).
La memoria
sembra una schiavitù di cui si è prigionieri avviliti: “in quel tenue filo di
ricordo se vai / se guardi andare / se prendi la mano / senza sapere / quale hai
voluto / accanto alla tua vita distillando / dai petali dei fiori / due gocce di
profumo / per ritrovare / le prime sensazioni / di un prato / di odori giovani /
stranamente caldo / le sere / di un inverno arrivato / all’angolo / di una casa
mancata / sperata forse / amata mai / per quella cosa dentro / che corre / che
inciampa pietre / ansimando / frasi spezzate / che non lasciano dopo / sapore
/ dei sogni di quei giochi / insegnati presto / nelle braccia / di amori poi
scaduti / ora fantasmi / parole di rimpianto / fantasie / che non hanno /
decenza di sparire” (alla strada).
Nei testi
è spesso un gioco di ossimori, di sensazioni ed impressioni contrastanti: “luci
di ombre / accatastate / in angoli di vetro / lungo scoscese immagini piegate /
ai ricordi di allora / a lunghe camminate nelle grotte / dove la luce avanza /
solo per dirti che non c’è parete / ne anfratto ne caverna / per far nascere i
raggi / dove il silenzio ha il volto / di qualcuno / ora alla sbarra / al morso
dentro ai denti / a cinghie di cuoio / a imbizzarrite incognite di ore / come
fosse lontano / come avesse perduto tutti i passi / come il cammino lento / del
tuo ricordo che si trascina / attardando il giorno / scuotendo la criniera / per
vedere la luce dei tuoi occhi / ora adesso stasera / immobile nel posto più
vicino / al sorriso impotente di domani” (Via di fuga).
Stefano
Zangheri in questi versi disegna la sua isola, il suo sterminato deserto di
silenzi popolato di miraggi dell’estasi creativa.
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