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Lunamajella
Questo minuto corpus poetico è un omaggio alla terra
abruzzese, una sorta di cartolina che ne dipinge l'anima più vera, che
attecchisce alle sue radici e affiora dai paesaggi immersi nella quiete dei
silenzi, anche attraverso la vivacità del dialetto locale. Dalle vette si
contemplano l'assorta pace e la suprema bellezza: “Chi viene dice / che qui non
c’è nulla. / Ma seduti vegliamo / rincorrendo dalle case i versanti. / Ci
incavano stelle, / vaghe ombre in attesa, / preghiamo con i Santi / allungati
alle rocce.” (La penna).
La Majella sovrasta dalla maestà della sua
vertiginosa altitudine, come un Paradiso inviolato: “LunaMajella, globo sospeso
/ che quasi ci tocca, verso Palena / ma è come verso Marte: astronave / che
s'innalza e s'intaglia alle sue coste / lasciandoci come migratori passare. /
Eppure vagando non avremmo / che macchie, / di nubi / altre aquile in volo. /
Dalle feritoie riva verde, sorgente. / Grande addormentato animale.” (Lunamajella).
La natura c'insegna il suo linguaggio elementare di cristallina purezza,
come acqua fresca di sorgiva: “Devi bere per questo pianto amaro, / per questa
scossa del cuore nella neve, / questo deserto di uomini e cose. / Sola ci
appartiene la perdita, / della fontana il lento ghiacciare, / lo stormire non
nostro degli uccelli.” (La penna).
I monti sono come il pulpito di Dio,
da cui si sente echeggiare la Sua voce che sfiora le nubi del cielo: “Paesi
dell'ombra che riposate su un fianco, / che il vento non coglie – perché questo
dono Signore, / perché questa mano, sciolta la neve / nel cielo della tua
continua discesa? / All'orecchio dalla vena più lontana, / dal cuore più
nascosto, / il battito che ora esce col sole - / sarà un uomo forse, sarà la
serpe / che piange nel suo mistero il tuo mistero.” (Paesi dell’ombra che
riposate). La terra è gravida di memoria, solcata dalla scia delle trascorse
esistenze degli avi: “La nube che scorre, il respiro che muta, / sei tu che
passi terra dalle molte rughe, / stagione della luce. / L’abbiamo attraversata
con la lingua / questa strada, questo ceppo di bosco / che si è fatto paese. /
Ci ha protratti fuori di luna, / nella calura del sogno, / questa ortica di
volti sminuzzati, / questa tormenta indifesa di memorie. / E nulla ora sale
giacché nulla ora discende / nel procedere che abbraccia la valle. / È il suo
ultimo grido – non può essere il più forte.”
Essa è sempre feconda di vita,
grembo materno che accoglie paziente la fatica dei giorni: “Nella domanda / non
hai nominato il vento / nel trapasso del sole / e l'aquila che si incurva al
cielo. / Non hai nominato / la strada e la morte / che si aggiunge alla croce. /
Ma l'uomo lungo il pianoro / svanendo al vallone / è terra che resta nella
semina / fredda del lutto, nel grido / che dà sempre – anche a sera - / il suo
frutto.” Dalla memoria ancestrale delle montagne s'apre un varco di cielo:
“Giacché / anche tu cerchi sbocco / nell’autunno di viole / che di noi non si
scorda - / un azzurro, un giallo / e un rosso per chi resta / ora che le anime /
come uccelli si lanciano - / più non si guardano torve - / verdi in un lago
verde di monti / dentro quel cielo / che mai vuole perderci.” (Lunamajella).
Gian Piero Stefanoni con questo opuscolo ci offre un
ritratto suggestivo di un luogo dello spirito che s'affaccia sull'eterno, una
guglia di divino silenzio sospeso su un abisso: “Dove non c'è nulla / se non lo
spazio / chiuso alla banchina / e l'oceano di mare / che all’occhio si
trasforma. / (Dove non c’è che acqua / a cui tornare - nell'acqua / a cui morire
– vento che misuri / da una terra sfinita, terra / da terra, sale in
creazione).” (Adriatica).
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Recensione |
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