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L’universo parallelo
degli Acquatici
Questo poemetto metafisico esordisce con una parodia del celebre incipit
dantesco: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, cui fa eco “Alla fine di un
erto canale / che qualcuno m’aveva indicato / fosse il cordone ombelicale di Dio
/ e che io avevo asceso arrancando / senza perdere mai la speranza / di vedere
l’Altissima Luce.” Anche questo è un viaggio, ma non nei tre regni dell’aldilà,
bensì in quello esclusivamente acquatico, considerato, secondo l’antica
filosofia di Talete, come il principio stesso (l’archè) della vita, fino
ad assurgere ad una sorta di deità, di ipostatizzazione dell’”Idea Assoluta” che
s’incarnerebbe nell’”Acqua eterna” mediata dalla “Grande Madre Acquatica”. La
scienza, osservando come negli acquitrini si costituiscano le più primitive
forme viventi, riconosce all’acqua il primato nell’eziologia dell’universo.
Nella cultura biblica, così come un po’ in tutte le religioni (ad esempio,
nell’islam, essa è la sostanza con cui Allah ha creato l’uomo), riveste un ruolo
fondamentale, ugualmente legato all’origine della creazione, indicandolo come
elemento preesistente alla stessa: “In principio Dio creò il cielo e la terra.
Ora la terra era informe e deserto e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo
spirito di Dio aleggiava sulle acque.” (Gn 1,2). Inoltre, l’acqua assume un
valore di palingenesi, come nel diluvio universale dell’Antico Testamento, quale
rinnovamento della terra macchiata dalle colpe degli uomini, che avrà figura
speculare, nel Nuovo, nella ritualità del battesimo, quale purificazione dai
peccati, morte dell’uomo vecchio corrotto e rinascita alla grazia. Anche nella
simbologia comune, l’acqua è per antonomasia archetipo della vita: dal liquido
amniotico in cui si plasma la creatura umana, ai fiumi, laghi e mari che sono
veicoli della più esuberante vitalità, guizzante di creature acquatiche e
terrestri, pur nella sua ineludibile ambivalenza che ammicca alla morte, nel
classico binomio di Bios e Thanatos.
L’esaltazione che ne vanta Veniero Scarselli, dunque, è più che giustificata rispetto a queste valenze,
anche se gli attribuisce un potere ontologico piuttosto inverosimile, come
accade quando si estrae un elemento dal suo contesto e lo s’intronizza quale
fattore esclusivo, in un’interpretazione quanto mai temeraria. L’autore, già
Condottiero Sir Venerius Degli Scarselli, allora, depone ogni concetto
altezzoso di sé per identificarsi grottescamente con le creature acquatiche,
fino a svilire la propria natura e dignità di essere pensante, creato a immagine
di Dio, quale sottospecie del regno acquatico ed essere deforme cosiddetto
“mutante”, inchinandosi di fronte ad un’improbabile Donna Acquatica, che evoca,
ancora una volta parodisticamente, la Beatrice dantesca, fungendo da guida
all’iniziazione della rivelazione gnoseologica che appare, in questo caso,
alquanto sconcertante. La stessa esistenza della creatura umana sembrerebbe
fagocitata da quest’universo dominante acquatico e perdersi nell’anonimato di
una mirabile catena di molecole: “Sarei dunque rimasto sospeso / sugli orrendi
abissi del Nulla / nella forma d’una mera immagine / di abortivo ghiacciolo mai
nato, / senza neanche il magro conforto / di sapere che esistono al mondo /
molecole più fortunate / perché fornite di tanta sostanza / da potere riflettere
la luce / e potere essere perfino / toccate e ritoccate, / addirittura /
assemblate con maggior decoro / in onorate e longeve cattedrali?” In questo
modo, l’uomo, tradizionalmente incoronato come re del mondo, viene totalmente
decentrato dal suo egotismo e narcisismo, spostando impietosamente il
baricentro, per piombare nel buio fitto del nichilismo, essendo egli stesso
ridotto a nulla: “il Nulla, ma certo è la Morte, / la totale estinzione
dell’Io, / e nulla v’è di più ripugnante / per un essere vivente a sangue caldo
/che la tremenda, assoluta, fredda Morte / ove ogni traccia di noi sia disciolta
/ nei tetri abissi della vostra acqua.”
È uno sconvolgimento del pensiero pari
alla rivoluzione copernicana: come si scopre che non è il sole a ruotare attorno
alla terra, ma viceversa, demitizzando l’aura di egocentrismo di cui ci si
circondava, così, secondo questa teoria, non è l’uomo il padrone dell’universo,
ma un risibile “quanto” appartenente ad una sofisticata architettura
metafisica, e di questo soltanto dovrebbe sentirsi onorato: “che il tuo Ego sia
talmente sublime / da occupare il centro del mondo / come un Re, / mentre per la
verità /ti ritrovi soltanto un cervello / inutilmente farcito di neuroni /
totalmente incapaci di distinguere / il Vero dallo sterco.”
L’epilogo del viaggio, dunque, lungi
dal giungere a “riveder le stelle” e a riconoscere il principio fondante
dell’universo ne “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, a differenza
dell’epico finale della Divina Commedia, è all’insegna del sottotono e di un
tragico quanto farsesco scacco che è la resa totale al nulla, la negazione di
una verità inattingibile e il crepuscolare decadimento del prototipo umano quale
ridicolo “coso con due gambe”, per dirla con Gozzano, o quel “triste sacco che
fa merda”, per citare, come fa lo stesso autore, ancora Dante: “Dunque non restò
che ringraziare / il gentile consorzio degli Acquatici / e tutti quelli che
affettuosamente / s’erano fatti in quattro a confortarmi / minimizzando il mio
orribile male / e assicurandomi la loro comprensione / per il mio stato di
orfano del Vero. / Ma continuò ancora per molto / a rodermi il cruccio
dolente / per l’ingloriosa fine del mio viaggio / e la scomparsa disperata della
mitica / Gran Destinazione, l’Idea / così potentemente abbagliante / che si
chiamava Altissima Luce.”
Veniero Scarselli elabora un’originale
e bizzarra allegoria dell’avventura umana quanto mai assurda e inaccettabile
alla ragione per i suoi contenuti sofistici, tuttavia ha il pregio di inalberare
un’ingegnosa architettura del pensiero che spazia dall’eccessivo cerebralismo,
alla pungente satira e arguta ironia, fino a concedersi anche sprazzi di lirismo
che scaturiscono dalla contemplazione del fascino intramontabile dell’elemento
equoreo, che talmente lo seduce da ergerlo idolatricamente a propria divinità:
“delicate trame di cristalli / così turgidamente belle / da ricordare, seppure
minuscole, / le sgargianti policrome vetrate / di antiche cattedrali.”
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Recensione |
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