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Questa breve ed avvincente
silloge, che ha ricevuto il prestigioso riconoscimento del Premio Histonium,
brilla per gli accenti vibranti, l’intenso pathos e la delicata
suggestione lirica. Spiccano toni aulici tra sfumature vivide che dipingono la
cangiante evanescenza degli stati d’animo, mentre folgoranti intuizioni fissano
il fluttuare dell’emozione nell’impeccabile culto dell’arte: “Quand’anche ciuffi
di cielo | all’assedio del temporale | folgori di lento azzurrare | strappino
all’ombra del sentiero, | non più lieve sarebbe, sai, | questo percorso di
ciottoli | e fango appena franto da singulti | d’erba e fradicio di foglie.” (Di
viottoli e di vita). Immagini di notevole efficacia icastica si sposano ad
una semanticità di grande ricchezza espressiva, attraversate da un brivido di
assoluto, da quel respiro di eterno che incrina la materia e flagella le povere
spoglie mortali col suo anelito di trascendente: “Lasciami il ricordo del vento
di scirocco | gemmare cieli contro usci e vecchi scuri | scudo al mare, pregno
di scogli a un passo | dalla soglia, a un passo dal cuore. | Ha un peso d’ombre
la memoria questa sera, | strappa echi di marea al silenzio dell’approdo,
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singulto d’acque allo scafo incatramato, | moto alterno su aguzzi sassi e ricci
di mare.” (Vecchia casa in Dalmazia).
È una poesia ricamata sull’onda
iridata della memoria, levigata dalla danza dell’anima che oscilla tra l’idillio
del ricordo e la nostalgia dell’amara consapevolezza della perdita, come la
stagione felice dell’infanzia che galleggia ancora negli occhi ormai stanchi del
padre: “Così mio padre dice e nello sguardo | ha il mare, il mare che assorta
scia | d’infanzia lento accoglie.” Il presente si decifra in controluce di un
passato favoloso che rivive nell’oasi della rimembranza, in una soave rêverie:
“Ora che dirama il grano | a stormo nella luce prima | di giugno, non ricordo,
sai, | se fu solo miraggio di cuore | l’infanzia accovacciata | o se piuttosto
inciso | sulla lapide sfocata | dei giorni ne sia rimasto | uno spicchio
ancora.” (Ora che dirama il giorno). È un linguaggio elevato che
riecheggia vocaboli montaliani (“aguzzi”, “scirocco”, “approdo”), luziani
(“sciami d’anni”), pascoliani (“crepitìo di stelle”), come sedimenti di animi
nobili che si depositano sul greto degli evi e che affiorano alla riviera
luminosa dell’essere che sboccia alla celestiale fragranza dell’Eternità. In mezzo al fosco turbinìo
traluce la speranza “a dipanarci bava d’infinito” che “traboccherà dal corrugato
fardello | del tempo la tua promessa, | Signore” (Ancora so essere quiete),
che si compia il Regno di Dio, della Sua giustizia e misericordia, in mezzo a
noi. È un leggere il senso dell’esistenza anche attraverso l’altro, e in
particolare lo sconosciuto, il diverso che t’inquieta e t’interroga, poiché di
pone di fronte alla nudità della condizione umana, all’essenzialità dei suoi
bisogni primordiali, proprio quando non sono soddisfatti, come nel ritratto di
Giuseppe, “ventenne vecchio e randagio”, in Un giorno come tanti:
“Giuseppe lui si diceva, di casa in casa, | di strada in strada, barattando il
suo nome | algerino per una manciata d’avvenire, | solo un grazie gioioso e
schivo a scandire | in ressa di sogni la figura alta e antica. | L’ho visto mesi
e anni | bussare alle porte del rione, | alle porte della storia | finché di lui
ci è rimasta un giorno | solo memoria.” Con la sua acuta sensibilità, la
poetessa attraversa le pieghe della sofferenza di chi è solo e incompreso in
terra straniera, costretto a sacrificare i propri legami affettivi alle
necessità della sopravvivenza, in A una badante: “Quelle albe sottili di
malcelati addii, | quel fulgore di tuoni e grida | di sole ferito sulla banchisa
del tempo. | Quel germe di speranza | in un pugno di sogni arresi | al caso, al
dovere, all’altro. | Presto avranno voce per te. (…) In questi confini nostri
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che la tua operosa tregua | dilava da solitudini e piaghe, | attese e memorie,
mai s’arrenda | il fiato tuo a dissigillare speranze, | a diramare richiami,
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non un sogno ti sia bruciato, | meno ancora un ricordo.” Struggenti sono questi
versi, dedicati dall’autrice ad una sua amica, che hanno l’aspirazione di
oltrepassare il varco dell’al di là e di penetrare il velo dei cieli che
teneramente l’avvolge: “Sono per te questi poveri | versi, amica mia,
| velame
d’un canto disteso | che varcato il tempo | di ricordi e dolore t’aprirà
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radure di cieli e dai cieli | a migrare a ritroso ti farà | immemore e restia. |
Quiete t’attende d’immenso | vestita: nulla turbi il transito | della tua
inviolata agonia, | non l’acido schiamazzo di noi | che da quest’antro
| tetro
che chiamano vita | resteremo a vegliare su di te, | amica mia.”(Sono per te
queste parole).
Angela Ambrosini
ha il pregio di condensare in un raffinato lirismo le impressioni e le emozioni
che si avvicendano nel suo animo, le cui stagioni si affacciano al lettore
vivide delle iridescenti sfumature che colorano i paesaggi che trascorrono nei
versi: “Sboccia, vedi, il giorno con cenno | d’indolenza a tramutare brocche
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di nubi in aperti prati all’azzurro | e i gorghi del tempo acquietarsi |
sentiamo in un filo d’aria. | Com’è grande questo cielo a coprire | cieli e
terre e acque d’inesausti | passati: trasale il mio orizzonte | al brulichio
improvviso di altri confini, | al rapido fluire degli eventi in groppi di
gemiti.” (Attesa). È l’affascinante poema dello spirito che intercetta le
guglie di cielo, “quando s’apre palude di cielo | a rorido azzurro” e
s’intravede, nella sua eterea vaghezza, l’immagine divina di se stessa dalla
trasparenza dell’Eternità: “ti cerco, altra | me stessa, perduta | crisalide
d’aria e di sogno.”
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Recensione |
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