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Elegia
provinciale
«Stile
significa un uomo solo circondato da miliardi di uomini»: lo scrisse Charles
Bukowski in Portions of a Wine-stained Notebook, in Italia
Azzeccare i cavalli vincenti (Feltrinelli, 2009). Nell’odierno contesto
della produzione editoriale e letteraria, che pone in mostra innegabilmente una
relazione di proporzionalità inversa tra il valore delle opere ed il loro
successo commerciale, questo aforisma diviene perfetto per l’opera e la prassi
di scrittura di Giancarlo Micheli, uno scrittore, lui, in mezzo a così tanti
semplici scriventi. Se il romanzo d’esordio, Elegia provinciale (Baroni,
2007 ed oggi riproposto nei tipi dell’editore fiorentino Fratini), lasciò
pensare che un’opera eccellente porti con sé la difficoltà di confermarsi con le
successive, Micheli ha dato dimostrazione di essere una voce cui dover prestare
attenzione con Indie occidentali (Campanotto, 2008) e La grazia
sufficiente (id. 2010). Quali, dunque, le caratteristiche di stile che
contraddistinguono la prosa di questo autore e la fanno spiccare nell’attuale
contesto letterario – vittima passiva o, di più, consenziente, delle patologie
mediatiche vigenti? Nell’attuale temperie, inflazionata di antiromanzi e
poverissima di scrittori autentici, il corpus di Micheli si presenta,
invece, quale rifondazione del romanzo classico. Alcuni hanno paragonato il suo
stile a quello di Gadda: io ritengo sia improprio; più semplicemente, ritrovo
nelle sue pagine l’originaria forma manzoniana. Anche Elegia provinciale
è un romanzo storico, che racconta la Storia maiuscola dando voce alle minuscole
di umiliati ed offesi dostoevskiani, che in questo caso sono i personaggi
dell’ambiente rurale ed umilissimo della Torre del Lago di inizio Novecento,
dove il maestro Puccini attende alla composizione di Fanciulla del West e
si prepara alla spettacolare e consacratoria messa in scena del Metropolitan di
New York. Protagonista della vicenda non è infatti il musicista con i suoi
celeberrimi fasti artistici conditi dalle piccanti, e non meno rinomate, sue
intemperanze erotiche e sentimentali, bensì il tessuto della civiltà contadina
che, sotto i colpi di una modernità di cui l’arte pucciniana è esponente, viene
sradicata – siamo negli anni che precedettero la Grande Guerra – dai propri
rapporti animici e sensoriali con i cicli della natura.
I
caratteri della lingua del narratore sono quelli di un periodare disteso, se non
manzoniano, alla Mann, che obbliga il lettore a soffermarsi, a ponderare, a
gustare. Le scelte lessicali vivono nell’estrema ricercatezza, non però come
arcaismi, ma per mantenere in vita l’infinita ricchezza della lingua italiana.
Ora, poiché una lingua non solo è il sostrato del pensiero ma anche lo strumento
che permette al pensiero di ampliarsi, approfondirsi, afferrare, ciò che si
guadagna alla fine della lettura dei romanzi di Micheli è un accrescimento della
facoltà percettiva e intellettiva. Non è un dono da disprezzare. Luigi
Meneghello scrisse che «morendo una lingua non
muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose»: quanto più
si impoverisce, ci impoveriamo di linguaggio, tanto più si impoverisce la nostra
realtà. In ciò il lavoro di Micheli sulla forma romanzo non solo è utile, ma
indispensabile. Riuscendo ad alternare registri distinti per dare voce ai vari
personaggi, nella piena consapevolezza linguistica delle loro strutture
psicologiche e delle loro specificità sociali, egli realizza quello che Francis
Ponge, un altro virtuoso della lingua, diceva essere il segreto dello scrivere
bene, vale a dire lo scoprire mondi in questo mondo, panorami di sentimenti e
percezioni che altrimenti, senza l’alta letteratura, rimarrebbero perduti. Si
legge in uno dei capitoli centrali di Elegia provinciale: «Imbruniva
la luce del pomeriggio di settembre. Si era levata da ponente la brezza
vespertina, a scompigliare le scarne chiome dei tigli, scossi, come in ansia per
il sentimento succhiato dalle radici profonde, nelle quali la terra presentiva
il desiderio del prossimo freddo. Ogni contorta fibra legnosa si insinuava nelle
tenebre, là-bas, nel crogiuolo dell’opera al nero, aniconica alchimia del
nutrimento, ignorante della morte ma ad essa non ignota. Là-bas la natura
delle cose, non vista, istruisce lo spirito all’impietoso décor del
vero». L’ormai comprovata abilità di
Micheli nell’esser capace di aprire la ricchezza della realtà nel nostro vivere
quotidiano frenetico e ovattato, lo rende un autore di indubbio rilievo nello
scenario contemporaneo, in attesa di un pubblico di buoni lettori, che
riconoscono l’importanza della lettura rispetto al mero sfogliare.
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Recensione |
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