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Peter Russell. Vita e poesia
La poetica trascendente di Peter Russell
Lo confesso candidamente: devo
all’amica Wilma Minotti Cerini il mio primo incontro con la poesia di Peter
Russell. L’amicizia ha in sé qualcosa di contagioso: ti porta a condividere un
mondo di ideali e di valori che scopri essere comune a un gruppo di persone,
nelle cui forme espressive ritrovi quella consapevolezza dell’umano, dalla quale
emerge una limpida e sincera conferma della tua stessa umanità.
Peter Russell, un poeta
indubbiamente grande e tanto discusso del XX secolo, non si è limitato a
scrivere poesie, ma si è mostrato capace, a più riprese, di esprimere anche in
termini concettuali e filosofici il proprium più intimo della poesia.
Infatti, in alcuni saggi introduttivi alle sue raccolte poetiche, egli traccia
con chiarezza le linee della sua poetica. Sostiene che della poesia non
sia possibile trovare una definizione esauriente, perché «la poesia è partecipe
di una certa qualità universale», «la voce del poeta non è la propria, è invece
una voce universale, la voce, se vogliamo, dell’umanità» (Peter Russell,
Avant-propos a una lettura delle proprie poesie, in Peter Russell. Vita e
poesia). Nella poesia, nella grande e vera poesia dell’umanità, si incarna e si
svela la consapevolezza dell’essenza intuitiva delle cose e degli avvenimenti.
In essa prende corpo un’intuizione universale, la quale, di volta in volta, in
questo o in quest’altro grande poeta, si colora necessariamente di precisi
riflessi sentimentali, non può che esprimersi in parole, immagini, suoni e
concetti particolari, ma essa non coincide essenzialmente con questi mezzi
espressivi. Infatti «le parole, le immagini, i concetti non sono altro che uno
schermo trasparente sul quale certe apparizioni vengono proiettate. La vera
poesia sta dietro lo schermo ed è evocata dal ritmo e dalla musicalità. Le
apparizioni sullo schermo sono la materia, la musicalità è l’anima o
l’essenza» (Ivi, p. 19).
Le linee di questa poetica
corrispondono in pieno all’anima di Russell, poeta assetato
di ogni bellezza e verità, impegnato in un
continuo confronto dialogico – tramite un’abituale immersione nelle più diverse
culture e civiltà del mondo – con la totalità di ciò che esiste ed è esperibile
dallo spirito umano, strutturalmente caratterizzato e sostenuto da un’apertura
incondizionata alla trascendenza. «La poesia seria, per quanto concreta nelle
sue immagini, deve essere sempre un’esperienza trascendente» (Ivi,
p. 20). Quest’apertura dello spirito umano al tutto – compresa la sua dimensione
trascendente – apre e tiene aperto il campo di ogni esperienza in cui la
coscienza, alimentata dalla “contemplazione”
dell’incontenibile immensità del reale (cfr. la poesia definita come θεορία,
ivi, p. 18), si dibatte perennemente tra il bene e il male, tra la saggezza
e la stoltezza, tra il giusto e l’ingiusto, tra il vero e il falso. Questo è il
campo aperto dell’esperienza umana in cui si danno insieme le possibilità della
fede e del dubbio, dell’ardente adorazione religiosa e dello sconforto privo di
luce. È il moto altalenante del vivere descritto nella poesia Anima dell’uomo:
«L’anima dell’uomo come una barca di guscio di lumaca / Su un immenso oceano si
alza e cade giù: / Si alza e cade, e di nuovo cade e si rialza / Fradicia con
l’amaro sale di amore, / Il suo corso un costante lento cimentare / Diretto
ciecamente verso una stella che sparisce» (Peter Russell. Vita e poesia,
cit., p. 571).
Colgo come importante e vera
l’osservazione di Wilma Minotti Cerini, che nel suo Saggio conclusionale
descrive lo stato d’animo del poeta ormai stanco di vivere: «Allora Peter vuole
morire, volge la sua tenerezza e il suo affidamento verso quel Dio che lui non
può sentire suo nell’ambito di un’unica religione, ma solo nell’interezza del
cosmo» (Ivi, p. 832). Il confronto con tutte le religioni del mondo non
gli impedisce di riconoscere che, in mezzo alla confusione e nell’impossibilità
di procurarci una vera felicità definitiva, occorre ignorare il ciarpame e
riconoscere l’insopprimibile fascino della figura di Cristo, perché «Cristo è il
nostro soccorso» (P. Russell, I cieli sono pieni della Gloria del Signore,
ivi, p. 761). Umilmente reclama per sé il positivo e prende
consapevolmente le distanze dal negativo: «Temo il vuoto totale degli anni
futuri: / Intanto non posso che vegliare umilmente e pregare. / Senza fede,
quale rinascita posso attendere?» (P. Russell, Wonderful World, ivi,
p. 742). Con Paolo di Tarso o quelli della sua scuola, crediamo che ἐν αὐτῷ
κατοικεῖ πᾶν τὸ πλήρωμα τῆς θεότητος σωματικῶς, «in lui [in Cristo] abita
corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col. 2,9).
Ma non è con questo timido
richiamo alla sensibilità anche cristiana di Russell che voglio concludere il
mio ricordo di lui. Certamente anch’egli ha intuito nel cristianesimo una forza
spirituale portante della nostra civiltà, con tutta l’inesprimibile e innegabile
carica lasciata dalla religione e dalla devozione cristiana nell’arte, nella
letteratura e nel pensiero europeo. Piuttosto, di fronte a un’Europa come la
nostra, che oggi rischia di smarrire se stessa lontano dai suoi princìpi
identitari, mi piace ricordare l’incondizionato riconoscimento e l’immensa
gratitudine esplicitamente professata da Peter Russell nei confronti del mondo
greco-latino, a partire dall’inarrivabile Omero: «Il cieco Omero, schernito
dalla truppa ignorante, / Sorretto tra i muli, inventò l’Olimpo; / E l’Ellade
esplose in fiamme d’oro, e l’Europa / Lenta lenta crebbe dai suoi lunghi
esametri…» (P. Russell, Il cieco Omero, ivi, p. 32). Come non
avere davanti agli occhi l’affresco del Parnaso di Raffaello nella Stanza
della Segnatura? Dimenticare la poetica trascendente di Peter Russell
significherebbe anche consegnare l’Europa al proprio disfacimento culturale.
Mons. Franco Buzzi
Veneranda Biblioteca Ambrosiana
Milano, 20 gennaio 2021
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