| |
L'ultima fuga
L’Ultima fuga, il più recente lavoro poetico di Daniela Quieti,
segna senza alcun dubbio un superamento della sua precedente poesia
sentimentale, dove tuttavia non c’era alcun compiacimento intimistico. Uno
squarcio di sogno era già un diario dell’anima, tutt’altro che lezioso e
molle, ma attraversato da un dolore vivo per felicità sempre sfuggenti: Eros
e Thanatos, Amore e Morte. Nell’Ultima fuga si assiste ad
una decantazione, ad una sublimazione sorprendente di questo convulso magma
sentimentale. Ad una sua universalizzazione, se vogliamo, quasi a scriverlo
fosse un’anima del mondo, molto più che un soggetto umano. E la
sofferenza che affiora assume le vesti di un dolore cosmico.
È
l’impossibilità di amare in un mondo refrattario all’amore. È la prigionia di un
Essere che sa di poter volare e si trova chiuso in un’arida gabbia. È il fuoco
lavico che prorompe dal cratere e si congela in un mare di pietra a valle.
L’umanità non sa vivere all’altezza dell’amore, ma il gelido vento che spira sui
carboni ardenti, in fondo non fa che attizzare la fiamma. Le ombre soffiano
sulle luci, e viceversa, rafforzandosi e indebolendosi vicendevolmente. Un
chiaroscuro, una situazione febbricitante di stallo. Una macerazione, un
crogiuolo. Un braciere a rischio di estinzione, ma dal calore costante,
inestinguibile, senza rapide vampe. E la poetessa è la vestale di questa
fiamma-non-fiamma, di questo grido mortale e immortale nello stesso tempo.
È questa, in
fondo, una poesia della crisi: “Lo specchio riflette | la resa triste | d’un bivio
incombente | la nostalgia | d’una libertà sognata | che buca la mente. | Noi siamo
|
in un luogo di scheletri | pur amati. | Ma se la tenebra | si estenderà in eterno
|
chi porterà ancora le rose | dove la musica si ferma? | E il grande silenzio | che
azzittisce la seta | diventa pietra | nelle mani | che non stringono | promesse
d’amore”. Una torcia, dunque, che fa luce a se stessa, alimentandosi del proprio
amore. Un incendio che non divampa nel mondo, perché è di pietra il mondo e non
si lascia infiammare. Ma la negazione accende un fuoco più forte e più alto. Un
incendio glaciale, che va oltre l’oggetto da amare, oltre ogni contingenza, ad
abbracciare l’essenza, al di là della sfera spazio-temporale.
E non è che
l’anima non soffra per questa mutilata realtà esistenziale, per questo
soffocamento disperante. Non dimentica, tuttavia, quest’anima, di essere donna
e, come tale, di possedere la grazia di non smarrire la grazia, nonostante le
lacerazioni carnali. Anzi, a dispetto di ogni lacerazione carnale. Il suo canto
non è come quello disperato di Orfeo, che si accorge, voltandosi, di avere
smarrito per sempre Euridice. Ella non si volta. Non perde la certezza del
vincolo che lega visibile ed invisibile tra di loro. Non che non si accorga
della separazione. Ne soffre atrocemente, ma, come il vento sulla fiamma, il
dolore non estingue, bensì incrementa la certezza dell’unione.
Essere e
Non-essere sorgono dal medesimo ceppo. E ci troviamo nell’Eden, prima della
conoscenza del bene e del male. Sta qui il sogno di “un ritorno ancestrale”
entro un mondo di essenze e di purezze dimenticato. Da qui però si diparte
“l’ultima fuga”, la spinta centrifuga che distrugge l’amore e spezza l’unità
delle cose, allontanandole tra di loro. Questa poesia raffigura l’Eva edenica,
la sua verginità di carne e di spirito che attrae Adamo dentro di sé, pur stando
sul punto di perderlo in continuazione. C’è l’idea di una frattura imminente o
già avvenuta; di una ferita da cicatrizzare: “Inventa una parola | da ascoltare
|
sui frammenti di gesti | e di silenzi | da ricomporre | nell’urna disadorna
| di
memorie | e di promesse”. “E ti penso amore | immagino il tuo abbraccio
|
d’illusione | riempio la lontananza”.
Con grande
forza metaforica, è espressa l’idea di una pienezza d’amore che sfugge, si fa
labile a volte, ma non viene mai cancellata. Ed anzi rinasce dalle ceneri come
araba fenice. Al contrario di Penelope che disfa la tela, la poetessa cerca di
ricucire uno strappo: “Non disfo la tela | di notte | ma tesso ricami | di te
| sul
mio sudario”. E “non smetterò di amarti. | Labirinto | nel cuore che ti cerca”.
“Non ti seppellirò | mio sogno”. “L’impossibile | diventa possibile
| se trascendo |
il pensiero razionale | perché il cuore | non conosce confini”. E a dispetto di
ogni spaccatura, “altra metà di cielo sei”. Per cui, “Non incamminarti
| uomo
errante | senza il tuo sole | e senza la mia luna”. “Ti aspetto, | mio principe,
|
nell’armatura d’oro | sul cavallo bianco | ma senza spada”. Evocazione potente e
fortemente immaginifica dell’unione.
| |
 |
Recensione |
|