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Una raccolta di racconti, Un’altra vita di Paolo Ruffilli, poeta, saggista, narratore di vasto respiro e di feconde esperienze culturali che lo hanno visto curatore di biografie e di classici italiani (Leopardi, Foscolo, Goldoni, Nievo), e traduttore di autori sapienziali (come Gibran, Tagore, i metafisici inglesi, il tao), è un testo assolutamente insolito nell’attuale panorama letterario italiano, così editorialmente determinato, omologato, affannato nell’inseguimento del “successo”, e ovunque della notorietà volgarmente pubblicitaria.

Ruffilli appare così un appartato, quasi racchiuso in una sua particolarissima forma di strutturazione e di stilizzazione del racconto, sempre a mezza strada fra un raffinato arcaismo linguistico, evidentemente mediato dai classici da lui tanto intensamente frequentati, e assoluta, modernissima disinvoltura e audacia della rappresentazione di un erotismo sempre intenso, a volte travolgente, anche se ancorato, nel profondo dell’animo di alcuni protagonisti delle vicende narrate, alla torturante ma catartica motivazione dei sentimenti. Accade così di stupirsi leggendo queste pagine, tutte dedicate all’amore sia sacro che profano, ma anche tutte documento dell’inafferrabile felicità, del sempre deluso desiderio di armonica completezza, di confidente abbandono e di sprezzante ripulsa di trovarsi a volte spiazzati da un improvviso stilema arcaico o da una frase proverbiale corrente che ci porta in un’attualità che immette di nuovo personaggi “alti” al livello di una quotidianità persino depressa.

Ma v’è di più: la struttura di un testo continuamente vibrante di emozioni ed epifanie d’ogni genere – l’onnipresenza degli spettacoli naturali, le tempeste, la neve, i tramonti, quasi sempre il mare, le bizzarrie del clima, lo scirocco distruttivo, il gelo, e anch’essa sempre presente, la luna; e quelli “sociali”, le stanze di lusso, i tuguri, le pensioncine squallide, gli alberghi sontuosi, i giardini leziosi e i cespugli, covili degli amanti: insomma il disordine orribile e delizioso di tutte le cose terrene – è rigorosamente organizzata secondo un criterio di assoluta simmetria: il libro è diviso in quattro sezioni corrispondenti alle quattro stagioni; ogni sezione, o stagione, è composta da cinque racconti; ogni racconto è diviso in otto brevi capitoletti, e dedicato a un autore prediletto. Tutto ciò corrisponde forse a un esigente bisogno di ordine dell’Autore per offrire più agevole corso alla sua volontà di dare perspicuità alla rappresentazione dell’insopportabile disordine dell’esistenza umana e della natura stessa, all’interno della quale è l’uomo l’essere apparentemente più fragile nel cerchio esistenziale (così variamente raffigurato in queste pagine), e la donna costituisce il fulcro (diciamo l’eroina) di ognuna di queste vicende. L’uomo fa in genere, per dirla banalmente, una pessima figura.

A questo punto è opportuno ricordare un giudizio dello scomparso Luigi Baldacci che ebbe a scrivere in passato: “Ruffilli sceglie le ‘forme chiuse’ anche in narrativa, perché gli risulta il modo per essere più libero nel dare pronuncia a tutto ciò che è difficile, se non impossibile, da dire in un terreno minato come quello della quotidianità e dell’amore. E lo fa con l’uso di una sua inconfondibile scrittura lieve, tra ironia e adesione, espressivamente votata alla pura partitura musicale”. Assolutamente vero.

Se si volesse scegliere, fra questi racconti, quelli che mi sono sembrati, non dico migliori, ma più vicini allo spirito dell’autore prediletto, dichiarato da Ruffilli al termine di ogni narrazione, risultando così più feconda la simbiosi, non avrei dubbi, sceglierei: La locanda irlandese, ispirata a Joyce, La stazione termale, ispirata a Cechov, L’amica, alla Mansfield, La padrona di casa, alla Woolf, La passione delle idee, alla Morante.
Recensione
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