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Natura morta
La natura morta è nell’arte una
visione di staticità. Considerare pertanto una “natura morta” non statica, ma
l’opposto, è uno di quei processi di trasformazione non semplicissimi da
assimilare. Ecco perché leggere Natura morta, l’ultimo
lavoro poetico di Paolo Ruffilli ha scatenato in me una ridda di sensazioni.
Perché in questo libro, mi dicevo mentre leggevo, di statico non c’è nulla, ma
proprio nulla. Ci sono invece le parole, che gran scoperta si direbbe
ironicamente. Ci sono parole che sarebbero piaciute molto ad Ingeborg Bachmann,
considerata una scrittrice innovativa ( o meglio ancora una che “risciacquava”
le parole). Piacerebbe al ricercatore attento mentre constata che le parole di
questo libro sono usate con una straordinaria capacità di agire. Ruffilli le usa
con l’abilità del giocoliere, ma senza illusionismi, capace di “imbullonare e
sbullonare” con inaudita accelerazione le parole per farne argomenti,
oltretutto, che richiedono un difficile “assemblaggio” .
I temi trattati non sono né
usuali, né semplici, pur se di riconosciuta universalità. Lasciamo recitare
l’indice: alcuni Preliminari che danno uno spazio ad un linguaggio
sentimentalmente forte per passare poi ad alcuni Interrogativi su tracce,
nostalgie, presente. La “natura morta” vera e propria comincia a pagina 47 con
idee “Del tempo“, “Del nome” e “Del sapere”. E qui Ruffilli esprime tutta la
sua statura di poeta massimo per il quale gli editori, francamente, dovrebbero
accapigliarsi per pubblicare. Qui la poesia si trasforma in musica, complici le
rime interne e un ritmo, o un’onda se vogliamo, imprescindibile (“dice il poeta
“La musica mi ha insegnato che la grammatica è uno strumento e non una legge”),
che sospinge i contenuti (altissimi) ad un’ampiezza complessiva sbalorditiva (
“In ogni aspetto e effetto | qualunque sia l’ordito | per uno o un altre corso
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nulla mai di nuovo eppure | tutto nuovo avviene rispetto | all’infinito tempo già
trascorso”). Allora, finalmente, ho compreso che la “natura morta” da estetica
pura quale deve essere all’inizio del percorso si è fatta etica per effetto
della sublimazione. Bellezza come coro polifonico.
Infine gli appunti Per una
ipotesi di poetica posti dall’autore a chiusura della sua opera. Appunti
estremamente interessanti. Egli dice: “…perché il più alto grado di presenza è
l’assenza”. In altre parole come voleva Jean Charles Vegliante (il più grande
traduttore di Dante in Francia) del suo bel libro di poesie tradotto da Einaudi
sotto l’egida di Raboni e cioè rendere l’intraducibile tradotto pur lasciandolo
intraducibile. Non è un gioco di parole ma il senso più profondo dell’essere
poeta che azzera i tempi del verbo per essere l’incarnazione vivente del
passato, del presente e del futuro.
Rai2, Un Libro al Giorno
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Recensione |
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