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Prefazione a
Dolci velenosissime spezie
di Rossano Onano
la
Scheda del
libro

Domenico Cara
I mutamenti del chiaroscuro ed altre spezie
Serpente in area barocca
Attraverso
un'indubitabile febbre del conoscere, Rossano Onano consegna al suo lettore una
serie di temperature emozionali, di posizioni critiche insopprimibili,
sistematiche, ardite, con richiami di gusto, qualità letterarie sapide e gettiti
culturalistici che si riappropriano di un risentimento del tempo ritrovato, ma
anche di un'illustratività da cartolina turistica ripresa in più frequenze
d'onda e di campo istoriato. L'autobiografia sembra provvisoria ma ha una sua
elettiva (e privilegiata) mappa sontuosa, una consecutiva apocalisse di mozioni
e di voci incorreggibili, magnetismi verbali, rischi di rivelazione, informalità
oggettive tutte vischi e tutte colori.
La connotazione riappare
piumata in ogni blocco di versi, ognuno è supplementare e comunque si
differenzia, e ciò che danza (dei contenuti) riconosce la leggenda spicciola dei
fatti, le simmetrie dell'ambivalenza, il modo e il motivo delle allucinazioni,
la squalifica e lo squallore della realtà che alimenta peraltro sgorghi e
ingorghi e guizzi grotteschi. Tutto questo rivelato e riattivato nell'assunzione
culta, ineliminabile nel suo spirito di parte e di controparte della verità
irrimediabile, interfluente, in parte araldica di una scrittura “velenosissima”
per inedite specie e mai dolce o vanesia, estrema e grezza, contrapposta alla
larvalità dei sintagmi liristici o malati di varia poesia, che si dice di
avanguardia o che fantastica sulla costruzione del presunto.
Nel clima sempre aguzzo del
testo appunto si libera il senso (anche della scena), il problema di raccontare
“il mare dell'oggettività”, i principi poveri, il mondo esotico, il dramma dalle
fondamenta, in avvisi, in esigenze plurime e in corrosioni e in più scalfitture,
graffiti esorcizzabili, circonvoluzioni storiche, moventi a sorpresa di magmi,
per trame, che non si possono mai intendere come oasi del banale, ma che hanno
la consecutiva ambizione di organizzare i fatti in funzione di una serie di
simboli, coordinando i significati; di ossessionare gli insoddisfatti della
società che restano tuttavia disorientati nel bel mezzo del viaggio, e in cui si
compie la visitazione dello sguardo fino all'ultima spaglia, e tra le polveri
della medesima terrestrità in cui proliferano i gesti del serpente che agisce
come stemma in un ordine elegiaco di situazioni invadenti.
Lo spazio è acceso quindi da
più fuochi, da umori incauti, da suggestioni evidenti, dalle facoltà di
riappropriarsi del labirinto e da quelle intralasciabili dell'evidenziarlo per
portarsi nel divenire della luce con una meno ferita metafora. Lo stesso Goethe
ha smesso di scrivere versi improvvisamente quando si è insinuata nel suo
fervore scritturale la obbligatorietà di riconoscersi nella scrittura della
prosa, e Onano sembra avere ascoltato l'olimpico muggito avvincente, lo stato di
crisi e – insieme – la inutilità di istituire per il dire la sistematicità dei
“generi” che – tra l'altro – non aiutano le prospettive della qualità, né va
inclusa, come perdita del centro o deformabilità del sentimento.
Un genere di solipsismo che
spalanca dinanzi ad esso le porte dell'uniformità e scava nella durezza
corrispondente, in simultanea usura, su aspetti drammatici, nel districarsi
filtrato, e rivelando a se stesso un tempo di felice razionalità progettuale,
spostato e sovrapposto alle sue stesse derive circondate di palude, di
scorrimenti difficili, di nebulosità deposte per sacralizzare il linguaggio,
farlo uscire dalla fiaba comune e da quell'imago abituale e scontata,
soprattutto nei luoghi imposti alla poeticità comune, a certi liricismi da
nausea, cresciuti fra gli epigoni e mai morti con essi.
La spoglia lacerazione del
paradigma
La memoria
dell'equilibrio è una delle costanti più massicce di questa scrittura poematica,
resa per stanze “magiche”, per allegorie narranti, senza finzioni pretestuali e
senza fantasticherie. La riattivazione non è logora, né si àncora al dispotismo
testuale della densità, ma si versa con una purezza della ragione, incontra il
collettivo scandito per sconsacrazioni naturalistiche e laiche , riporta
proposte e fondi di figura recisi dal movimento di una concreta esperienza, i
malefici dell'agonismo, le negazioni della complessità per reimmergersi
nell'esperienza così come piace a tutti noi nel momento in cui l'abbiamo
perduta, o è stata estremamente afflitta dalla congerie delle poetiche che sono
certe di avere ragione e di poter osannare la complementarietà che – tra l'altro
– dovrebbe rinnovare la suggestione dei “classici” contemporanei e ripetere la
superbia dell'ulteriore stadio (nella postumità).
“L'archetipo ha parametri
disarticolati, esagera /. Suggerisce un appalto per la primogenitura / in luogo
di un piatto di lenticchie, sia pure / condite al tabasco, o al ketchup ( è noto
/ come siano imbarbariti, i gusti). E' irrisolto / il problema della competenza
di primo letto, / quale prerogativa contrapporre, quale primizia/. // La
processione incede con mani di pesca / con seni bianchi di camicia con anni /
gravidi d'occhio di spessore le raccolte / signorine pregne di pudore dialettico
/. // L'evoluzione a colpi di machete appunto / evolve (a pena noi avvertiamo
all'odore / la processione, qualora bendassimo gli occhi)”.
Nel cui brogliaccio la
sfaccettatura si svolge secca, i suoi enigmi portano qualcosa di irreale (non di
visionario) all'azione del verso, e – nell'apparente anomalia – tutto si rivela
apocalittico, coordinato per pulsioni, incastri di moralità pervicaci,
variegate, e manifestazioni di contrasto inconsumabile.
Rossano Onano inventa sempre
qualche immagine per la dissoluzione intellettuale, versa su di essa
impraticabili eventi, casi critici, idilli sediziosi; traccia cerchi discorsivi
in monologhi esotici, citazioni sciolte, il commento che ricomincia le sue
provocazioni, e ai bordi del movimento e della trasgressione più cospicuo
malumore che innovazione fluente e complessa. Tutto questo conferisce una
diversità nel panorama di spugne della poesia dei nostri anni, in cui i moduli
ritmici servono per riavviare il valore del verso e non per farlo sfuggire dal
canone velleitario o dall'inevitabile cozzo.
Il poeta si diverte con le
sue conchiglie attimo dopo attimo, scorteccia i legami per ricreare una pagina
prosastica, rinnova il vitreo verso, indulge nel ritmo di un linguaggio che si
fa mozzo, e che rifugge e rifiuta il valzer dell'anacronismo, così spesso
ripreso per continuare la cosiddetta smania della tradizione, e soltanto sfida
di similitudine mai distesa o amata!
Ivi “Angelica bella s'intalpa
in un sonno lento”, “Turoldo (si aggira per coordinate spaziali sue proprie...),
“la cerbottana aggetta aghi di curaro”, ecc., e la sensuosità morfematica si
riapre ad una serie di vicende possibili, riassociabili come poesia e trasposte
in occasione poetica lucida; riveste di smalto lo schermo senza imbalsamare le
infinite possibilità a cui sono disposte l'intelligenza dei contemporanei e la
certezza di non rendere sospettabile alcuna nostalgia.
Il vario artificiale non ha
angolature false, si porta verso amplissimi territori, e l'ellitticità diviene
sostanza polimorfa, senza estetismo e senza diaframmi di insipiente amenità.
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