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Il menu tra storia ed arte

 

Asti - Palazzo Mazzetti
dal 26 maggio al 16 giugno 1990
All'Insegna del Lanzello, Costigliole 1990, pp. 166.

Sommario:
Savoia ed altri regnantiFuori EuropaBelle ÉpoqueArtistiIl Regno UnitoSindacati • Pubblicità • NavigazioniRistorantiAlbert Cougnet e l'Italia dall'Unità alla prima guerraGuerra e paceL'«osé» a tavolaContemporanei

Saggio di storiografia su il menu
del visconte Livio Cerini di Castegnate

Sono stato invitato a mettere a disposizione la mia raccolta di menu per l'allestimento di una mostra nella nobilissima città di Asti ed alla redazione del catalogo ragionato.

Confesso le mie prime emozioni negative dovute alla sindrome del collezionista. Una sorta di gelosia di natura intellettuale piuttosto indefinibile spinge il soggetto a tenere per sé e solo per sé, i suoi tesori. Stati d'animo che appartengono all'istituzione stessa del collezionismo, fenomeno remoto che affonda le sue radici nello splendore dell'Impero romano, che fiorì rigoglioso durante l'Umanesimo ed il Rinascimento e che diede, dal Settecento in poi, le più elevate prove della sua validità sociale e di sostegno alle arti figurative, alla ricerca e all'archeologia.

Nel caso che ci riguarda ahinoi, ci sentiamo addosso la definizione di collezionismo «minore». Classifica di per sé imbarazzante che vorrebbe mettere in un canto coloro che lo avrebbero fatto, ma non sono stati in grado di raccogliere ceramiche del '500 italiano, preziose porcellane del Settecento, avori e giade cinesi, tabacchiere appartenute a sovrani, gioielli antichi, liberty ed art-deco, uova di Fabérgé, codici, incunabili, palinsesti, argenterie inglesi, tavole primitive fondo oro e dipinti dagli impressionisti francesi...

La definizione non mi sta bene, non l'accetto e, proprio perché ho avuto esperienze di vita in mezzo a collezioni di pezzi rari ed importanti, considero la raccolta di documenti cartacei come il menu tutt'altro che minore ed anzi ricca di contenuti capaci di dispensare intime soddisfazioni a chi si è lasciato conquistare.

Per dare vigore a questa affermazione, ho messo da parte ogni dubbio e, preso dall'entusiasmo di far conoscere ed apprezzare il menu ad un sempre crescente numero di persone, mi sono prodigato nel preparare la mostra dei documenti che tutti possono vedere e, mi si consenta, ammirare.

Sarà anche una buona occasione per ricordare finalmente i primi collezionisti italiani che affidarono un pizzico di memorie della loro vita ai cartoncini di pranzi e cene messi via con cura.

Allestire una mostra di sì peculiare carta stampata non è poi tanto semplice, a partire da una prima difficoltà dovuta non alla carenza di materiale ma, al contrario, alla sua esuberanza.

L'esposizione deve essere contenuta nei suoi limiti e riservata ai pezzi più belli e significativi. Occorre fare una scelta che non è per nulla semplice perché, da una vera collezione, emergono con grande evidenza molti esemplari che dispiace davvero tanto non far conoscere.

Una mostra deve avere un suo carattere che il catalogo deve rispecchiare. Si imponeva quindi, per fare qualcosa di originale, di adottare un nuovo criterio. Crediamo di averlo trovato, tutti d'accordo, nello scegliere e mettere in maggiore evidenza i menu che «fanno pensare».

Che vuol dire? Significa scegliere quegli esemplari che con la loro muta presenza sono eloquentissimi e riescono a schiudere le porte del passato ed a far riflettere sul modo di vivere di un tempo in una certa società che può apparire assai differente dalla nostra.

Si preferiscono quei documenti che, per essersi inseriti in episodi fugaci e di cui si è persa la memoria, fanno venire in mente eventi più importanti che appartengono alla storia. Sono ancor più interessanti se ricordano particolari storici poco conosciuti.

È un tentativo nuovo questo della «Storiografia sul menu» di cui noi in questo catalogo sottoponiamo volentieri alla critica dei visitatori della mostra qualche saggio.

Nella scelta abbiamo seguito anche criteri estetici ed abbiamo messo in evidenza esemplari molto gradevoli alla vista per le loro qualità grafiche ed artistiche. Abbiamo citato nome e collocazione degli artisti che diedero il loro contributo, per lo più spontaneo e senza compenso, alla creazione dei migliori menu.

Il menu appartiene al genere della «Petite Estampe»; anzi il menu ne divenne, nella seconda metà dell'Ottocento, la più importante tra quelle che erano comparse sin dal 1600 e che comprendevano inviti, partecipazioni, programmi teatrali, di feste, di balli mascherati e carte da visita di artisti, scrittori, mercanti d'arte e di antichità.

Abbiamo sinora parlato delle storie e dei costumi del passato che intendiamo far rivivere con il menu. Si imporrebbe ora una breve storia del menu stesso. L'argomento è stato già trattato da altri e da me in diverse occasioni.

Io sono fermo nel confermare un certo rigoroso criterio che vuole che il menu, per'essere tale, debba essere stato fatto in diversi esemplari, meglio ancora se stampato, a disposizione dei commensali che, se vogliono, se lo portano via per ricordo.

Per trovare documenti che rispettano questa caratteristica si devono attendere i primi anni dell'Ottocento e l'apparire del servizio «alla russa» che sostituì quello «alla francese». La Rivoluzione aveva cancellato il «servizio alla francese» dove tutte le portate, disposte secondo un rituale, stavano sotto gli occhi dei convitati.

Agli inizi dell'800 la moda impose il servizio «alla russa» dove le portate erano presentate e servite via via da valletti in studiata e voluta successione.

Il compito di informare il convitato, fu affidato ad un cartoncino, il menu.

Si cita sovente il principe Alessandro Borosovic Kurakin, ambasciatore a Parigi dello zar Alessandro I, il primo, tra il 1810 ed il 1811, a dare grandi ricevimenti serviti «alla russa», ma non è scritto da nessuna parte se in quelle fastose occasioni siano apparsi i primi menu. Nessuno li ha mai visti. Vari autori attribuiscono ai ristoratori del Palais-Royal il merito di aver presentato ai clienti i primi menu, ma anche di ciò non vi è alcuna prova sicura.

Pierre Andrieu, giornalista competente e collezionista di menu che io ho sempre citato per i suoi studi ed i suoi scritti, affermò nel 1916 di non aver mai visto un menu antecedente al regno di Carlo X (1824-1830) e che sino al secondo impero con Napoleone III (1812-1870) continuarono ad essere molto rari.

Vi sono autori che tendono a far risalire il menu alla metà del Settecento. Se ne conosce uno del 21 Giugno 1711 dipinto da Brain da Sainte-Marie per Luigi XV ed altro dello stesso artista di una cena del Re al Castello di Choisy. Quest'ultimo è circolare come uno del 4 novembre 1717 per una cena della Pompadour. Esempi curiosi. Si tratta di pezzi rarissimi ed unici, dipinti a mano... sono solo menu «ante litteram».

Collezionisti ed intenditori considerano che i menu tra il 1840 ed il 1860 siano ancora estremamente rari. Ed è quindi con vera soddisfazione che se ne possono vedere esemplari bellissimi di quell'epoca provenienti da una collezione belga collocati come inizio di questa rassegna.

Tutto ciò che venne prima dell'800: ricordi di simposi romani e descrizioni delle portate, liste delle vivande presentate in sontuosi banchetti delle corti rinascimentali, elenchi redatti con meticolosità e cura dai grandi cuochi del passato, documenti di ogni genere che registrano cibi ammanniti in cene e servizi famosi, non può essere considerato «menu». Sono tuttavia documenti preziosissimi per la storia dell'alimentazione umana e del convivialismo.

Io debbo ora ringraziare chi mi ha invitato e mi ha permesso di spendere ancora tante parole su un argomento che mi sta molto a cuore. Terminerò con un augurio che insieme agli organizzatori voglio fare ai visitatori.

Noi ci lusinghiamo al pensiero che dopo la mostra e la lettura del catalogo, qualcuno sarà preso da un pizzico di frenesia di mettere insieme cartoncini litografici o stampati. Qualche superstite prezioso si trova ancora... Se poi non saranno proprio d'epoca o remoti, debolmente storici e scarsamente artistici, pazienza, un poco di storia e qualcosa di bello l'avranno pure e diverranno cari e preziosi un giorno per i figli, i figli dei figli e così via.

Sarà consolante se questa società, ormai già appartenente al Duemila, pragmatica, realista, razionale, computerizzata, si volterà indietro ogni tanto e sempre più di frequente alla ricerca di qualcosa che non c'è più e che gli manca.

Savoia ed altri regnanti

L'eco della marcia nuziale di Mendelssohn si era appena spento e non ardevano ancora d'Imeneo le faci, quando a molti invitati venne l'acquolina in bocca leggendo su di una piccola pergamena quello che stava per essere servito sulle regali tavole.

Cadeva il 14 aprile 1883. Nel Castello di Nymphenburg in Baviera, il principe reale di Savoia-Genova, Tommaso Alberto Vittorio, duca di Genova, era a fianco della giovane novella sposa, S.A.R. Isabella di Baviera. Mettendosi finalmente a sedere sulle poltrone di velluto azzurro, colore della Casa regnante, delicatamente spinte in avanti da valletti in alta tenuta con fregi, passamanerie dorate, parrucche e polpe, gli sposi avevano dato inizio al pranzo di gala delle loro nozze.

Parleremo di queste fauste nozze, dei doni, del viaggio in Italia, degli sposi, di chi c'era e, molto importante, di chi «non» c'era, ma prima conviene dare un'occhiata al menu [1], così come fecero allora i convitati, meno commossi dei principi e con un robusto appetito che si era venuto accrescendo durante la complicata cerimonia.

Si tratta di un cilindretto lungo tredici centimetri chiuso alle due estremità da due corone reali di metallo dorato girevoli e rivestito di seta blu e losanghe di blu più intenso, colori e simboli araldici della Casa Reale di Baviera. Attorno al cilindro a spirale, un nastro sottile a tre colori: il bianco, rosso e verde dei Savoia, quasi a significare l'amplesso dello sposo che avvolge la sposa.

Lungo la generatrice del cilindro, c'è una fessura dalla quale esce appena un lembo di pergamena fissato con un nastrino ad una asticciola in ebano, a sua volta collegata alle estremità con una cordicella ritorta a due colori ad un sigillo metallico dorato che ha in rilievo il leone rampante della Casa Reale di Baviera. Se si tira dolcemente il sigillo, si svolgerà una pergamena lunga ventun centimetri ed alta poco più di undici.

La pergamena è miniata tutt'attorno da simboli araldici; a sinistra la figura di un paggio cinquecentesco con il braccio destro regge due scudi delle Case regnanti e con il braccio sinistro indica le portate del menu. Basta far girare delicatamente le due corone in senso inverso e la pergamena si riavvolge.

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Le portate meritano riflessioni critiche non da nulla, ma prima parleremo delle nozze.

Il giorno prima, il 13 aprile, alle 14,30 per la precisione, giunge a Monaco il principe Amedeo di Savoia Aosta che porta ai fidanzati il dono dei sovrani d'Italia: un diadema di brillanti ed un braccialetto di brillanti e pietre preziose di colore. Il dono dello sposo alla sposa è una collana di perle orientali, le coltivate non c'erano ancora, di ben nove file.

Il Re di Baviera, Ludvig II, fa consegnare ai fidanzati dal ministro delle cerimonie il suo dono: una stupenda collana di diamanti e perle... moltissimi altri doni, dopo questi, non meritano menzione.

Alla legazione italiana, sempre alla vigilia, si serve un pranzo sontuoso. Alla sera una prima serenata ai fidanzati in piazza Wittelsbach, dove principi e principesse ed altri nobilissimi rampolli diedero alta prova delle loro capacità eseguendo i «quadri viventi», un gioco di corte come «le sciarade» e «le cacce», mimiche in costume che durante il Settecento e per tutto l'Ottocento ebbero grande successo.

La personalità dello sposo merita attenzione: il principe Tommaso nato il 6 febbraio 1854 aveva 29 anni; istruito da ragazzo in un collegio inglese aveva fatto una brillante carriera militare sul mare. Imbarcato giovanissimo sulla fregata Italia, passò alla «Garibaldi» e fece il giro del mondo; sulla fregata «Adelaide» imparò ad usare i cannoni e di nave in nave nel 1881 fu nominato capitano di vascello. Dieci anni di militare, sette passati in mare. La sposa Isabella viene descritta come amabile, allegra, semplicissima. Era figlia di Luigi Ferdinando e nipote del Re di Baviera Ludvig II.

E parliamo delle cerimonie: alle 16 precise del 14 aprile 1883 entrano solennemente nel Castello di Nymphemburg il fidanzato che dà il braccio alla madre Duchessa di Genova e la fidanzata che dà il braccio al padre principe Luigi Ferdinando; seguono il principe Alfonso con le principesse Adalberto e Maria de la Paz.

Si inizia con il rito civile e poi si passa alla cappella dove il rito religioso è celebrato dall'Arcivescovo di Monaco Frisinga.

Dopo il ricevimento solenne nella sala del Castello detta «Ercole», si andrà finalmente a tavola. Erano ormai passate da un pezzo le sette di sera, mentre allora si usava cenare molto prima. Quindi grande appetito generale.

La principessa tutta ingioiellata e sfavillante per i notevoli doni apre il corteo con lo sposo Tommaso e sono seguiti dal Re di Sassonia, dalla Duchessa di Genova, dal Duca d'Aosta e da tutti i principi di sangue reale... vengono poi dignitari ed alti funzionari tutti nobilissimi e pluridecorati.

È ben evidente che manca qualcuno e non di secondaria importanza, tuttavia tale assenza viene ignorata dalle cronache e dalla stampa. Come mai? Il grande assente è il Re di Baviera Ludvig II ed a noi non sfuggono le intime Sue ragioni. Il Re era in lutto stretto per la morte di qualcuno che era stato più di un amico, una folle passione, Riccardo Wagner spentosi due mesi prima il 13 febbraio a Venezia tra le braccia di Cosima.

Il feretro adagiato su una gondola funebre iniziò il suo viaggio verso Bayreuth ovunque accolto da plauso e commozione. Passò da Monaco attraverso una folla immensa che aveva dimenticato certi oscuri episodi della presenza a corte del grande musicista. Il Re non ebbe il coraggio di intervenire e di guardare il feretro di colui che era stato, si dice, il suo unico grande amore...

Storie ed acque passate così come era passata ogni malinconia quella sera dopo la grande cena che vide ancora una volta cittadini di ogni rango riempire la piazza Wittelsbach per una seconda «serenata» agli sposi e forse, non è ben chiaro, per assistere ad una replica dei «quadri viventi». Tra gli applausi e gli evviva i principi sul balcone del palazzo furono illuminati da un violento faro di luce elettrica, evento storico e sensazionale; e di certo strabuzzarono gli occhi.

Interrompiamo il racconto per parlare un poco delle portate della cena famosa che destano agli esperti qualche perplessità e inducono a riflessioni. La soggezione che il buon popolo bavarese ed i suoi regnanti provavano per la Francia, è evidente. In tutta Europa si verifica la medesima evenienza. Per essere «à la page» nelle corti e nelle case dei potenti, si doveva immaginare, pensare e scrivere di cucina secondo i dettami dei grandi cuochi di Francia.

Soggezione e imitazione non significano interpretazione esatta e felice, e meno che mai dare immagine impeccabile di alta cucina.

Veniamo al nostro pranzo di nozze: le ostriche vanno bene e siamo nell'ultimo mese valido che ha ancora la erre. Potage alla Lucullus (e non Luculles) non si sa cosa sia e va bene. Segue 1'Hors-d'œuvre che, dopo il potage non può che essere caldo. Ottimo il salmone del Reno, ma cotto come? E la sauce Bearnaise che ci sta a fare? È tipica per carni alla griglia e talvolta, raramente, per il pesce purché sia alla griglia.

Diamo il placet per le Atelettes, ma non possiamo darlo per il Relevé costituito da una selvaggina di pelo, poco parigina, con una salsa Cumberland, che è inglese e si usa solo con selvaggina fredda, se mai. E come Entré? Ancora selvaggina? E poi le beccacce in primavera non sono un gran che. Se mai si dovevano servire prima le beccacce e poi la Renna.

E si ritorna al pesce con l'aragosta: dopo due portate di selvaggina? E col vino che si fa? Si ripassa dal rosso al bianco? «Poulardes» ci va bene, arrosto d'accordo; ma dopo quelle portate pesanti andava meglio un grande arrosto di bue!

Cari bavaresi, reali di Monaco e chef, nonché maggiordomi relativi, un paio di mesi in trasferta a Parigi vi avrebbero fatto molto bene. Non è cattiveria e non vuol esser pura critica sterile; può far comprendere come mettere insieme un servizio perfetto, ieri come oggi, non è cosa da tutti.

Il «faro elettrico» non segnò la fine delle cerimonie, cene e festeggiamenti continuarono nei giorni seguenti e culminarono con una rappresentazione di gala al Teatro dell'Opera dove gli scintillii dei gioielli e le splendide toilettes superarono ogni previsione.

Il 17 aprile i reali parenti lasciarono Monaco diretti in Italia; il 19 gli sposi, acclamati alla stazione, partono per Lindau. Arrivano il 20 a Locarno per proseguire sul battello con ruote a pale, il «Verbano», sino a Stresa dove sbarcano alle 12,15 esatte del 21 aprile.

A Stresa, oltre ai festeggiamenti, li attendeva una villa che era stata del filosofo Rosmini e che la duchessa madre comperò, ingrandì e arredò con grande lusso.

Solo il clima non fece riverenza agli sposi e le sponde del Lago Maggiore il 25 aprile si imbiancarono di neve. Tanto valeva lasciare Stresa e ciò fecero gli sposi partendo in treno il 27 ed arrivando a Roma alle 16,45 precise del 28. I mazzi di fiori che li attendevano alla stazione tutta imbandierata erano 23, undici aspettavano nell'appartamento riservato loro al Quirinale.

Una Roma festante, le finestre dei palazzi addobbate di arazzi e luminarie, le vie risonanti di bande e fanfare italiche e bavaresi fecero ala agli sposi ovunque applauditi da gran folla. I tripudi culminarono con un torneo cavalleresco dove tutta la nobiltà, ufficiali e comandanti di corpi diedero il meglio di sé.

Grandi encomi furono riservati al giovane principe ereditario di soli quattordici anni, Vittorio Emanuele, caracollante a cavallo in costume rinascimentale.

Una nube offuscò il panorama, anzi molte nubi nere perché il tempo continuò a non collaborare e le piogge insistenti sulla capitale diedero filo da torcere ai funzionari del Quirinale ed ai maestri delle cerimonie... ai picchetti d'onore, ai carabinieri ed ai moltissimi poliziotti in borghese inzuppati, nessuno fece caso.

Vittorio Emanuele che abbiamo visto caracollante al torneo del 1883, crebbe e divenne Re nel 1900 dopo fatti drammatici; quasi mezzo secolo dopo, in altrettanta grave situazione, lasciò le sue spoglie mortali in terra straniera assieme ad un patrimonio ragguardevolissimo e, tra l'altro, il corpus nummorum italicorum, straordinaria raccolta di monete ed una collezione inimmaginabile e di inestimabile valore di pizzi antichi della regina madre Margherita, che, guarda caso, allo scrivente toccò in sorte di salvare .dalle furie fasciste nel 1944. Ma questa è un'altra storia e nel '44 si mangiava malissimo ed il menu era giù di moda.

L'agosto del 1900 fu molto caldo: la vita pubblica italiana si arrestò per il solenne impegno delle cerimonie funebri di Re Umberto, assassinato a Monza il 29 luglio.

Capitò persino che, proprio il fatale 13, un treno che riportava verso Nord l'arciduca Pietro di Russia e la consorte Militza, sorella della neo Regina Elena, reduci dai funerei riti, si scontrasse violentemente: 16 morti, 100 feriti, i neo regnanti accorsi ed i Granduchi illesi. Brutte nuove arrivavano dalla Cina dove a Pechino, per rigurgiti xenofobi dei Boxers, le legazioni europee erano assediate.

Abbiamo un menu del 22 agosto che, nelle sale del Quirinale, ancora in lutto strettissimo, celebra il primo ricevimento ufficiale dopo la morte di Re Umberto. L'ospite d'onore era il generalissimo Feldmaresciallo conte Vandersee... ed occorre fare un passo indietro.

Il 18 giugno di quel fatidico 1900, il barone von Kethler, ministro plenipotenziario di Germania in Cina, venne fatto secco in pieno giorno in una strada di Pechino. Gli europei assediati nelle loro legazioni e minacciati di morte, era duopo che dessero una bella regolata ai ribelli cinesi.

Un corpo di spedizione era già in azione, ma il bellicoso Kaiser Guglielmo, ben noto per le sue pretese egemoniche pangermanistiche e per le gaffes diplomatiche, volle prendere il pallino in mano e brigò per mettere insieme un nuovo corpo internazionale e pretese che il comandante in capo fosse tedesco.

Secondo un felice discorso alle truppe, i tedeschi dovevano ripetere le gesta di Attila a imperitura memoria del tallone tedesco in Cina. Von Bulow fece il possibile per tenere nascosto il discorso, ma tutta Europa lo venne a conoscere ed allibì.

Il capo, nominato a dispetto di inglesi e russi, era il conte Vandersee che, ben rifocillato la sera del 22 agosto al Quirinale, secondo il piccolo menu consono alla corte in lutto, il 23 se ne andò a Napoli accompagnato dai reali, che si sistemarono nella reggia di Capodimonte, ed il 24 Si imbarcò per la Cina. Con lui era uno sparuto manipolo di ufficiali italiani che andavano a raggiungere i bersaglieri di stanza a Tien-Tsin.

La missione si rivelò inutile perché il Vandersee e le sue truppe arrivarono a Pechino il 27 settembre quando già da qualche tempo la piazza era tenuta saldamente dalle unità europee alleate e le legazioni erano libere di scambiarsi convenevoli, tè danzanti, cenette e convegni amorosi. I tedeschi non riuscirono, per questa volta, ad imitare Attila. E con vera soddisfazione ringraziamo un cartoncino che ce lo ha fatto ricordare.

Durante quel fortunoso 1900, brillò nel cielo d'Italia una stella, una sola, che celebrava un'ardimentosa ed avventurosa impresa: la «Stella Polare». Ne era al comando il Duca degli Abruzzi che solo al ritorno, entrando il 31 agosto 1900 nel porto norvegese di Hammerfest, apprese la ferale notizia del regicidio di Monza.

Abbiamo un cartoncino arrivato da chissà dove, un pezzo che con un suo gemello, dove c'è solo una differenza di disegno, ricorda quella spedizione polare. La Stella Polare che si vede disegnata con precisione in alto a sinistra, nave in legno, 1289 tonnellate di stazza con motore da 350 hp costruita in Norvegia nel 1883, era stata acquistata dal duca Luigi di Savoia per la spedizione polare. Il 4 agosto 1899 era arrivata a Nord del Capo Fligely che è l'estrema parte settentrionale dell'isola Rodolfo dell'arcipelago di Francesco Giuseppe, sino alla latitudine 82° e 4'.

Si virò di bordo e la nave, ritornata un poco a Sud per trovare il posto migliore per svernare, si ancorò nella baia di Tepliz a 81° e 17'. Ivi venne letteralmente sbalzata in alto dai ghiacci e l'8 settembre subì gravi danni con lo sfondamento della fiancata di babordo.

Il Duca Luigi degli Abruzzi, amputato di due dita della mano sinistra per congelamento, dopo un penosissimo inverno, aveva mandato i primi esploratori verso il Nord e di qualcuno non si seppe più nulla.

Il piccolo gruppo di Umberto Cagni, dopo alcune ricognizioni, era partito con cani e slitte verso il Polo l'11 marzo 1900; il 25 aprile raggiunse la posizione 86° e 34' superando tutti i limiti verso il Polo dei precedenti esploratori e del famoso Nansen.

Il cartoncino [2] elenca con evidente ironia «Due pollastri all' 85° e 16'». Tale latitudine è tra il punto dove era ferma per avaria la «Stella Polare» ed il limite massimo raggiunto a Nord. Fu disegnato all'andata tra l'11 marzo ed il 25 aprile 1900 o al ritorno? Più probabile la prima ipotesi, perché il ritorno, estremamente drammatico, non poteva aver lasciato il tempo di disegnare a china e la voglia di far dell'ironia.

Chi lo schizzò nella tenda dove gli esploratori passavano le poche ore di riposo? Nessuno riuscirà mai a saperlo ed il cartoncino, documento estremamente raro, si terrà il suo segreto per sempre.

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I reali si sposavano e morivano come tutti i comuni mortali: le cronache mondane che in quelle occasioni traboccavano di notizie, erano assai meno chiaccherone quando re e regine si mettevano in viaggio per diletto e sovente al servizio della nazione come supremi rappresentanti dello Stato all'estero.

L'intera faccenda era ben più complessa e complicata di oggi, già di per sé per la naturale lentezza di allora dei mezzi con cui dovevano attraversare vasti territori, ma soprattutto per il cerimoniale vincolante e rigoroso che doveva essere rispettato anche fuori dai palazzi.

I reali durante i viaggi dovevano pur mangiare, ma la nostra curiosità di conoscere i menu del vagone-ristorante-salone dei treni reali o del quadrato o «salle à manger» degli imponenti yacht, rischia di non essere accontentata. I documenti sono estremamente rari, mentre si trovano facilmente, si fa per dire, i menu dei pranzi di ricevimento solenni offerti ai sovrani ospiti nelle capitali straniere ed ai democratici presidenti.

Qualcuno lo si può vedere.

Vittorio Emanuele III e la regina Elena di Montenegro, si recarono per ragioni di Stato a Londra nel novembre del 1903, invitati dai reali inglesi Edoardo VII, detto lo zio d'Europa, e della regina Alessandra. Occorre fare un passo indietro anche stavolta.

Nell'aprile del 1903, Edoardo VII in visita ufficiale a Malta, festeggiamenti a parte, non si era, nel suo intimo, trovato bene perché il Governatore Generale Mansfield Clark, di recente nomina, si era portato un cuoco da Parigi definito «impostore» e ne era risultata una pessima cucina.

Era ovvio che desiderasse l'Italia e se ne venne quindi via da Malta il 21 aprile a bordo dello yacht reale «Victoria & Albert» che avrà un importante ruolo nella nostra storia. Il Re Edoardo faceva rotta verso l'Italia con il seguito di otto corazzate, quattro incrociatori e quattro cacciatorpediniere. Niente male per una visita «privata». Breve sosta notturna a Siracusa con l'Etna che brontolava ed il 23 aprile lo yacht reale gettava l'ancora nel porto di Napoli festeggiato da ripetute salve di cannone.

Erano passati settecento anni da quando un altro sovrano inglese aveva posato il suo nobile piede a Napoli. Primo era stato Riccardo Cuor di Leone di passaggio mentre andava alle Crociate agli inizi del 1191, secondo Edoardo VII nel 1903.

Per caso a Napoli c'era la regina Amelia del Portogallo e, sullo yacht di papà in porto, il Krönprinz erede dell'impero di Germania. Una bella combinazione che necessariamente vide festeggiamenti incredibili.

Si racconta ancora di un «galà» al San Carlo e degli entusiasmi del sovrano inglese per i decolltées esuberanti ed ingioiellati delle belle donne dell'aristocrazia napoletana. Lord Rosebery offerse una cena neroniana nella sua villa di Posillipo... il menu non si è trovato.

È stato invece trovato un singolare documento [3] che si inserisce degnamente in questa lontana storia di Altezze Reali.

I reali inglesi provenienti da Napoli arrivarono in treno a Roma nella mattinata del 27 aprile 1903 e da quell'istante furono presi dal vortice delle cerimonie senza un attimo di respiro per tutto il 27, il 28, il 29 ed il 30... Nell'interno del documento c'è tutto l'immaginabile ed il possibile dei festeggiamenti.

Alla stazione c'era Vittorio Emanuele III ad aspettarli con tutti i dignitari e la nobiltà romana. La via Nazionale era fiancheggiata da pennoni che sostenevano galee veneziane ed aquile romane... Al ricevimento al Quirinale Edoardo pronunciò un discorso improvvisato al di fuori del protocollo e ciò stupì tutta la stampa europea.

In Piazza d'Armi sfilarono davanti al Re d'Inghilterra ben ventimila uomini: due divisioni di fanteria e una di cavalleria. Anche Vittorio Emanuele diede prova di maestria prendendo parte ad una finta carica a cavallo...

Il 28 pomeriggio Edoardo passando in carrozza con il Re d'Italia, fece arrestare l'equipaggio davanti a Porta Pia, scese e si tolse il cappello... Che dire di più?

Quindi il viaggio dei reali d'Italia del novembre a Londra ebbe le sue alte motivazioni: l'Inghilterra voleva contraccambiare le cortesie.

Ci renderemo conto da alcuni menu di quali furono le accoglienze che ebbero sul mare ed in terra. Da Roma sino alla Manica e, in teoria, sino a Londra, la coppia reale viaggiò in treno. Non sapremo mai come si sia sfamata in quello sferragliante andare di almeno due giorni; sappiamo però i nomi di alcuni che si prodigarono a preparare loro manicaretti delicati, adatti a stomaci messi a disagio dal travaglio ferroviario che l'umanità non aveva ancora imparato a sopportare. Lo sappiamo in virtù di un curioso documento che saltò fuori un bel giorno da un archivio privato, senza data, ma collocabile per certo in uno dei giorni che precedettero la partenza per il famoso viaggio del novembre 1903.

Merita che venga osservato con curiosità là dove si parla di Uffici di bocca e degli ispettori degli stessi Uffici e della «brigata» di ben sette addetti, oltre si intende ai funzionari ai servizi sui treni del Regno e ad uno chef ufficiale e titolare di «bocca» delle ferrovie. Arrivato il treno a Cherburg in una stazione imbandierata, con picchetti d'onore, riverenze speciali e discorsi, la coppia reale sale il 16 novembre sul H.M. Yacht Victoria & Albert, costruito per la Regina Vittoria ed il suo regale principe consorte, ereditato dall'Edoardo che per diventare Re aveva dovuto attendere parecchio, sino all'età di sessanta anni.

Dalla passeggiata della nave, attendendo Vittorio ed Elena, avrà guardato con nostalgia la terra di Francia che, da Principe di Galles, l'ospitava sovente nei ristoranti di Parigi come il famoso Paillard e nei «Cabinets Particuliers» allietati da fanciulle in carne e ben disposte. Potrebbe essere una fantasia, perché ci vengono meno le prove scritte della sua presenza sullo yacht Reale: probabilmente c'era.

Abbiamo il menu del Victoria & Albert della cena del 16 Novembre dove, con un tocco di gentilezza, salta fuori un «Filet de boeuf à la napolitaine» che non sappiamo immaginare cosa fosse. Si è conservato anche il menu del pranzo del giorno dopo, arrivati ormai in acque inglesi, a Portsmouth dove figurano i «Macaroni à l'italienne» e Dio solo sa come erano stati interpretati dal cuoco di bordo!

Vittorio Emanuele III era frugale, ma a 34 anni avrà avuto pur appetito con l'arietta di mare, ammesso che, data la stagione, il mare nordico fosse stato gentile con i sovrani. Avrà mangiato di certo i «macaroni» stracotti. Graditissimi comunque perché un re non può rifiutare nulla da un altro re.

Gli stomaci reali dovevano essere messi a dura prova perché, risalita la coppia sul treno italiano, che nel frattempo aveva attraversato la Manica in «ferribotte», si ritrovano a Londra per essere ospiti nel Castello di Windsor la sera del 18 dove il menu si apre con il «Consommé Victor Emmanuel III».

Ma gli stomaci reali non avevano finito perché il dì appresso, il 19 novembre, si celebra il ricevimento alla Corporation of the City of London dove Sir James Thomson Ritche, Lord Mayor, riceve gli ospiti illustri e si prodiga negli immancabili toasts che impareremo bene a conoscere quando ci interesseremo di menu inglesi. Anche questo è sotto ai nostri occhi assieme ad altri tre, un complesso che, per davvero, non è facile trovare tutti i giorni.

Si può supporre che, alla sera del 18 novembre 1903, Vittorio Emanuele nell'appartamento del Castello di Windsor a lui riservato, togliendosi le scarpe avrà confessato ad Elena di desiderare Roma ed il tranquillo Quirinale molto più di suo nonno, il Re Galantuomo, in attesa della breccia di Porta Pia.

Ricordiamolo questo grande nonno che fu chiamato Padre della Patria e Re Galantuomo. Tutti gli anni, all'Epifania, si dava un ricevimento a corte al Corpo Diplomatico accreditato al Quirinale. Abbiamo il menu del 6 gennaio 1878 con tanto di banda musicale, ma Vittorio Emanuele II non vi partecipò e delegò il figlio Umberto a rappresentarlo.

Il Re, che durante le feste natalizie a Torino aveva passato due giorni a caccia in un clima rigidissimo, non stava bene. Aveva già rinunciato ad un rapido ritorno a Torino per andare a trovare nella villa di Mandria la contessa di Mirafiori, più nota come «Bela Rosin», anche lei molto ammalata.

Tuttavia il 4 gennaio aveva ricevuto in udienza privata il francese Leon Gambetta considerato eroe nazionale di Francia dopo la sconfitta di Sedan. Si era parlato della questione orientale.

Alla sera il Re era andato al teatro Apollo, dove si dava un balletto, per «lustrarsi la vista» con le gambe delle ballerine che al vecchio intenditore facevano sempre un gran piacere. Alla notte non dormì o quasi e fu sentito passeggiare a lungo nella sua stanza da un fedele servitore.

In quei giorni era anche afflitto per la notizia arrivata da Firenze della morte del generale Alfonso Lamarmora, e si era occupato con il ministro De Pretis di firmare in bianco i documenti relativi al regolamento dei funerali di Pio IX di cui la morte si attendeva da un giorno all'altro.

La questione romana ed i rapporti col papato erano un brutto e spinoso argomento. Una capricciosa nemesi volle che il Re Galantuomo morisse il 9 gennaio, mentre il vecchio Papa reazionario, e per carità cristiana non usiamo altri epiteti, sarebbe morto quasi un mese dopo, il 7 febbraio.

Non stiamo a descrivere gli ultimi momenti e le ultime parole del sovrano ed il cordoglio di tutti i presenti e De Pretis steso sul pavimento in grandi lacrime.

Vogliamo rammentare appena che il «santo» padre fece di tutto per impedire che a Vittorio Emanuele fossero dati i Sacramenti ed i conforti della fede. Un cappellano militare rintracciato con gran fatica che finalmente fece il suo sacrosanto dovere ebbe le sue grosse grane dalla Curia romana. L'odio del Vicario di Cristo in terra, Mastai Ferretti, per il Savoia, usurpatore, adultero, vizioso, era feroce.

La Casa dei Savoia ha lasciato un buon numero di testimonianze di convivialismo cerimoniale e dei gusti di tre sovrani a tavola, nonché della scelta dei vini... e sommessamente osserviamo che, con tutto quel ben di Dio che era a loro disposizione, con la nobilissima bevanda non hanno avuto troppa fantasia.

Ogni cartoncino avrebbe la sua storia piccola o grande con contorno di chiacchiere e commenti, ma ci sembra di aver già tirato in ballo un mucchio di cose che per la «storiografia» possono bastare.

Un serio accenno merita il menu del panfilo reale «Trinacria» che ebbe occasione di ospitare a Gaeta il 19 aprile 1908 Edoardo II diventato ormai di casa in Italia dopo sette secoli di assenza di reali inglesi. La Triplice Alleanza non gli andava giù. Vittorio Emanuele, che ricordava con dispetto un incontro infelice con il Kaiser sullo yacht «Hohenzollern» nel 1903, fu entusiasta del Sovrano inglese ed attorno ad un superbo «roast-beaf» furono pronunciati molti brindisi. Il ministro degli Esteri italiano Tittoni ebbe modo di formulare molti giudizi favorevoli su future intese con il Regno Unito.

Gli altri regnanti, che prima della guerra 1914-1918 pullulavano in Europa, meritano un ricordo, non facile a rievocare perché i loro menu non sono proprio comuni e di qualche Casa non si trovano affatto. Il loro «entourage» è più generoso come dimostrano i remoti documenti belgi di cui si è parlato e che, tutti assieme, sono un contorno alla Casa regnante di quel Paese.

Vediamo quelli della corte degli Zar, qualcuno del Kaiser a tavola alla reggia di Postdam, uno fra i menu della reggia di Atene che ricorda il ricevimento dei reali d'Italia, e poi Montecarlo, Vienna, Madrid... ed un pezzo rarissimo: l'invito del 1886 alla corte del Mikado, documento «unico» che chiude degnamente la rassegna.

Fuori d'Europa

La fuga di Maometto dalla Mecca avvenne nel 622 anno del Signore, il 16 luglio per la precisione, ed iniziò l'Egira (Higra). Il calendario mussulmano inizia in quel fatidico giorno e ne vien fuori una discrepanza incolmabile con il calendario gregoriano. Altri «fattori» complicano le cose: gli arabi hanno i «basita» anni corti e «Sana Kabis» anni abbondanti ed il loro anno può durare dieci, undici, dodici giorni meno del gregoriano.

Chi volesse cavarsela si procuri il wustenfeld libro stampato a Lipsia nel 1854 con tabelle per fare calcoli precisi sino al 2077. Saremo a posto, ma il libro non si trova ed allora ci si arrangia così:

Anno Gregoriano     = Anno Mussulmano + 622 +Anno Mussulmano / 33
Anno Mussulmano = Anno Gregoriano     – 622 – Anno Gregoriano   / 32

È chiarissimo.

Tutto ciò è motivato da un menu piccolissimo che ha le due datazioni 26 Djemazi-ul-ewel 1283 - 6 Septembre 1 866. I collezionisti che sanno cosa vuol dire trovare un menu di quella data in Europa, possono immaginare la rarità di questo.

Non sappiamo dove sia stata celebrata la cena perché la mezzaluna da sola non ci dice troppo. Può essere avvenuta in Medio Oriente o in Nord Africa. Si dovrebbe escludere l'Egitto perché il menu non corrisponde alla denominazione egiziana dei mesi. La presenza predominante della lingua e delle portate francesi può far pensare ad una colonia del Nord Africa, ma nulla può avvalorare l'ipotesi. Di certo fu un servizio importante presso un sultano, un vizir o un ricchissimo sceicco.

Un'ultima ipotesi potrebbe far pensare a un potentato dell'Arabia Saudita dove era presente la mezzaluna da sola senza la stella. Esperti interpellati non hanno detto un gran che. Se qualcuno avesse qualche idea lo ascolteremo.

È scritto a mano, in oro, talmente preciso da sembrare stampato. La presenza del montone, del mussaka e del pilaw, provano l'influenza araba, ma nulla di più. Manca il vino il che è la conferma di un Paese astemio per obblighi religiosi. Il punch à la romaine non è necessariamente alcolico.

Anche questo cartoncino serberà per sempre il suo mistero. Andiamo verso Sud attraverso il Mar Rosso e arriviamo al Corno d'Africa.

Ricordi di scuola ed i racconti di papà e dei nonni, fanno pensare a fatti ed eventi di cui non si parla e non si scrive proprio più: perché non interessa a nessuno, per timore di cadere nella retorica e, peggio che mai, in quella fascista. Insomma le guerre coloniali del nostro Paese sono un «tabù». Lo esorcizziamo con due cartoncini di piccole dimensioni, identici per le portate del menu, differenti per le vignette; uno è intestato a stampa «Il Commissario Regionale dell'Hamasén». Sono scritti in amarico allora lingua ufficiale dello Scioà con capitale Haddish Abébé. Ma si faccia attenzione al testo: va letto ed interpretato in Tigrino, lingua dell'altipiano eritreo e quindi della regione dell'Hamasén, capoluogo l'Asmara.

I caratteri della scrittura, e sarebbero ben 256 lettere dell'alfabeto, sono comuni all'Amarico ed al Tigrino. La scrittura sopra il fregio si pronuncia: le addarasc ghibir e si traduce «Pranzo nel grande salone» Seguono le portate:

Brindo Carne cruda
Tuccus Zighini Spezzatino piccante
Siksiko Misto di verdure con Berbéré
Tips Carne in padella con Berbéré
Areché Nategg Anice e Idromele

Il Berbéré, per chi non lo sapesse, è un peperoncino polverizzato assai più piccante dei nostri.

In fondo si legge: Adsmara be asrammust ter scisommun metò zetenà siddist Asmara 15 Gennaio milleottocentonovantasei.

I traduttori, coloni scampati per miracolo nel 1942, Si accorsero dalla data che lo scriba era etiopico. In Tigrino la data sarebbe stata scritta in modo differente. Certamente l'etiope fu anche autore delle vignette.

La prima mostra le donne che portano le vivande ben protette da un cono di giunco, ed una entra nel «tucul»; nella seconda i dignitari seduti mangiano, mentre i funzionari non di rango in piedi mangiano coprendosi la bocca per rispetto.

Il valore dei due cartoncini che si possono definire «pezzi unici», sta nella data: la cena avvenne un mese dopo la battaglia dell'Amba Alagi ed un mese e mezzo prima della disfatta di Adua del 1° marzo 1896.

Tanti passi indietro dobbiamo fare per ricordare il missionario ligure Giuseppe Sapeto che sin dal 1838 aveva soggiornato in Abissinia e sin dal 1850 aveva cercato di battezzare la baia di Akik col nome di Carlo Alberto. Per merito suo la prima bandiera europea a sventolare lungo la costa dell'Africa Orientale fu quella del piccolo stato di Piemonte e Sardegna. Per certo nel 1859 Cavour nominò un console sardo ad Akik. Non è retorica se raccontiamo che fu Sapeto a combinare l'acquisto della baia di Assab nel 1870 da parte della Compagnia di Navigazione Rubattino dietro la quale si nascondevano le mire dell'Italia sull'Eritrea.

Già nel 1872 Menelik, allora Ras, e che sarebbe diventato Negus Neghesti, Re dei Re, scriveva a Vittorio Emanuele II offrendo amicizia e chiedendo apertura di rapporti commerciali e nello stesso anno Monsignor Massari in missione apostolica annunciava al Re d'Italia l'arrivo di una delegazione abissina.

Ricordare il nome di italiani vissuti in quelle terre ostili e tra popolazione crudeli e diffidenti, è sin troppo facile: Bianchi, Gessi, Cecchi e Giulietti nobilissimi esploratori; ed il marchese Orazio Antinori, che, per incarico della Società geografica, si portò con sé in Abissinia studiosi, ingegneri ed esperti ed ivi morì nel 1880.

Chi ricorda il grande Bottego che diede nome al fiume Omo da lui scoperto ed esplorato? Morì nel 1897 trucidato da guerrieri Galla.

Dopo il funesto episodio di Dogali del 16 gennaio 1887 che vide 500 italiani morti e nessun superstite perché i feriti venivano evirati ed uccisi dai guerrieri abissini, dopo le gloriose vicende del forte di Macallé, dopo la battaglia dell'Amba Alagi del 7 dicembre del 1895 che fu definita un massacro e dove trovò la morte l'eroico maggiore Toselli, la sconfitta di Adua incalza con la sua funesta realtà.

Oggi non se ne parla più, mentre allora, per molti anni, furono versati fiumi d'inchiostro. Emersero le terribili responsabilità dei «politici» di Roma, le manchevolezze della diplomazia e dei servizi segreti, le ridicole miserie della finanza di Stato, la mancanza delle sussistenze e dell'armamento di fronte ad un nemico agguerrito e armato da francesi e tedeschi. Fu evidente l'incapacità dei generali e degli Stati Maggiori che mandarono i soldati al massacro tra equivoci di luoghi e di orari: non si disponeva neppure di mappe del territorio dove si sarebbe combattuto. Per noi basta un freddo dato statistico della sconfitta: morti 6600 di cui 5000 italiani, due generali e 166 ufficiali, feriti 500, prigionieri 1700.

Un centinaio di chilometri a Sud dell'Asmara vi è un località sopraelevata chiamata Adi Ugri. Ancora più a Sud, il campo di battaglia di Adua. La vigilia, il 29 febbraio, il '96 era bisestile, ci fu un presagio, interpretato come di buon auspicio: una eclisse di luna. Ad Adi Ugri tutti pensavano ad una vittoria certa all'indomani.

La sera del 1° marzo Adi Ugri doveva invece divenire il rifugio di molti feriti e sbandati dopo la sconfitta. Vi arrivarono grazie alle coperture del V battaglione indigeni comandato dal generale Ameglio. Ed ecco Adi Ugri in un acquerello di un menu del 13 aprile del 1901 [4] cinque anni dopo la sconfitta. Vi era di stanza il I battaglione indigeno. Si vede il campeggio illuminato dai fuochi del bivacco e la pianura azzurra nella notte.

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L'Ascaro sulla sinistra è bellissimo. Ascaro è un nome comune, meglio Ascarì usato dai turchi un tempo in Egitto per indicare soldati di razza araba. Fu poi usato in modo esteso per indicare il primo grado inferiore della gerarchia militare nelle truppe regolari indigene delle colonie italiane. Possiamo ora chiudere il libro della storia della Colonia Eritrea e rimettervi il sigillo del «tabù».

Le considerazioni sulla rarità del menu d'Oriente del 1866 scritto in oro valgono per quattro documenti, questa volta disegnati, dipinti e scritti a mano in Estremo Oriente. Due sono senza data, gli altri sono del luglio 1891 e gennaio 1894. Uno è dedicato sul rovescio all'ammiraglio Francesco Ernesto Fournier, francese, combattente nella guerra franco-prussiana del 1870.

Nel 1884 trattò l'accordo di pace di Tien-Tsin. All'epoca dei menu comandava la flotta navale dell'Estremo Oriente. Sfioriamo ancora quegli eventi di cui si ebbe notizia per il passaggio a Roma del generalissimo tedesco Vandersee.

I menu del Sud Africa sono numerosissimi e pieni di ricordi. Alla vista dicono poco perché sembrano essere usciti da una tipografia londinese e, come tali, sono seri e compassati. Con due menu di Hanoi del 1901 e 1903 per l'«Esposizione» molto belli e significativi, lasciamo l'Oriente e torniamo in Europa.

Belle Époque

«... dans un buisson de laurier sous le sulle des amours mutins... les deux Goncourt se dressent, l'un déjà figé dans le froid du marbre. Edmond accoudé à la stèle et songeant que bient6t va aller rejoindre celui qui fut son guide, son maître et sa lumière...» (Leon Maillard 1898).

I fratelli Goncourt vissero uniti e legati ad una sorte non sempre favorevole in seno ad una società che non li aveva capiti. Jules era morto a soli quarant'anni il 20 giugno del 1870. Edmond sarebbe morto nel luglio del 1896 poco più di un anno dopo il banchetto ricordato dal menu [5] che si può «ammirare», è la parola esatta.

Ai piedi della stele vi sono tre donne: la ragazza dai seni nudi e l'abbigliamento equivoco è una delle povere «filles de joie» che Jules teneramente descrive ne «La fille Elisa», in «Germinie Lacerteux» ed in «Renée Mauperin»; la giapponesina vuol significare i suoi studi su Utamaro Hokusai e l'arte dell'Estremo Oriente; la terza è una «divina marchesa», una Pompadour riconquistata dall'oblio, che celebra le sue aspirazioni di far rivivere le figure femminili del '700.

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Una adorabile missione quella dei fratelli che lasciarono il loro nome alla riconoscenza di tutti i ferventi dell'arte francese e non solo in quella.

Non ci è consentito di soffermarci a parlare più a lungo dell'arte e delle opere dei due fratelli, perché andremo troppo lontano, mentre siamo ben soddisfatti di essere entrati di diritto nella Belle Époque, lontana solo cento anni e che può apparire remotissima a chi non la conosce bene. E farla conoscere non è facile. Nessuno ha scritto una storia unitaria di quell'epoca che non ha una precisa data d'inizio e neppure quella della fine che per noi potrebbe essere il 1914 per la testimonianza di un curioso menu.

Molti si sono soffermati sui vari aspetti del costume, del pensiero, della letteratura, dell'arte, del teatro, della musica, delle danze e della vita di tutti i giorni. Noi diremo la nostra tentando di far rinascere la Belle Époque a tavola servendoci dei suoi menu che sono i più belli che si siano potuti mai immaginare, a partire da quello dei fratelli Goncourt del 1° marzo 1895 che è veramente d'eccezione.

Forse è qualcosa di più di un documento storico ed è unico per la sua rilevanza artistica, letteraria e di costume. Per lo squisito richiamo a tutte le opere di Jules Goncourt non trova l'eguale e neppure nulla di paragonabile sia pure nel vastissimo panorama delle «petites estampes» della Belle Époque in seno alle quali assume particolare importanza il menu.

Il merito spetta a Adolphe Willette (185 7-1926) emblematico personaggio ed artista proprio di quell'epoca di cui fu attore esemplare con le sue caricature fustigatrici dei costumi. Lo incontreremo ancora assieme ad altri artisti che prestarono la loro opera per creare i menu più prestigiosi.

Willette dichiarò allora il doloroso rimpianto di non aver avuto la fortuna di conoscere di persona il grande scrittore ed artista. Lo concepì quindi in immagine accanto al fratello in una creazione d'arte rilevante già per dimensioni: il foglio è di centimetri 32 per 50. L'assenza dei colori, che allora piacevano molto, è un'altra caratteristica del disegno in grigio e nero con leggero tratteggio di bianco sul fondo neutro, forma di riverente rispetto per Jules raffigurato nella stele funeraria e per il fratello che attende di raggiungerlo presto.

Parlare ora del contenuto conviviale del menu, delle sue portate e del vino, è tutt'altro che irriverente perché è proprio dello stile di quell'epoca il celebrare tutti assieme attorno ad un tavolo riccamente servito fatti ed eventi importanti che possono divenire occasione di pensose riflessioni.

Il menu è straordinario anche per le sue portate e per il loro susseguirsi incalzante secondo le buone regole dettate dai maestri di cucina: Carème, Dubois, Goufflé, Escoffier, Garlin e tanti altri.

Dal «Potage» al «Dessert», è un trionfo di arte culinaria, una scelta ineccepibile nel più puro e squisito convivialismo. Alla fine c'è una sorpresa: l'unico vino servito fu «Champagne en carafes frappées».

Un particolare del tutto straordinario e che ben raramente si può ritrovare nei menu dell'epoca. L'insuperabile disegno di Willette è riprodotto a tutta pagina nel libro di Leon Maillard «Menu et programmes illustrés» stampato a Parigi nel 1898 dalla Librairie Artistique G. Boudet che ci incanta subito perché la copertina della brochure è opera di Alphonse Mucha che con la sua grafica tutta particolare disse l'ultima parola del vero «liberty» [6].

Maillard che dedica molte pagine a Willette, concepì un'opera, rimasta unica, esauriente e completa, che illustra il menu con competenza e dignità. E sono passati quasi cento anni. Maillard è una guida sicura per conoscere e capire il fenomeno che fu la causa dello straordinario diffondersi del menu nell'ultimo trentennio dell'800.

L'intensa prodigalità, che accompagna lo sviluppo improvviso delle Associazioni Amichevoli in Francia, è la causa prima del diffondersi del fatidico cartoncino che potrà raggiungere qualità artistiche di primissimo ordine.

Alla fine dell'800 nella sola Parigi, si contavano molte centinaia di Associazioni e tutte avevano il loro «Diner» ed un Diner degno di rispetto doveva avere il proprio menu con l'occhio attento al contenuto gastronomico ed un altro all'aspetto che doveva essere originale ed attraente. Se era stato concepito ed eseguito da un maestro di vaglia, da un artista noto e mondano, i soci «gongolavano» per l'onore di appartenere a sì nobile sodalizio.

Il discorso può allargarsi all'infinito: proprio tante sarebbero le cose interessanti da rammentare e da descrivere.

Il Maillard decrisse il fenomeno dei menu per ben duecento pagine limitandosi alla sola Francia degli anni che vanno da Luigi Filippo alla fine del secolo. Molte sono le riproduzioni nel testo, a tutta pagina ed anche a colori e, per la verità, stampate in modo esemplare.

Le «Associazioni» trainanti del fenomeno furono, come detto, moltissime e tra queste un buon numero veramente valide durarono per molti anni riunendo attorno a sé personaggi della politica, delle finanze, del bel mondo, letterati ed artisti famosi.

Possiamo arrischiare un breve saggio, un nulla, un estratto tra i tanti nomi di associazioni che abbiamo trovato qua e là e di cui abbiamo letto su menu: Bceuf-Nature, Arche de Noè, le Pluvier, Les vilains, Bonshommes, Parnasse, Diner Déntu, Diner de Six-francs, La Macédonie, La Chasse illustrée, La Soupe et le Bceuf, La Cigale, La Canigou, Radis Noir, Avant-Garde, Alouette, Trute-Marmite, Bibliophiles contemporains, Les Amis des Livres, Les Acquafortists, Le Diner de la Modestie, Le Dîner Molière, Le Dîner Celtique, Le Dîner de Garouche, Le Dîner de Tètes de bois, Evohè, Pris de Rhum, Le Dîner de Poitou, Le Sartan, Cercl de la Critique, Dîner de l'Hyppopotame, ed infine ricordiamo La Marmitte, La Plume, le Cornet; altre ancora ne incontreremo guardando i menu esposti.

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Il Bon Bock, associazione straordinaria che durerà per molti anni, fondata nel 1875 allo scopo di riunire gli amici delle arti, delle lettere, del teatro, ed amici intimi degli stessi, merita un accenno particolare. I personaggi si riunivano il primo martedì di ogni mese e anticipavano le motivazioni dell'incontro e la presenza di ospiti di riguardo con un invito che è rimasto realmente «unico» del suo genere e sovente veniva ripetuto per inserirvi il menu.

Tutti gli artisti, e si contano a decine e decine, andavano a gara ad illustrare quell'invito e ne consegue una straordinaria testimonianza di vita e di socialità che, ripetiamo, non ha l'eguale in Francia e in tutto il mondo.

Nel libro del Maillard sono riprodotti molti inviti e menu del Bon-Bock. Noi ne mostriamo qualche esempio preso da una collezione di centinaia di pezzi. E vediamo a piena pagina quello del 199° Dîner del 1914. La Belle Époque non ce la teniamo tutta per noi: mettiamo in vista quanto più possibile entro la tirannia dello spazio concesso.

Il menu del Congresso Internazionale degli Architetti del 21 giugno 1889, ci è sembrato degno di essere qui riprodotto e con lui quello del Comitato repubblicano del 6 febbraio 1908 e dell'Associazione dei Professori di disegno del 7 marzo 1903 [7].

Il «Reveillon» del 1913 è una tra le tante prove che la Belle Époque stava tramontando: il disegno, tra l'altro piacevolissimo e sbarazzino, mostra una specie di intimità orgiastica impensabile solo dieci anni prima.

La Belle Époque è tutta un divertimento pubblico e sociale; può essere osée e spregiudicata, ma evita gli eccessi. Questi si celebrano se mai tra le compiacenti pareti dei Cabinets particuliers e delle ville ai limiti del Bois e nella tranquilla periferia di Parigi.

La fine delle Belle Époque è indeterminata per gli storici e la sua data controversa. Si accetta il 1914 perché la guerra è un fatto traumatico che non si discute. Non ci basta. In realtà se si considerano gli aspetti conviviali ed il menu loro testimone muto nel tempo, si può avvertire un certo crepuscolo che incomincia sin dal 1900 [8]; per contro ci si può accorgere che non era terminata neppure dopo la grande guerra.

Non abbiamo sinora parlato della festosa musica che era fatta apposta per accompagnare le manifestazioni pubbliche e collettive degli entusiasmi e della gioia. Si ballava in modo chiassoso ed estroverso in mezzo a tanta gente che scandiva i ritmi incalzanti, alternati da sinuose dolcezze, delle musiche di Offenbach, Plaquette, Lecoq, Suppé che avevano ormai oscurato il Valtzer Viennese.

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All'improvviso arrivò a Parigi tra il 1911 ed il 1912 una danza esotica d'oltre oceano, il Tango [9]. Un modo di ballare tutto diverso, riservato a pochi nell'intimità, in ambienti più piccoli, l'antitesi del Can Can e delle Polke sfrenate.

Il Tango diventa «Dîner» e c'è proprio un menu dell'8 febbraio 1914 concepito in modo del tutto nuovo: una coppia abbracciata nella danza incollata ad un sottile tessuto in «tulle». Questo documento con data certa è per noi la fine della Belle Époque che solo per caso corrisponde all'inizio della guerra.

Per noi rivivrà sempre nei suoi menu che con generosità mettiamo in mostra. E ce la ritroveremo ancora con i suoi artisti notabili e tra i documenti che ricordano ristoranti, alberghi, liquori, champagne e cioccolata. E' giunta sino a Roma dove approdò con un fastoso ricevimento a palazzo Farnese all'ambasciata di Francia il 27 aprile 1904. Il Presidente Loubet dava un ricevimento in onore dei sovrani d'Italia che nel marzo dell'anno precedente erano stati a Parigi. (Evento ricordato da un menu di Jules Cheret).

Vediamo un menu illustrato degnissimamente da un acquerello di Jean Pierre Laurens 1875-1933) dove appaiono molto idealizzate le «sorelle latine». Le portate servite in quella lontana primavera romana sono degne di altissimo elogio e meriterebbero molte parole di commento e illustrazioni.

Artisti

La caricatura è una forma d'arte che ha profonde e lontane origini. Leonardo da Vinci è considerato un precursore per le sue teste grottesche e deformi suggerite dal proposito intellettuale di mettere a confronto il brutto e il bello, a vantaggio di quest'ultimo, s'intende.

Dopo le grottesche visioni di Pieter Brueghel (1528-1569) e le ghiribizzose figure dell'Arcimboldi mediolenensis (1527-1593), Si arriva ad Agostino Carracci (1557-1602) che forse fu il primo vero caricaturista internazionale... ma noi non dobbiamo fare la storia della caricatura, che sarebbe, per altro, ben interessante.

Il discorso qui terminato serve a chiarire come nell'avanzare dei secoli tra il Sette e l'Ottocento, crebbe sempre più il numero di artisti di qualità che non disdegnano il disegno ironico e caricaturale. E concludiamo col dire che pittori rinomati non esitarono ad illustrare i menu dove sovente è presente lo spirito caricaturale e la voglia dei commensali di prendere in giro se stessi.

La «Petite estampe» usciva da una semplice grafica decorativa per imporsi alla società con le sue elevate qualità estetiche. Noti pittori si prestarono a far piacere a potenti, a sovrani ed amici membri delle prime consorterie, quando il fenomeno non era ancora generale ed esasperato come negli ultimi anni del secolo.

Possiamo citare il grande Camille Corot (1796-1875), Paul Chenevard (1807-1895), l'illustre architetto e prolifico disegnatore Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc che ricostruì le mura di Carcassone e di Avignone, ed ancora Charles Duran (1838-1917), Eduard Morin (1824-1882) e poi ancora Fichot, Bouvenne, Bayard (1837-1891), Boilot ed Armand Dumaresq che illustrò i menu de La Marmite.

Tutti si dedicarono ai menu, a quelli, per intenderci, che non si trovano più. Horace comte de Viel-Castel (1798-1864) ne fece in cromolitografia per l'imperatore Napoleone III e la principessa Matilde; purtroppo li abbiamo visti solo riprodotti.

Nuovi eventi e nuove generazioni incalzavano con gusti mutati e aspirazioni di grande libertà ed alla fine del secondo impero i francesi scopersero quella di stampa che prese corpo in forma visibile con la caricatura, il disegno satirico e la critica spietata dei vizi e delle cattive abitudini degli uomini ed in ispecie, dei ricchi, dei potenti e dei politici. Giornali come: Le Charivari, che fu il primo, Le Rire, Le Tutu, 1'Assiette au beurre, La Vie Parisienne, Le Canard Sauvage, Le Cris de Paris, La Coulotte Rouge, Le Courbeau, La Plume, Le Franc-parler, Le sifflet, La Faridondaine... si possono ancora trovare, leggere e godere se si riescono a interpretare. Dobbiamo ancora ricordare: Il Punch inglese ed il Simplicissimus tedesco; in Italia il Guerin Meschino di Milano fondato nel 1882, l'Asino a Roma nel 1892, il Pupazzetto, l'O di Giotto sempre a Roma, Bononia Ridens a Bologna e Monsignor Perelli a Napoli.

Le firme dei migliori illustratori di quei giornali, per lo più francesi, ce le troviamo in fondo ai menu più belli. Siamo sempre nella Belle Epoque e nel suo entusiasmo di vita, di costumi e d'arte. Risultati brillanti non potevano mancare a chi si affidava all'estro ed alla fantasia dei più geniali illustratori e caricaturisti. Abbiamo aperto un ventaglio di creazioni che vanno anche oltre la fine del secolo e arrivano sino al 1939.

Qui si seguito abbiamo tratteggiato un'immagine degli artisti scelti tra i più degni e rappresentativi che ritroviamo nei menu riprodotti ed esposti.

Charles Henri PILLE, pittore e ritrattista, nacque a Essones il 4 gennaio del 1844 e morì a Parigi il 4 marzo del 1897. Espose al «Salon» sin dal 1865 e via via i suoi quadri furono sempre più apprezzati. Non disdegnò il disegno satirico. Le sue illustrazioni per il Bon Bock sono tra le migliori ed i menu della Marmite sono una prova evidente della sua serietà e competenza nel disegno.

Georges Antoine ROCHEGROSSE, nato a Versailles il 2 agosto 1859, morì nel 1938 dopo una lunga vita attiva che lo vide membro della Società degli Artisti e premiato al «Salon» nel 1888. Tra il 1880 ed il 1900 ebbe grandi successi e fu considerato artista alla moda, collaborò con la Vie Parisienne ed ebbe la legion d'Onore nel 1910. Un raro menu della Stampa Francese per un ricevimento franco-russo fa bella mostra di sé. Ve n'è un altro che disegnò per la pubblicità di uno champagne.

Adolphe WILLETTE, lo abbiamo già goduto per averci dato la straordinaria testimonianza del diner in onore dei Goncourt. Era nato a Chalons nel 1857 ed era figlio di un colonnello di Stato Maggiore del noto generale Bazaine. Siamo tutti d'accordo nel pensare che per nostra fortuna non seguì le orme paterne. La sua produzione grafica è straordinariamente vasta. Nel giornale «L'Assiette au Beurre» diede prova con i suoi disegni della sua forza polemica e della critica spietata della borghesia ricca. I suoi Pierrot e le sue Colombine saranno sempre ricordati. Nei menu che disegnò in gran numero, c'è sovente un angelo che può essere gaio o triste e persino morto come lo si vede in un menu macabro... Gli esemplari dei menu che mostriamo, sono da considerarsi pezzi molto rari.

Jules Ernest SYLVESTRE, disegnatore, litografo e acquafortista di vaglia. Nacque a Parigi intorno al 1855. Ebbe menzioni al «Salon». Possiamo mostrare due menu che fece per la «Piume». Uno di questi è un «ante litteram» con la firma a matita, l'altro del 9 dicembre 1893 è straordinario per la bellissima acquaforte e perché intorno a quel tavolo quella sera sedevano: Rodin presidente, Verlaine, Zola, Mallarmé, Toulouse Lautrec... Frangois Coppée.

Jules CHERET, è troppo modesto il nostro breve cenno essendo questo artista considerato una delle figure più interessanti e notevoli dell'arte tra l'Ottocento e il Novecento. Nato a Parigi il 31 marzo del 1836, morì quasi centenario a Nizza nel 1933, era ormai cieco. A tredici anni cominciò a lavorare in una litografia come apprendista. L'arte litografica, di cui perfezionò la tecnica applicando nuovi procedimenti in Inghilterra dove rimase una decina di anni, fu la passione della sua vita. Le sue «affiches» a colori apparvero sui muri di Parigi e negli atrii dei teatri sin dal 1866 e per mezzo secolo non cessarono di celebrare spettacolo e mondanità sempre con grande successo di pubblico e di critica. Maillard nel suo famoso libro riproduce a piena pagina un gran numero di menu del grande litografo ed artista e ne parla in termini assai laudativi.Noi possiamo mostrare una prova di stampa di un menu molto simile ad un altro illustrato dal Maillard; forse si tratta di un «réfusé» di quella edizione.

Henry de TOULOUSE LAUTREC-MONFA (1811-1901), non tocca a noi né questa è la sede confacente per rendere merito alla più grande personalità della sua epoca, a colui che si identifica con l'anima stessa della «Belle Époque». Esponiamo tra le opere degli artisti un menu con un'acquaforte di Sylvestre per il «diner de la piume» del 9 dicembre 1893 che prese tra le mani e consultò il grande artista seduto a fianco di Bodin, Zola, Verlaine, Coppe... Ed è già un documento ragguardevole, ma i suoi menu sono «introvabili» nel senso più ampio della parola. Ne abbiamo identificati con esattezza solo pochi: ... Per una cena in Rue Rodier del 13 marzo 1895, con la figura di un suonatore di banjo, ... per lo «diner de tanais», con un elefante da circo su un barile, rimasto «ante litteram» e mai utilizzato. C'è il menu Sylvan del z dicembre 1896 per il matrimonio, pare, di un fratello della famosa Yvette Gilbert; un altro senza data di ridottissime dimensioni. Sono noti due menu del «au bull de palmyre» senza data ed infine altro non datato dove si vede un signore anziano seduto accanto ad una fanciulla nuda in piedi. Si citano e si riproducono altri menu in bianco, ovvero «intonsi»; noi sospettiamo che si tratti di montaggi apocrifi.

Albert ROBIDA, era nato a Compiègne nel 1848. Dotato di una fecondità prodigiosa, riempì le sue stesse opere letterarie con disegni di straordinaria fantasia che diedero vigore ai suoi sogni folli ed avveniristici. Si ricordano: Suturnine Farandole, Le XX siècle, Le Roi des Jongleurs, Le Capitaine Bellormeau, Le vrai sexe faible, En haut du beffroi, ... ed una serie di volumi su vari Paesi d'Europa. Collaborò con la Vie Parisienne ed illustrò gli aforismi di Brillat-Savarin. Possiamo mostrare un menu di uno straordinario e pantagruelico festeggiamento dell'11 maggio 1908 del Diner des Études Rabelaisiennes; a destra in alto vi è la sua firma a matita. Altri due sono curiosi per le illustrazioni di sapore medievale. Morì nel 1926. Il suo ultimo capolavoro fu «Les Villes Martires» con la visione terrificante e apocalittica di draghi germanici che si buttano sulle cattedrali in fiamme per distruggerle.

Henri GERBAULT (1863-1941), acquerellista e disegnatore. Ebbe un importante maestro, il grande Colin, ed era nipote del poeta Sully-Prudhomme. Si distinse per le sue opere caricaturali. I suoi menu per il ristorante «La Rue» di Parigi sono descritti ampiamente nel libro del Maillard; ne mostriamo due assai interessanti ed un'altra cosuccia dove è disegnato un centauro femmina [10].

Theophile Alexandre STEINLEN, pittore, incisore, litografo e scultore nato a Losanna il 10 novembre 1859, morto a Parigi nel 1923. Visse sempre a Parigi dove giovanissimo si installò a Montmartre e sui tavolini dello Chat Noir incominciò a disegnare per i giornali umoristici come Le Rire e L'Assiette au Beurre. Assieme a Willette e Forain fondò il giornale «Les Humoristes» nel 1911. Steinlen amava i gatti e sovente li ritraeva e noi mostriamo un suo disegno pieno di gatti per il 2100 Diner du Bon Bock del 9 maggio 1895 che è riprodotto anche sul Maillard.

Louise ABBEMA, ci onora con la sua presenza femminile. Nata ad Etanges il 31 ottobre 1858, morì a Parigi nel 1927. Pittrice di primo ordine, scultrice, incisore, letterata, divenne famosa giovanissima nel 1876 per un ritratto a Sarah Bernhardt. Espose al «Salon» più volte sino al 1926, Cavaliere della Legion d'Onore, collaborò con molti giornali. Ce la ritroviamo per aver disegnato un bellissimo menu proprio per la «Journée de Sarah Bernhardt» del 9 dicembre 1896, data memorabile per la carriera della grande attrice.

Adrien BARRÈRE (1887-1931) pittore e litografo, collaboratore di molti giornali, creatore di «af ìches» umoristiche e soprattutto per programmi teatrali. Famoso per una serie di tavole dedicate ai professori delle facoltà di Medicina e di Diritto, stampava lui stesso le «affiches» che raggiunsero tirature inimmaginabili a quei tempi. Abbiamo un suo disegno a tempera per un menu destinato alla garbata pubblicità di un liquore francese. E un pezzo unico.

Georges REDON (1869-1943) parigino, disegnatore e litografo si dedicò alla satira ed alla caricatura. Espose al «Salon». Un suo piccolo menu è abbastanza curioso per il disegno e la lista delle vivande del tutto inusuale.

Alphonse MUCHA, nato nel 1860 in una cittadina della Moravia. La grande Sarah Bernhardt, lo considerava genio iconografico personale. Eseguì un importante menu per lei, del 9 dicembre 1896, con lo stesso contenuto di quello dell'Abbéma. Fatto poco comune. Mucha si stabilì definitivamente a Parigi nel 1890. Le sue composizioni ricche e nel contempo delicate, i suoi colori «Liberty» riempirono i muri di Parigi. Le sue «affiches» raggiungono oggi prezzi incredibilmente elevati. Disegnò e colorò importanti menu che sono diventati estremamente rari. Uno di questi per la Casa Moét et Chandon, lo abbiamo collocato tra i documenti pubblicitari. Le copertine della brochure del Maillard è opera sua; la si può vedere riprodotta in fotografia. Morì a Parigi nel 1939.

Albert GUILLAUME, nacque a Parigi nel 1873 e segnò l'inizio del primo declinare della Belle Époque. I suoi «fascicoli» umoristici si esaurivano in brevissimo tempo. Incominciò a disegnare menu giovanissimo; ne mostriamo uno stupendo per il contenuto ironico dei volti dei personaggi disegnato per la Taverne Tourtel.

MOLOCH è un nome d'arte del caricaturista B. Colomb nato a Parigi nel 1849 ed ivi morto nel 1909, che con lo pseudonimo firmò un gran numero di inviti e menu del Bon Bock.

Louis Maurice NEUMONT, nacque a Parigi il 12 settembre 1868 ed ivi morì nel 1930; fu pittore e litografo allievo del grande Gérome. Partecipò più volte al «Salon» dove ebbe menzioni e medaglie. Cavaliere della Legion d'Onore eseguì durante la guerra «affiches» di propaganda. Mostriamo il menu del 1830 Déjuner du Cornet - 4 luglio 1914, delicatissima litografia a colori.

Joseph APOUX, pittore, incisore nato intorno al 1855 a Blanc, allievo di Gérome, espose al «Salon» dopo il 1880. Le sue acquaforti di donnine a cavallo di bottiglie e di streghe a cavallo di scope, ebbero notorietà. Abbiamo bellissimi menu patriottici che ricordano la Rivoluzione ed altri dedicati a Don Chisciotte.

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Jules Renard DRAUER, nato a Liegi l'11 novembre 1833, disegnatore, acquerellista, si stabilì a Parigi nel 1861. Collaborò con giornali satirici ed umoristici e fece illustrazioni anche per giornali d'informazione. In uno dei due acquerelli originali giunto sino a noi databili attorno al 1875, Si incontrano all'ingresso della salle à manger gli ospiti con una schiera di cuochi.

Charles Felix GIR, nato a Tours il 1° novembre 1883 è rimasto noto per le sue affìches teatrali e come illustratore di opere letterarie e, tra queste, citiamo le opere teatrali di Rostand. Un suo menu di grandi dimensioni e molto curioso, celebra il 239° Diner del Cornet del io luglio 1925.

Non siamo mai riusciti a trovare i menu di Felicien Rops (1833-1898) di cui possediamo altri importanti documenti che ricordano la sua grafica lussuriosa e macabra. Fu l'ultimo dei grandi acquafortisti. E neppure di Samuel Grasset esperto incisore nato a Losanna nel 1871 di cui si ricordano le splendide copertine per i numeri straordinari nelle «Illustrations frangaises». La Belle Époque sta perdendo lentamente la sua fisionomia come i suoi attori e lascia il posto a nuove schiere ben rappresentate da:

Louis ICART, che appartiene all'ultimissima generazione di acquafortisti. Nacque alla fine del secolo a Parigi. Ispiratosi alle opere di Pierre Louis, incise sul rame donne fatali eleganti e viziose che colorava con estrema attenzione. Dopo la seconda guerra era ancora vivente. Abbiamo uno stupendo menu a soggetto marinaresco del Club des Cents del 10 marzo 1939 ed un altro per lo champagne Ayala.

Georges VILLA, nato in Francia nel 1883, è stato brillante pittore, disegnatore e litografo. Al «Salon» ebbe numerosi riconoscimenti. Illustratore umorista, disegnò menu di grandi dimensioni per «Le Cornet». In quello del 241° Déjuner del 17 novembre del 1925, Si ironizza sulla cintura di castità e se ne immagina una destinata all'uomo. Quella sera al «Cornet» era ospite d'onore Edmond Hérancourt, presidente del museo di Cluny che conservava diverse cinture di castità. Risultarono più tardi in parte non autentiche [11].

Franz Von STUCK, pittore e scultore tedesco nato a Tettenweis il 23 febbraio 1863, morto a Tetschen il 30 agosto 1928, allievo dell'Accademia di Monaco, autore di quadri tra il simbolismo e l'arte del '900, che ebbero grande fama; non disdegnò il menu. Taluni «gauffré» sono particolari come quello del Pavone che si può vedere.

Aldo MAZZA, pittore e ritrattista nato a Gavirate il 6 luglio 1880. Negli anni del primo dopoguerra non vi erano signore milanesi di un certo rango che non ambissero farsi ritrarre da Aldo Mazza. Pittore della donna e del nudo, non disdegnava il paesaggio. Ma la sua fama è legata alla fecondissima produzione di caricature che riempirono il Guerin Meschino di Milano dell'inizio del secolo sino al 1925. Si ricordano di lui le illustrazioni della famosa Partenza del Crociato e numerosissimi cartelloni pubblicitari. Schizzò piacevolmente numerosi menu nell'ambito della vita milanese e con un pizzico di caricatura politica. Artista piacevolissimo, morì negli Anni 60 a Milano.

Antonio RUBINO, nato a San Remo nel 1880, rimase per l'Italia il più straordinario, commovente e sensibile illustratore di libri per l'infanzia e giornaletti per bambini. I suoi personaggi del Corriere dei Piccoli, sono rimasti indelebili nella mente degli uomini che sono vicini alla sessantina. La sua produzione fu vastissima per non dire enorme. I menu, e ne fece, sono difficili a trovarsi. Ne abbiamo uno. Morì il 1 luglio del 1965.

Ettore XIMENE, scultore, pittore, illustratore, nato a Palermo il 1° aprile 1855, fu allievo di Domenico Morelli. Si impose per le sue qualità ed arrivò ad esporre a Vienna ed a Parigi dove nell'anno 1900 ebbe una medaglia d'oro. Si ricordano le sue illustrazioni del «Cuore» di De Amicis e di molti piacevoli libri di fine Ottocento. Morì a Roma nel 1926. I suoi menu esistono, ma non li abbiamo mai rintracciati.

Giulio CISARI, nacque a Como il 7 maggio 1892, studiò a Brera dove frequentò i nomi più prestigiosi dell'epoca ed Adolfo De Carolis che ammirò più di ogni altro. Cisari fu l'artista indiscusso, il genio della xilografia che, ispirandosi alle lontane origini del quindicesimo secolo, impose ai contemporanei. Sulla tecnica della xilografia scrisse un trattato «teorico-pratico» pubblicato da Hoepli. Fu pregevole pittore preso dalla spinta del '900 ma ancora vincolato alle tradizioni figurative ottocentesche. Certe xilo sembrano ispirarsi ai primitivi e ricordiamo Gabriele Rossetti ed i preraffaelliti. Morì nel 1979. Disegnò ed incise fregi, copertine, affiches, ex libris e non poteva aver disdegnato il menu di cui abbiamo sentore e cerchiamo ancora di rintracciarne qualche superstite esemplare.

Pietro FRAGIACOMO, nato il 14 agosto 1856 a Trieste, allievo dell'accademia di Venezia, fu intimo di Favretto e di Ettore Tito ed amicissimo di Cisari. Si dedicò in modo esemplare al paesaggio e predilisse le solitudini lagunari ed i canali di Venezia. Un menu del 31 marzo 1908 per una cena di magro quaresimale dei soci del «Bucintoro» all'osteria di Sier Zuane Codrona, è illustrato da due piccole incisioni dove si vedono «bragozzi» veleggiare sulle acque della laguna. Morì a Venezia il i 8 maggio del 1922.

Dobbiamo mettere la parola fine con la certezza di non aver dato spazio ad almeno altrettanti personaggi che lo avrebbero meritato; ricordiamone almeno i nomi: August Girardine, Jules Renard Draner, Louis Ernest Lesage detto Sahib, Felix Eugène Merelle, Adolphe Philippe Millot, E. Mouchon, Guy Arnoux, Heinrich Wilhelm, Ferdinand Joseph Gueldry, Armand Berton, Jean Pierre Laurens, Frangois Schommer...

Tutti gli italiani: Marcello Dudovich ammirevole illustratore e cartellonista, Mario Vellani Marchi che si prodigò sino a tarda età a mettere in caricatura personaggi della cultura e dell'arte sulle «liste» del ristorante Bagutta a Milano, famoso per il suo premio letterario. E poi Bruno Angoletta, Anselmo Bucci, Vito Viganò...

Il Regno Unito

«... Mi trovai davanti due uomini in abito borghese... tosto mi accorsi che erano Boeri, alti, vestiti di nero, con i cappelli flosci a larghe tese, armati di fucile... tornai di corsa verso la macchina (la locomotiva del treno blindato) ... le loro pallottole fischiando a destra e a sinistra, mi passavano a pochi centimetri... Abbandonai la linea ferroviaria e mi misi a correre... decisi di raggiungere ad ogni costo il fiume Krant<... mentre mi lanciavo... ecco comparire un uomo a cavallo, alto, nero con la carabina nella mano destra. Eravamo ad una cinquantina di passi l'uno dall'altro... in quel momento ero disarmato (la sua Mauser era rimasta sul treno) . Il Boero alzava la sua carabina e mi prendeva di mira... mi avrebbe certamente colpito. Così alzai le mani e mi arresi come prigioniero di guerra».

Era il 15 novembre 1899 nel Natal durante la guerra Anglo-Boera attorno ad un treno blindato sulla linea ferroviaria proveniente da Durban tra le stazioni di Escourt e Chieveley: il racconto è di Winston Churchill. E solo un episodio fra i tanti di quella guerra Anglo-Boera che gli inglesi vinsero ma in realtà persero facendo in modo di far credere che fosse vinta, ma ha una sua importanza. Infatti Churcill continua a raccontare di aver incontrato nel 1902 a Londra il generale Luigi Botha che gli disse: «Non mi riconoscete? io sono quel Boero che vi ha fatto prigioniero». Per molti anni durò l'amicizia sincera tra i due uomini di Stato.

Il generale Botha, eletto primo ministro del Transvaal nel dicembre del 1906, venne a Londra per partecipare alla conferenza imperiale. In tale occasione fu offerto a tutti i ministri dei Dominii il 24 aprile del 1907 un banchetto a Westminster Hall. Il menu di quello straordinario Parliamentary Luncheon è giunto sino a noi e lo si può ammirare. Churchill allora sottosegretario alle Colonie, era presente come rappresentante del Parlamento. «... quando il «leader» Boero (il gen. Botha) attraversò la hall per prendere il suo posto, si fermò davanti a mia madre che mi stava a fianco e le disse: «Lui ed io siamo stati all'aperto con tutti i tempi, ed era vero...».

Il nostro menu è senza dubbio storico per gli eventi straordinari che precedettero il banchetto e le eccezionali personalità dei partecipanti, ma c'è un piccolo particolare che lo rende ancor più interessante e curioso: Churchill nelle sue memorie «My Early File» dice che il banchetto avvenne nel 1906 sbagliando la data di un anno. I grandi uomini scrivendo le memorie possono anche cadere in errore, nulla di male.

Non vi sono dubbi. Infatti Botha, fu eletto alla fine del 1906 e non poteva essere primo ministro nell'aprile dello stesso anno. Nell'edizione originale inglese della biografia, si conferma l'errore del grande uomo e noi dobbiamo rendere grazie ad un cartoncino se ce ne siamo accorti, un menu tipicamente inglese per il nastrino azzurro, come un «papillon» da abito da sera, in alto a sinistra, per una noticina storica su Westminster Hall e per i famosi toasts di cui apprenderemo presto i profondi significati.

Le peculiari caratteristiche che rendono i menu inglese «diversi», si possono meglio avvertire se si riesce ad averne sott'occhio in gran numero. Ne potremmo mostrare centinaia che vanno dal 188o al 1912; un «corpus» a se stante molto eloquente per la storia dei costumi inglesi. Questo grande popolo nel pensare, concepire e stampare i menu, è «iconoclasta» come Irene imperatrice di Bisanzio ed i suoi seguaci a Nicea.

Gli inglesi disdegnano l'immagine e si rifugiano nei simboli di cui tutta la vita sociale di quel Paese è permeata. Stemmi, guidoni e bandiere, distintivi e monogrammi stilizzati, colori, fregi e forme sempre ripetuti, costituiscono in modo predominante la grafica di quegli austeri documenti. Accanto ai simboli ridotti, o ad un semplicissimo fregio, vi si trova invece grande dovizia di informazioni che raccontano dei personaggi che si sono riuniti a tavola, del perché, del dove, del quando ed in onore di chi. Sembra di capire che gli inglesi tra i due secoli soffrissero di una particolare «pruderie»: non sta bene parlare troppo ed esclusivamente del cibo. Per questo i loro menu diventano talvolta degli opuscoli che si devono aprire e leggere attentamente. Si ricavano un mucchio di informazioni prima di venire a sapere finalmente cosa si sarebbe mangiato.

E poi ci sono i «Toasts», non tramezzini caldi di formaggio, ma reverenti brindisi che nel corso del simposio venivano più volte e ripetutamente celebrati in onore di qualcuno, ma chiunque fosse l'ospite o gli ospiti, c'era sempre davanti a tutti «the King» or «the Queen». Il Toast era sempre proposto da qualcuno che si alzava in piedi e diceva che era ora di brindare.

Nel nostro menu del 24 aprile 1907 del «Luncheon» dato ai Colonial Premiers, i « toasts» sono: «Proposed by... Supported by... Responded to by... ed anche Replied to by...». Di tutto ciò non abbiamo il minimo esempio e neppure qualcosa di vagamente assomigliante nel resto d'Europa.

L'elenco delle portate risulta così adombrato; ed il fenomeno si esaspera quando si arriva all'opuscolo che contiene oltre ai Toasts, il programma musicale, il nome degli artisti e persino i testi delle romanze che si sarebbero ascoltate. Lo stato civile degli artisti è precisissimo: signori, signore, signorine. Troviamo riproduzioni di coppe e trofei destinati ad una certa manifestazione sportiva od artistica o simbolo di una associazione.

Un menu del 10 febbraio 1905 la cui copertina merita di essere riprodotta per la purezza del suo «Liberty», della Union Society of The City of Westminster al Café Royal in Regent Street, comprende un inserto in carta patinata con sei riproduzioni di vedute della Old Westminster eseguite con una tecnica di altri tempi ormai irripetibile. Ve ne è uno del 19 giugno 1907 di un «court dinner» della «Company of Leathersellers» che consta di ben diciannove pagine perché contiene tutti i testi delle romanze tra le quali trionfa il prologo dei «Pagliacci» di Leoncavallo.

Tali documenti sono dei programmi dove si inserisce quel «mangiare» che per caso si dovrà pur consumare. In tali libretti troviamo un'altra caratteristica abbastanza frequente: la visione stilizzata in pianta della tavolata con tutti i nomi dei convitati al loro posto. Guai lasciare al caso una cosa del genere, che potrebbe avere fatali conseguenze sociali!

Sovente vicino ad un nome si nota il segno di un timbretto ad inchiostro copiativo violetto che ha impresso una manica con l'indice teso verso un nome. Si tratta del titolare di quell'esemplare di menu che in tal modo non aveva dubbi sulla ricerca del suo posto a tavola che avrebbe raggiunto rapidamente e senza fatica pronto al primo «Toast» per «the King». Non si poteva neppure immaginare o concepire che all'inizio di un banchetto «gentleman e ladies» si urtassero vociando alla ricerca del posto a tavola.

Questi «Plans of tables» sono testimonianza delle norme di un costume e di un tipo di vita sociale che oggi possono stupire. Si trova un documento analogo stampato a Milano nel 1906 ma, guarda caso, si tratta di un banchetto in onore di un gran cittadino inglese e precisamente il Lord Mayor di Londra ospite del Comune di Milano in un pranzo dato il 5 giugno 1906 in occasione della famosa Esposizione.

Abbiamo già accennato al nastrino in seta che fa spicco quasi sempre incollato in alto a sinistra. E' un'astratta frivolezza decorativa con poca fantasia nel colore: il «papillon» è quasi sempre violetto pallido, diremmo color malva come la vestaglia di Berto Wooster, il padrone di Jeves, il personaggio più famoso degli impareggiabili racconti di Woodhouse.

Nei menu di quell'epoca appare evidente il desiderio associativo del popolo inglese secondo un rituale, uno stile, una pratica ed una serietà del tutto differenti a quelli dei latini, francesi o italiani, per i quali l'associazione è soltanto un ottimo pretesto per sfuggire al controllo della famiglia e per cenare fuori di casa. Per gli inglesi era un rito obbligatorio, per i latini era solo un gioco per chi fa finta di crederci.

Un cittadino inglese regolarmente associato ad altri per motivi di interessi comuni, «per caso» mangia con i suoi consociati; un francese ed un italiano si accorge solo a fine tavola di far parte di una associazione che avrebbe altri scopi oltre a quello di mangiare in compagnia. Basta confrontare i menu di associazioni inglesi con quelli amichevoli francesi per avere la conferma della straordinaria differenza, sia pur nella medesima epoca.

La Mercers Company, associazione di mutuo soccorso e sostegno, ebbe il primo atto costitutivo il 13 gennaio 1393 regnante Re Riccardo II, ma la confraternita risale ai tempi di Enrico I e di Gilbert Becket, padre del famosissimo Thomas Becket arcivescovo di Canterbury ucciso nella cattedrale per ordine del sovrano. Nel 1192, vent'anni prima che venisse ucciso l'arcivescovo, la di lui sorella Agnes de Halles ed il marito Thomas Fitz Theobald de Halles, antenato del duca di Ornonde, costruirono l'ospedale di St. Thomas de Acon proprio nel luogo dove era nato l'arcivescovo e fondarono la Fraternity of Mercers.

Seguì una lunga storia di alterne vicende sotto i re d'Inghilterra. Dopo l'incendio di Londra del 1666 in cui le proprietà della Confraternita, chiese, cappelle, ospedali e scuole, andarono perdute, tutto fu ricostruito come si poteva vedere all'epoca di un menu del 9 novembre 1906 e di uno del i luglio 1909. Unico ornamento il simbolo araldico in oro in rilievo dove al centro appare una specie di regina dai seni opulenti che potrebbe, si dice, essere la Dama di Efeso.

Il motto è «Honor Deo». Tutto è a posto: il Master, maestro della Compagnia, i Wanders, custodi o assistenti ed il Clerk che tradurremmo «segretario». Il simposio è preceduto da un canto di ringraziamento e seguito da un altrettanto «Grace After Meat» e dalle Laudi Spirituali del 15 45 • Per un cattolico vorrebbe dire, se va bene, una discutibile mescolanza di sacro e profano. Gli uomini del Somerset che vivevano a Londra, era veramente giusto che si trovassero a tavola.

Il giorno 22 aprile 1907 era il bicentenario della nascita di Henry Fielding, cittadino del Somerset che tutti conosciamo come autore di Tom Jones, venne offerta una cena in sua memoria; il presidente del simposio era Sir Arthur Conan Doyle inventore di Sherlock Holmes e di «... elementare Watson!...». Il menu è la prova inconfutabile della cena anche se l'eccesso di «Toasts» pur rendendola varia, l'avrà resa anche frammentaria ed interrotta nei momenti più belli magari quando si stava per addentare lo «Jambon d'York au Marsala»... fatidico nome che appare per miracolo. Non lo si incontra mai in Inghilterra e in Francia e ben raramente in menu italiani. È una concessione straordinaria e bisogna dire che The Monico Restaurant in Piccadilly Circus, che non c'è più, era veramente internazionale.

Vale la pena ricordare che all'origine del Marsala siciliano, ci sta un cittadino inglese, sir John Woodhouse che nel 1773 in Sicilia si incantò nel bere il vino locale e da buon mercante pensò che quell'ottimo gusto saporoso poteva competere nel suo Paese con i vini importati dalla Spagna e dal Portogallo. Aveva ragione ed il Marsala fu da allora servito sulle tavole inglesi sovente al posto del Madera, del Malaga e del Porto. Woodhouse fece fortuna e creò la casa che ancora oggi porta il suo nome. Si dice che facesse grosse speculazioni vendendo Marsala alla flotta inglese. Ebbe però un concorrente inglese, Benjamin Ingham e, molto più tardi, i Florio.

Nel gennaio del 1907 Si celebra l'undicesimo banchetto annuale della London Fife Association. Il Fife è il piffero che si identifica con il «Pipe», cornamusa, meglio detta «Bagpipe». Dal programma si rileva che Mr. Rob. Rosinson è il «Piper» della serata. Giù il cappello, signori. La cornamusa fu suonata a Waterloo e nel 1944 in Normandia, sotto il fuoco tedesco, da impavidi pifferai scozzesi marcianti a ranghi serrati.

Una cena ben rumorosa, se si considerano Toasts e Songs in continua ed assillante alternativa. Fatto curioso: il menu è scritto in inglese, rarissima evenienza tra i menu di quell'epoca. E chiaro! Un suonatore di cornamusa non può e non poteva suonare la Marsigliese! Un «Piper» è talmente «scozzese» che non riesce a concepire neppure che esista una lingua parlata e scritta diversa da quella della sua patria.

Il 28 febbraio del 1905 Si teneva il secondo banchetto annuale della «Café Royal Association»; nell'elenco dei vini figurano ben quattordici vini di Champagne di gran nome e notevole datazione che va dai sette agli undici anni. Non si sa quanti fossero i commensali, ma si può arguire che alla fine tutti siano stati piuttosto alticci. Troviamo una gran bella scelta di vini «Special Wine Liste» nel menu del 25 ottobre 1906 della trentaduesima cena annuale e ballo all'Hotel Cecil dei: «City of Westminster and Borough of Chelses Licensed Victuallers, Hotel and Restaurant Proprietors Protecuors Association», il presidente della cena fu Georges Hennessy Esq. di Cognac. I vini sono 18 oltre a tre Whisky e Cognac Hennessy. I Victuallers sono gli addetti all'acquisto delle «vettovaglie».

Centinaia di menu incalzano per mettersi tutti in mostra: impossibile. Limitiamoci ad esporre i più curiosi come: Menu Militare del Fifth Fusiliers del 1907, Banchetto della Ferguson & Forrester, mercanti di vini, del I5 agosto 1905, Diner del 18 gennaio 1898 al Café Royal - cena servita dopo il teatro, 29° anniversario dei Royal Caledonian Schools del 27 giugno 1907 con un numero indescrivibile di Toasts intercalati da suoni di cornamusa, Rugby Football Union del i8 marzo 1905, qualche menu di Logge Massoniche che non vennero mai meno nel Regno Unito che vide la nascita della straordinaria «Società Segreta», conviti di sole donne, Staff della Wolseley, fabbrica di automobili, tutti a tavola il 4 dicembre 1907.

Sindacati - Pubblicità - Navigazione

Potrebbe a prima vista apparire molto curiosa la pretesa di imbastire una storia delle tre entità del titolo, estranee una all'altra, servendoci del menu. Non lo è proprio del tutto.

Sindacati

Qualche perplessità potrebbe manifestarsi in seno alle tre grandi confederazioni ed alle innumerevoli proliferazioni che pullulano nel nostro Paese. Tutti insieme questi signori pensano raramente a Pierre Joseph Prudhon (1809-1865) o non ricordano più il suo «Qu'est ce que la propriété» stampato nel 1846, la sua partecipazione l'8 settembre 1864 a Losanna al primo Congresso dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori ed i suoi screzi personali con Carlo Marx. I rapporti con il filosofo tedesco dalla gran barba, erano stati sempre freddini e per un pelo non finirono a calci in faccia.

Chi ricorda Louis Auguste Blanqui presente ai Congressi di Ginevra del 1866, del 186.7 e del 1869 a Basilea dove pare che fosse stata cantata per la prima volta l'Internazionale? Sindacalisti eroici e provati per le persecuzioni: tutti, come il grande Bakunin, morti senza una lira in tasca!

I menu fanno affiorare tanti ricordi e vorremmo sciorinare sotto occhi increduli, una grande documentazione di menu sindacali francesi che riescono a farci sospettare che la vera culla del sindacato sarebbe stata proprio la Francia post-rivoluzionaria anziché il Labour Party inglese che viene sempre citato per la sua priorità troppo seria e compassata per essere eroica. La verità è che ci troviamo ancora in quello scorcio di secolo detto Belle Époque dove l'associazionismo faceva gran mostra di sé.

Il Sindacato è un'associazione per antonomasia e non poteva sottrarsi al costume del momento. Scegliendo tra tanti menu sindacali, ne troviamo di stupendi come quello dell'«Association Fraternelle» degli impiegati e degli operai delle Ferrovie francesi del 26 maggio del 1906 arricchito da un gauffrage sulla copertina e da una locomotiva sul retro ed allietato da programmi di concerti e di grande ballo. Ce ne sono un paio della Camera sindacale dei muratori, altri degli addetti all'industria, dei costruttori di macchine per la stampa, di varie imprese di opere pubbliche e di addetti ai pavimenti ed ai rivestimenti. Viene il sospetto che quei sindacati fossero più borghesi che operai... gli antesignani anarco-sindacali erano tutti morti o in prigione.

Si tratta di un modesto saggio rispetto all'entità dei documenti di cui si dispone, tutti stranieri beninteso, mentre nel nostro Paese sembra proprio che durante l'Ottocento il sindacato abbia avuto scarse fortune. Senonché troviamo un documento estremamente patetico e che ci intenerisce solo al guardarlo: un menu della Cassa di Mutua Cooperativa italiana per le Pensioni del 30, 31 luglio e 1° agosto del 1905. Siamo a Serravalle Sesia ed il banchetto festeggia il 10° anniversario della fondazione.

La nostra commozione cresce guardando un cartoncino azzurro pallido ripiegato più volte che ricorda la festa dell'inaugurazione di una nuova bandiera della Società Operai di Borgosesia. Siamo al 24 agosto 1898 all'Albergo Reale diretto da Achille Calzone. Il banchetto è allietato da ben due bande: quella della Cartiera di Serravalle e quella della Manifattura di Lane.

E l'emozione cresce ancora per la festa Sociale dell'11i settembre 1899 della Società Operaia Agricola di Fara Novarese con un variato e gustoso menu, il concerto bandistico ed una perentoria dichiarazione finale: «Sono assolutamente vietati i discorsi». Brava gente, con un pizzico di ironia e un litro di vino a testa, che non poteva sopportare le chiacchiere inutili.

Pubblicità

La Pubblicità, questa terribile Dea che ci corrompe la vista, ci annebbia il discernimento e tormenta il subconscio con le sue mezze-verità e mezze-bugie e con una carica di ipocrisia che negli ultimi trent'anni ha raggiunto l'apogeo, non è un fenomeno troppo remoto. Se si escludono naturalmente le insegne dei lupanari di Pompei e gli indirizzi delle cortigiane scritti sui muri dei porti delle città cosmopolite dell'età alessandrina.

Volle la sorte che la pubblicità, per motivi del tutto differenti, nascesse assieme al menu. Le ragioni stanno probabilmente nella maggior facilità della stampa e nella diffusione dei giornali che resero più facile mistificare il pubblico. I giornali di fine secolo ci fanno sorridere per i loro calvi con i capelli cresciuti, per i loro seni rassodati nonché per le «scosse» elettriche e i sali, guaritori di tutti i mali. Noi non ci accorgiamo di essere come i nostri bisnonni egualmente abbindolati dalla pubblicità e per di più, mentre i bisnonni erano diffidenti, noi ne siamo diventati succubi.

Ciò ci riguarda poco e, per la verità, dobbiamo riconoscere che la Dea corruttrice ebbe rispetto del menu, che cercò di rendere più bello ed attraente con motivi decorativi, figure e riproduzioni di quadri e di avvenimenti, per sedurre tante persone senza troppo insistere sulla propria presenza. Il nome della casa appare in termini prudenti ed i loro simboli sono garbati ed in tono minore.

Un'analisi approfondita dell'intero fenomeno, ci porterebbe assai lontano; basta pensare che Champagne, vini, liquori, dolciumi, cioccolato, aperitivi e tonici, nonché dadi ed estratti per brodi, acque minerali e medicinali, si contendono ancora la priorità di essersi inseriti, sin dalla metà dell'800, nel menu.

I cartoncini di diverse misure ed anche molto grandi, erano già stampati in quanto ai fregi, alle immagini ed alla parola Menu ben evidente sopra uno spazio lasciato in bianco. Venivano offerti alla clientela, per lo più a ristoranti, alberghi, birrerie ed anche a buffets e trattorie che, giorno dopo giorno, avrebbero inserito le loro vivande scritte a mano, a stampa e, purtroppo, talvolta dattiloscritte. Ci duole sottolineare che tale ultimo sistema porta un certo degrado al menu tanto più quando era completato da dattilografi inesperti che usavano macchine con caratteri impossibili e nastri consumati.

Le grandi case facevano stampare serie complete di menu, di sei, di dodici, di ventiquattro ed anche più, a soggetto storico, con costumi folkloristici, con personaggi, con paesaggi o scenette campestri e montanine. Talvolta si arrivava all'umorismo ed al galante. Mettere insieme oggi una serie completa non è compito facile, e ci si riesce ben raramente.

L'uso del menu garbatamente pubblicitario, si enfatizzò agli inizi del 1900 e sempre più sino al 1914. La guerra smorzò gli entusiasmi; poi si riprese con vigore negli Anni 20 e 30, ma il gusto grafico e lo spirito delle immagini si erano appesantiti. Dopo la «mazzata» della seconda guerra, non ci fu nessuna ripresa; il fenomeno è attualmente assai limitato. La pubblicità si è rivolta altrove e ciò non ci dispiace per nulla.

Apriamo la breve rassegna con un gioiello, una stella di prima grandezza, un disegno «fondo oro» del grande Mucha che lo concepì per la Casa dello Champagne Moét et Chandon. A fianco non stona l'illustrazione voluta dalla casa Cusenier che da oltre un secolo elargisce i piaceri dei suoi liquori squisiti; il suo «liberty» è piacevolissimo ed accattivante. Lo Champagne Roederer [12] affidò a Rochegrosse, che abbiamo incontrato tra gli artisti, l'incarico di raffigurare un triclinio. Lo Champagne Heidsieck restò famoso per le immagini assai ricercate dei castelli di Francia; menu stupendi con immagini deliziose all'interno e cenni storici sul castello illustrato.

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Gli altri, in un modo o in un altro erano destinati ad allietare ed incuriosire tutti coloro che, in preda a sani appetiti, non avrebbero dovuto pensare ad altro che alla scelta delle vivande...

Ci sono i menu della casa Liebig, destinati a far collezione a sé e che molti «fans» accomunano alle famose figurine. Da ogni serie di menu illustrati a «soggetto» può prendere l'avvio la storia dei liquori, degli aperitivi, del bon-bons, delle cioccolate, del tè, degli estratti e dei dadi...

Navigazioni

Quando si sta, o meglio, si stava su una nave che ci metteva un paio di settimane per andare da Genova a Buenos Aires, la gente, passati i primi entusiasmi, veniva presa dalla noia. Solo lo scandire delle refezioni rendeva meno pesanti le giornate d'ozio. Un giorno le Grandi Compagnie decisero di buttarsi sulla gastronomia per acquistare, con la fama dilagante delle loro cucine, una clientela sempre crescente e sempre più raffinata.

I grandi ricconi, battezzati dal popolo «pescecani», che avevano fatto quattrini in Sud America con il commercio delle carni ed in tutto il mondo fornendo armamenti, se dovevano attraversare gli Oceani per affari o per diporto, sceglievano quel transatlantico la cui cucina godeva più gran fama. I menu che i passeggeri soddisfatti si portavano a casa, costituivano un'ottima fonte di informazioni.

Di conseguenza le Compagnie avevano scorte di stupendi stampati con immagini o paesaggi accattivanti che, per le vivande, dal Break-fast al Lunch, al Dinner, venivano completati nelle tipografie della nave stessa. Quando le navi iniziarono linee regolari, i passeggeri mangiavano così-così. Un documento che risale al 1866, rarissimo, di una nave della Navigazione Imperiale Francese, è una prova inconfutabile; altra ci è fornita da un documento del 1880 della Navigazione Generale Italiana [13].

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Per molti anni sulle navi minori, su i piccoli cabottaggi ed i cosiddetti «postali», i passeggeri ebbero scarse soddisfazioni gastronomiche.

Verso il 1910 le cose culinarie navali incominciarono a prendere una buona piega; la guerra fermò tutto e nel dopoguerra si riprese con gusto e vigore a sistemare cucine e calle manger sino a raggiungere manifestazioni macroscopiche durante gli Anni 30 quando i transatlantici entrarono anche in competizione per fregiarsi dell'ambito Nastro Azzurro che attestava quale era la nave più veloce dalla Francia a New York.

Le crociere ed i crocieristi in frotte, diedero contributo talvolta un poco confusionario, ma egualmente valido. Di certo tutti si portavano a casa i menu della Crociera. Per questo motivo, mentre i primi documenti sino al 1910 sono rarissimi, i menu successivi di quegli anni ruggenti, si trovano con una certa facilità.

Dopo la seconda guerra, le manifestazioni culinarie sul mare continuarono sino alla fine degli Anni Settanta. Poi gli aerei soppiantarono il transatlantico ed i loro menu ebbero qualche sprazzo di opulenza in seria competizione tra le compagnie di bandiera. Ora sembra che tutto stia appiattendosi tra la fretta, le esigenze di risparmiare ed il triste precotto riscaldato.

Sulla scorta dei menu di navi di linea e di crociera che abbracciano un cinquantennio di splendori, si può mettere insieme la storia della navigazione civile. Occorrerebbero grandi spazi e qualche spazio si dovrebbe poi riservare ai viaggi in terra, vale a dire ai vagoni ristoranti. Di necessità ci limitiamo ad esempi emblematici e di indiscusso buon gusto prendendo l'avvio con due ricordi di una crociera nel Sud-Est asiatico del 1894 delle Messageries Maritimes sul piroscafo Jarra.

La Navigazione Generale Italiana ci ha dato una serie di menu della Litografia Marzi di Roma che sono veramente esemplari. Tanti altri: in italiano, in francese, inglese e tedesco ci fanno pensare a tempi andati.

I passeggeri che si cambiavano vestito dalle tre alle quattro volte al giorno, stavano a lungo sdraiati in piacevoli conversari su «chaises-longues» di vimini o in paglia viennese sistemate contro le pareti dei ponti che si chiamavano «passeggiate». Se c'era un po' di vento e faceva freschetto, c'erano a disposizione morbidi plaids di lana. Frotte di stewarts servivano a ritmi serrati e con garbo: tè, caffè, cappuccini, brodi caldi, cioccolate, pasticcini, tartinette dolci e salate, soft drinks, aperitivi, tonici, amari, champagne (brut, sec, demi-sec) dal mattino al tardo pomeriggio – tutto compreso nel biglietto di 1a classe.

Pianoforti situati ovunque accompagnavano terzetti d'archi che eseguivano musiche delicate; il jazz-band con gli ottoni non mancava, ma era per la sera e sino alle ore piccole quando si ballavano tanghi, charleston, rumbe, e one-step. I passeggeri non sapevano della loro grande fortuna costituita dall'assenza della filodiffusione e dei ritmi incalzanti.

Inutile parlare della ricchezza delle cucine e dell'opulenza delle tavole. A bordo delle «città galleggianti» c'era una regola: «tutti possono fare quello che vogliono, nessuno è obbligato a fare qualcosa». Questi tempi sono decisamente cambiati.

Ristoranti

«Venite ad me, vos qui stomacho laboratis et ego restaurabo vos». Tale Boulanger che a Parigi in Via Bailleul nei pressi dell'Oratoire teneva uno spaccio di minestre e brodi, allora chiamati «restaurants», aveva scritto nel 1765 sulla sua insegna: «Boulanger débits des restaurants divins». Ed in seguito vi aggiunse quel latino parafrasato da parole di Gesù Cristo destinate a scopi ideali di tutt'altro genere. Boulanger, per queste sue pretese ed altri fatti, fu citato dai «trattori» di Parigi e ne conseguirono vicende legali che poco ci riguardano.

Molti accenni ai «restaurants» come brodi ed altre bevande confortevoli, non mancano nella letteratura culinaria e conviviale. Non vi è dubbio che da tale parola nacque la denominazione di «Ristorante» tuttora in uso e valida.

Nella seconda metà del Settecento nacquero in Francia molti ristoranti che presero vigore durante la Rivoluzione. Tra i tanti il più famoso rimase il «Bœuf à la mode» che per insegna aveva un bue vestito come una «merveilleuse». Era stato fondato nel 1792. Mostriamo una riproduzione di una nota del 12 aprile del 1817 di questo locale che, come ovvio e naturale aveva i cabinets particuliers, ed un suo menu in bianco stampato nella seconda metà dell'Ottocento.

Astraendoci dalle notizie storiche delle origini, noi possiamo sostenere che la storia dei ristoranti si dovrebbe fare sulla scorta dei loro menu. Abbracciando l'Europa, un poco di America, l'Oriente Medio ed Estremo, il Nord Africa, i Dominions, le Colonie ed altri siti e senza dimenticare che i Grand Hôtel hanno avuto i loro ristoranti e talvolta prestigiosi, ne verrebbe fuori un'opera imponente che, per quanto ci risulta, nessuno ha ancora osato fare. Un giorno potremmo osare noi quando riusciremo ad arricchire ancor più la nostra documentazione.

Si è accennato giustamente agli alberghi ed ai loro ristoranti. Abbiamo riprodotto un menu dell'Hôtel e Restaurant Rebecchino di Milano veramente importante per la data, 30 marzo 1882 e per le ricchissime portate a disposizione della clientela. E tra i vini compare un Mouton Rotschild allora ed oggi uno tra i più preziosi vini di Francia. È bene ricordare anche le «Liste dei Vini» che facevano ricca mostra di sé in genere sul rovescio dei menu dei ristoranti.

I due menu riprodotti, del ristorante A l'Ermitage [14] sul Boulevard Clichy a Parigi e delle Brasserie Wepler, hanno due ricchissime carte dei vini dall'altro lato. Tra altri menu esposti ne collocheremo qualcuno a rovescio perché ci si renda conto di una realtà che oggi è difficile incontrare nei ristoranti più rinomati e... costosissimi.

Tra gli antesignani esponiamo anche un menu dello Schweizerhof di Lucerna del 20 agosto 1871, illustrato da quattro vignette a penna che celebrano episodi di viaggio. Saltiamo a piè pari sino al 1938 con un superbo documento scritto all'interno in francese antico che celebra il XX Capitolo della Confraternita dei cavalieri «du tastevin».

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Alberto Cougnet e l'Italia
dall'Unità alla Prima guerra mondiale

A Milano in una bella casa degli Anni Trenta, ampia e luminosa, il professor Eugenio Cougnet parla di suo nonno Alberto. Alto, elegante, affabile, il professore è proprio quello che si dice un bell'uomo che, senza alcuna difficoltà, nasconde i suoi ottantanni già ben superati con un bell'italiano nell'esprimersi, con la gentilezza dei modi e l'entusiasmo per i ricordi della sua famiglia. Questi non mancano nella casa a confermare le parole del professore: mobili eleganti, quadri, oggetti preziosi, stampe e tanti libri antichi e moderni, e quelli del nonno: «L'Arte cucinaria in Italia» stampato da Wilmant a Milano nel 1910 e i due degli editori Fratelli Bocca di Torino: «I piaceri della tavola» del 1903 ed «Il ventre dei popoli» del 1905. Tre opere rare e, per la verità, poco conosciute: eppure sono un faro nella modesta penombra della nostra letteratura culinaria dell'inizio del secolo. L'Editore Hoepli nella sua «collezione» di manuali, pubblicò altre opere del Cougnet sulla scherma e sulla lotta libera.

Scorrendo settimanali e mensili dell'epoca ed in particolare la straordinaria «Scena illustrata», si possono trovare molti suoi articoli e saggi che trattano con garbo e acutezza, la cucina, il convivialismo, il bel vivere in società, gli sport.

Alberto Cougnet, un uomo importante: medico, sportivo, spadaccino, giornalista, scrittore, pubblicista e collezionista di molte cose, fu un antesignano della raccolta di menu che con cura e precisione mise assieme tra il 1880 ed il 1914. Alberto, nato a Nizza nel 1850, era figlio di Carlo, nizzardo, un personaggio che profuma ancora di Risorgimento per aver lasciato, raro esempio, la sua Nizza, dove ricopriva una carica al servizio dei Savoia, non riuscendo a sopportare che fosse stata ceduta con tutto il resto alla Francia. E ricordiamo che anche Garibaldi lo tollerò a mala pena.

Carlo Cougnet acquistò per ben L. 38.000 da certo Vergnani a Reggio Emilia, un villone che porta ancor oggi il suo nome e lì stabilì la sua residenza come dirigente dei monopoli. Dopo la morte di Carlo nel 1889, Alberto Cougnet che era rimasto a Nizza, si trasferì a Reggio. Un decennio più tardi, introno al 1900, stabilì la sua residenza a Milano. La villa fu venduta nel 1908. Oggi è del Comune di Reggio.

Anche Armando nato nel 1880, padre del professor Eugenio, non venne meno alla brillante tradizione familiare: entrato nella «Gazzetta dello Sport» come giornalista e poi amministratore, ne divenne proprietario nel 1909 ed è stato consacrato nella storia dello sport come «inventore» del Giro d'Italia in bicicletta [15]; e non è cosa da poco.

La sorte volle che la raccolta di menu, rara per quell'epoca, venisse affidata dal professor Eugenio a chi dava sicure garanzie di conservarla al riparo di scorpori e dispersioni. La collezione è contenuta in due grossi volumi, uno rilegato in pelle incisa in oro e l'altro in tela scura. Ne vien fuori una inimmaginabile testimonianza di vita sociale di quegli anni straordinari tra l'Ottocento ed il Novecento. Alberto Cougnet morì in Svizzera in una villa a Morcote nell'agosto del 1916. I suoi menu arrivano sino al 1914.

Scorrendo i due preziosi album, si passa da Milano a Torino ed a Roma, da Nizza e Montecarlo a Parigi e Londra e poi si incontra Venezia, Firenze, Reggio e Bologna. Si trovano documenti con autografi e ricordi; due sono firmati da Escoffier, il grande cuoco, in quell'epoca autorità indiscussa del Savoy di Londra; altri della Corte di Belgrado firmati da D'Amico, cuoco del Re di Serbia.

Non mancano importanti ricordi delle cene di Casa Savoia ed altri regnanti, di Vescovi, Cardinali, di ricevimenti di Capi di Stato ospiti nelle capitali straniere e persino uno, poco comune, che celebra negli Stati Uniti un gran ricevimento per la nomina del presidente Taft nel novembre del 1906: presenti millecinquecento persone che pagarono cinque dollari a testa, venticinque lire di allora, una gran somma; presente anche una incredibile scelta di champagne francesi, 32 per la precisione.

Questo d'oltre oceano e qualche altro provenienti da collezioni diverse, si possono vedere. Ed altri ancora che celebrano Capi di Stato. Uno è in seta acquistato ad un'asta a Parigi, ricorda la visita del Presidente. Ma ritornando alla collezione Cougnet, rileviamo che il quadro più sorprendente è quello delle memorie di incontri di spada e fioretto, di corse ciclistiche, uno di una tappa del II Giro d'Italia da Genova a Mondovì del 10 giugno 1910, di gare di cannoni-automobili, così venivano chiamati i motoscafi, di caccia e di un gran numero di convegni che celebrano fatti sportivi.

Abbiamo riprodotto il menu della tappa del Giro d'Italia ed un altro del pranzo in onore della Gazzetta dello Sport a San Remo del 6 aprile 1908. Vivande in perfetta successione in un ricco contesto culinario e gastronomico.

Il disegno è offerto dalla Casa del Grand Marnier ed entra nell'ambito della pubblicità alla quale abbiamo dedicato un breve accenno. Ne mostriamo un buon numero e tra questi uno del 22 gennaio 1902 in onore di Jacopo Gelli, amico del Dr. Alberto e come lui sportivo, spadaccino e collezionista di menu.

Jacopo Gelli è famosissimo per il «Codice cavalleresco» regole rigidissime tra gentiluomini per battersi in duello con onore che, per quanto si sappia, nei duelli che insanguinarono i parchi pubblici del nostro Paese, non sempre erano rispettate, anzi quasi mai. Fu pubblicato da Hoepli assieme a tante altre opere del Gelli che riguardano armi antiche, collezioni, insegne, motti di famiglie nobili e cose del genere.

In un manuale del 1904 dichiara di possedere circa duemila menu e dedica un breve capitolo all'argomento. Non ci è dato di sapere la sorte della collezione che, probabilmente sarà andata dispersa come sovente accade.

Molti documenti del Cougnet ricordano incontri di ogni genere in Italia ed all'estero, mostre, esposizioni, club riservati e sono una rassegna di contatti umani e sociali della nobiltà e della ricca borghesia di allora. Eccezionali quattro menu della società del Whist, ambiente esclusivo e riservatissimo della Vecchia Torino. Risalgono all"88-'89; per celebrarne l'importanza, li abbiamo messi in una cornice. Se si esaminano da vicino si scopriranno ricchezza e qualità di portate degne dell'ambiente dove venivano servite e dei raffinatissimi commensali.

Nella scia di tante «chicche» della collezione Cougnet, abbiamo allineato diverse testimonianze di vita sociale del nostro Paese a tavola nei ristoranti, nelle case, nei club ed in piacevoli riunioni. Nella scelta abbiamo avuto una certa predilezione per Torino ed il Piemonte da Giolitti... a Badoglio.

E riprendiamo ancora con Alberto Cougnet per rievocare un curioso episodio anedottico e ciarliero dei primi del Novecento. Tra la fine del 1907 e l'inizio del 1908, nel nostro Paese scoppiò una rivoluzione. Diritti feudali ed ecclesiastici da abbattere non c'erano e neppure una Bastiglia. Giacobini e sanculotti nostrani volevano solo mandare alla ghigliottina il menu scritto in francese. Dietro i rivoluzionari c'era nientemeno che il Re.

La ribellione al francese, lingua ufficiale e vincolante del menu, serpeggiava da tempo nella Vecchia Europa capeggiata da revanscisti e pangermanisti prussiani e fomentata da nikilisti attorno alla reggia dello Zar, mentre alla reggia di Belgrado già si scriveva in cirillico. Albione, tollerante, continuava a nutrirsi in francese accogliendo con freddezza un menu scritto in inglese che, sul continente, celebrava nel 1902 l'incoronazione dell'anziano novello Edoardo VII.

Mentre i Borboni delle due Sicilie, rara aves, prima che Garibaldi li sloggiasse, scrivevano i menu in italiano, malgrado le parentele e gli chef francesi delle loro cucine, i Savoia continuavano ad essere succubi del francese. Il resto d'Italia li seguiva, ma non del tutto solidale. La gente non scisci diceva, come Trilussa «ge m'anfisce» (che in francese vuol dire «Me ne frego») e compilava liste e minute in italiano non proprio esemplari, ma decenti. Rimasero invece pochi e sparuti i personaggi di rilievo di quello scorcio di secolo umbertino che tentarono di dimostrare il loro patriottismo letterario e linguistico sottraendosi al francese.

Troviamo menu in italiano trecentesco, in forbiti dialetti ed in latino, non sempre esemplare, dopo Merlin Cocai tutto era lecito, ma nelle maccheronee non si tradiva grammatica e sintassi latina.

I rari esempi sono sotto i nostri occhi. Uno che abbiamo riportato a piena pagina è veramente particolare. Il 25 settembre 1897 Si riuniscono a cena «... a mezza hora di notte» i bibliotecari ed i bibliografi all'Hosteria di Gioseffo Passero, tedesco. È stampato con caratteri antichi su carta fatta a mano e filigranata che rivela il retino della tela dove andava a formarsi il foglio di carta secondo la tecnica antichissima di Fabriano e di Pescia. In alto a sinistra è riprodotto un «legno» di un incunabolo francese.

A Venezia il 7 marzo del 1908 si cena in casa Finzi secondo una lista in veneto esemplare e si termina con il prosit, ormai austriacante. Si legge: «Felone chi manca Non si aspetta nessuno».

La Bastiglia cadde il 22 dicembre 1907 quando al Quirinale venne offerto un sontuoso pranzo ai generali comandanti dei Corpi d'Armata ed ai Capi di Stato Maggiore con il menu in italiano. La presenza di alti gradi militari fa pensare ad un vero «golpe» di stampo Sud-Americano. Si seppe che ciò era avvenuto «motu proprio» del Sovrano che già da tempo per il varo delle navi aveva fatto sostituire la bottiglia di champagne spezzata sulla prora, con lo spumante italiano.

Vittorio Emanuele III da qualche tempo si era già inquietato con i ministri della Casa Reale, con Ufficiali di Bocca, maggiordomi e chef, perché tardavano ad ubbidire nell'eliminare il francese che fatto curioso in fondo era la lingua del suo grande nonno e dei suoi avi. Un sollecito reale arrivò alla Crusca perché trovassero sostitutivi al menu ed a tutta la terminologia gastronomica francese. Così come la rivoluzione francese aveva cancellato i nomi dell'odioso calendario canonico. Che ci fosse lo zampino della Triplice Alleanza? Non si sta a raccontare quello che successe: il pissi-pissi dei salotti aristocratici piuttosto perplessi, i sussurri tra diplomatici assai preoccupati, i moti di piazza e le lodi sperticate della stampa per il Sovrano.

Si fece un gran discutere intellettuale tirando in ballo il Petrarca, Dante, Bembo, l'Annibal Caro ed altri illustri letterati. Una risposta evasiva del segretario della Crusca, professor Guido Mazzoni, rinfocolò le polemiche. Intervennero Pastonchi, Benedetto Croce ed Olindo Guerrini scrisse al riguardo una lunga lettera al Giornale d'Italia. Il Re decise «ex abrupto» che per «omnia secula seculorum», si doveva usare la «Lista». Cosa ne pensasse il Papa non è dato di sapere.

Grande fu l'impegno di giornalisti, teste fini, dirigenti di alberghi, cuochi, nobili, borghesi e popolani, per trovare una nuova parola che sostituisse l'odiato menu. Bref, i risultati: Lista, Lista dei cibi o delle vivande, Nota, Minuta, Distinta, Elenco, Gastronomia, Vivandonota, Vivandaio, Rinsegno, Eletta, Godenda... con quest'ultima si toccò il fondo. Spiritosi proposero: Incitatoria e Stuzzicosa. Un cittadino che progettò di mettere l'accento sulla «ù» di menu, fu tacciato di tradimento, coperto di vilipendio e costretto al silenzio.

Nella bufera il menu rimase fermo come la Torre Eiffel, il Colosseo e le Piramidi. Così come scomparvero Fruttidoro e Termidoro e tornarono i mesi canonici, scomparvero i neologismi e tornò il Menu, se mai con l'accento sulla «ù». L'intera vicenda ci è stata trasmessa per molte pagine e con dovizia di particolari e citazioni da Alberto Cougnet nel secondo volume dell'Arte Cucinaria in Italia.

Guerra e pace

Non diciamo nulla di nuovo affermando che le guerre sono distruttrici di beni materiali e morali. Tra morti, feriti, prigionieri, civili in fuga, città rase al suolo, cattedrali, musei e biblioteche in fiamme, strade e ponti sconvolti, ci sono anche piccole vittime illustri. Una di queste è il Menu, che del tutto isterilito, non riesce più a riprodursi. Lascia il posto ad una anti-materia, alla sua antitesi: la tessera annonaria. Disporremmo di una collezioncina di tali disgustosi documenti che, di preferenza, teniamo chiusa in un cassetto.

La guerra significa immediata rarefazione delle derrate e scomparsa dei cibi più fini e prelibati. In mezzo a simile desolazione non mancano satire ed ironie sul mangiare. Tre piccoli documenti ne sono la prova.

A Terezin, in un angolo sperduto del vecchio impero austro-ungarico, c'era un campo di prigionieri di guerra [16].

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Tra il '15 e il '18 ebbe i suoi sciagurati ospiti italiani; qualcuno in mezzo a tante miserie aveva salvato «humor» e buon gusto. Ne fanno fede due disegni ad inchiostro datati entrambi 1° maggio 1918 che non hanno bisogno di troppi commenti. In uno c'è tutto un dramma in un grande punto interrogativo, nell'altro una incredibile serie di portate degne, se mai, delle tentazioni di Sant'Antonio di Gustave Flaubert.

Da tutt'altra parte ci è arrivato un terzo disegno datato 9 maggio 1917 dove la magrezza del soldato è in stridente contrasto con la lista delle vivande che non può essere credibile. Si può riuscire a mettere assieme un certo numero di documenti che attestano che anche in tempo di guerra si è mangiato. Si tratta di modesti menu di alberghi, ristoranti e navi mercantili sotto la protezione di bandiere neutrali. Non meritano troppe attenzioni, mentre sono degni di rispetto quelli delle navi da guerra in tempo di pace. Non vi è nave che non abbia una sua storia.

Andiamo indietro nel tempo e guardiamo con commozione le memorie di pranzi e cene servite sulla R.N. Vittorio Emanuele, fregata a vapore in legno, costruita alla Foce di Genova e varata nel 1856. Dislocamento tonnellate 3126, potenza dei motori hp 1488. Nel 186o partecipò all'attacco di Ancona, nel 1861 a quello di Gaeta e nel 1866 alla battaglia di Lissa donde ne uscì tra le poche superstiti. All'epoca dei nostri documenti era adibita all'istruzione di ufficiali e marinai. Fu radiata nel 1900.

La R.N. Sardegna era una corazzata in acciaio, dislocamento tonnellate 1389, macchine hp 17.490. Costruita a La Spezia nel 1890, entrò in servizio nel 1893. Partecipò alla spedizione di Candia, che noi chiamiamo Creta, nel 1896 ed ancora nel 1905. Prese parte alla guerra di Libia ed alla guerra mondiale. Quando era ancorata nella profonda baia di Suda a Creta furono serviti i pranzi consacrati da alcuni menu. Documenti unici più che rari del 13 e del 19 marzo del 1898 a Suda che ci fanno rievocare la storia dimenticata dell'intervento interalleato di Italia, Francia, Inghilterra, Germania, Austria e Russia per sventare il pericolo di un conflitto greco-turco e pacificare l'isola dopo la rivolta contro i dominatori mussulmani...

A Suda, sulla costa Nord dell'estremo Ovest dell'isola, si stabilirono le forze navali italiane. Il 25 aprile del 1897 era sbarcato un nuovo corpo di spedizione costituito dall'8° Reggimento bersaglieri, un battaglione del 36° fanteria, un battaglione del 40° fanteria e uno del 93° fanteria, e l'ottava batteria di montagna per sostituire i marinai già da tempo di stanza nell'isola. Certe decisioni di allora possono anche apparire più spicce e determinanti di quelle dell'Onu di oggi.

Abbiamo un buon numero di menu della «Carlo Alberto», nave da battaglia di seconda classe di tonnellate 7170 lunga 99 metri e larga 17 con motori da hp 13.219 varata a La Spezia nel 1896, armata di molti cannoni e lanciasiluri. Su quella nave, vicino alla torretta corazzata che a poppavia chiudeva la stazione radio, fu incisa una targa: «Oggi, 2 giugno 1902, Guglielmo Marconi onorava di sua presenza questa regia nave ancorata davanti a Pola, inaugurando il primo campione del nuovo ricevitore magnetico «detector» da lui inventato e donato alla «Carlo Alberto» che, prima di tutte le navi del mondo, ne constatava il funzionamento in mare».

Frammenti di vecchie notizie, cose da nulla di fronte al nostro mondo zeppo di missili, satelliti, aerei supersonici, sub atomici, elicotteri, porta-aerei, computers, mali incurabili, inquinamenti, assetati, affamati, terroristi, perseguitati e genocidi. Eppure la storia è proprio fatta di frammenti dimenticati che mai ci saremmo sognati di mettere insieme senza l'intervento di insignificanti cartoncini. C'è una certa fatalità, in un frammento che sembra irrisorio, di una storia recente, ma ormai perduta nel tempo: un incontro a tavola in tempo di pace, preludio di guerra. Caviale ed aragosta in bella vista, bianco di cappone e l'ambrato colore dell'Orvieto secco nei calici di cristallo di Palazzo Venezia, a nulla valsero per creare armonia tra i due commensali.

Sir Antony Eden, sottosegretario al ministero degli Esteri inglese e S.E. il Cavalier Benito Mussolini, Capo del governo italiano. La data è del 24 giugno 1935, XIII naturalmente, ed in alto si legge: «Il Capo del Governo al Ministro Inglese Eden». Dobbiamo rendere grazie dell'annotazione all'amanuense di cui non conosciamo il nome, ma che risulta assolutamente veritiero ed attendibile.

Un funzionario dell'Hôtel Excelsior di Roma, che faceva i servizi ai ministeri ed a Palazzo Venezia, mise insieme una documentazione eccezionale del «Ventennio» a tavola: sono oltre trecento menu messi in bell'ordine su fogli di un grosso volume rilegato in tela nera. C'è tutta la Roma fascista.

Eden, che aveva già avuto frizioni con Mussolini nei giorni precedenti, uscì dalla colazione rosso in volto e flemma inglese permettendo, sull'orlo della collera. Era comunque accigliatissimo e se ne partì subito per Londra dove iniziò a tirare le fila alla Società delle Nazioni per impedire all'Italia libertà d'azione in Abissinia.

In breve: tre mesi dopo la nostra colazione, il 3 ottobre 1935 le truppe italiane passano il Mareb ed attaccano l'Abissinia, il 18 ottobre entrano in vigore le sanzioni economiche contro l'Italia. Si consacra l'avvicinamento di Mussolini alla Germania Hitleriana. Quali furono le conseguenze tutti lo sappiamo. La documentazione raccolta con metodo e precisione nell'album di tela nera, rivela che dal giugno 1935 il numero dei visitatori ufficiali tedeschi a Roma crebbe in modo impressionante visa-vis di una costante diminuzione di ospiti illustri di altri Paesi europei. Il maresciallo Goering, chi ha vissuto l'immediato dopoguerra lo ricorda impiccato, già cadavere a Norimberga, era ben accolto a Roma e due cartoncini ne fanno fede.

L'«osé» a tavola

La Gola e la Lussuria, sono due peccati capitali imprescindibili del vivere umano. Qualunque sia il pensiero canonico, ci sembra giusto insistere: infatti in mancanza dei due peccatacci, l'umanità si sarebbe da tempo estinta per esaurimento e mancanza di successori. Detto questo in due parole, mentre si potrebbe scrivere un trattato documentato ed illustratissimo, osserviamo che tra i due peccati capitali sovente si manifestano collusioni e reciproci compiacimenti e compromessi. E chiaro che anche tale affermazione meriterebbe ampie spiegazioni, ma noi restiamo nel nostro campo, limitandoci ad un breve accenno ai menu «osé» dove l'illustrazione è affidata al galante e persino al pornografico.

Abbiamo documenti illustrati secondo l'ultimo appellativo: li teniamo in custodia sotto chiave, con tutta la tolleranza per le esuberanze; d'altronde il menu è proteiforme: ad esempio una volta ci sfuggì per un pelo un lottino di menu macabri: erano cene e festini dei becchini di Parigi! La galanteria è più gratificante persino quando supera certi limiti che ci hanno costretti ad intervenire come per certe statue vaticane, con una canonica foglia di fico.

Senza veli ci godiamo in piena libertà la Marianna, cioè la Francia sottoposta alla «divina siringa» detta anche «Instrument Molière». L'immagine è presa a prestito da un quadro di Jean Fréderic Shall (1752-1825) «La femme de chambre complayante». È del 22 aprile 1934 per «Les Batons De Chaise» consorteria che ha scelto l'«osé» come bandiera. Ci sembra giusto mettere la faccenda in rilievo perché il «decreto legge» da un trentennio fa la medesima operazione in Italia su persone altrimenti chiamate secondo i casi: cittadini, elettori, soggetti fiscali, evasori. I menu francesi di questo genere sono la spiegazione del «perché» nonni e bisnonni andavano volentieri e da soli a Parigi. Da noi c'era troppa noia e perbenismo, ed avevano tutte le giustificazioni per le scappatelle che non hanno mai fatto male a nessuno.

Assolutamente chiaro il «Diner de la Cronique amusante», un messaggio senza equivoci ai nostri antenati libertini; mentre è garbato quello delle donnine che scendono le scale con le gonne appena sollevate.

Di carattere decisamente allusivo l'illustrazione del «Cornet» del 20 maggio 1938 con una gentile ospite poco vestita che mangia gli asparagi, mentre «Il Cabinet particulier» fa vedere maschi in marsina e camicia dura in preda ai capricci di fanciulle allegrotte.

Il 24° Diner de «Les Batons de Chaise» intitolato «Le saphisme» non lascia dubbi nel far notare gli imbarazzi che seguono certi rapporti particolari.

Il 108° Diner del «Cornet» del 1907 mostra in una garbata sanguigna un seno capriccioso ed un signore intento ad ammirarlo; quello del 331° del 1937 è gratificante nel mostrare un corpo nudo di fanciulla ben in carne che esce dalla Terra; il disegnatore lo ha dedicato alla grande attrice Cecil Sorel. Nessuno pensi che le nostre disponibilità stiano per esaurirsi: due rarità dalle foglie di fico cancellano ogni timore.

Il Diner de «Les Batons de Chaise» del 17 Gennaio 1933 dedicato all'«Amour ancestrale» è allietato da una formale protesta della consenziente damina del settecento e dal Duca intraprendente. «Les gastronomes a Necker» il 24 aprile 1933, danno un saggio dei versi del grandissimo Rabelais. Il gioco di parole è fatto per chi lo afferra:

Mais dist, il, équivocquez sur «A Beaumont le Viconte» Je ne sfauroys dist elle. - C'est dist il, «A beau con le vit monte»
Rabelais.

noi ci siamo fatti grazia della traduzione.

Quattro menu musicali coloratissimi ci dicono che «l'esprit de la fin du siècle» non si era ancora esaurito nel 1946. Con un pizzico di frivolezza e di quello che i nostri nonni chiamavano «eterno femminino» da noi brutalmente trasformato in «sesso», chiudiamo questa rassegna di carta stampa del passato, per lasciare spazio agli artisti contemporanei.

Contemporanei

I contemporanei dovrebbero attendere il futuro per avere una storia, ma tutti stanno continuamente dicendo che i tempi cambiano e che la storia ha fretta perché ci corre addietro.

Noi siamo già nella storia dell'arte quando parliamo di Jean Cocteau (1889-1963) che fu grande nel cinema, nel teatro, nella letteratura e non meno come disegnatore di gran gusto. Personaggio mondano esemplare del suo tempo, con Picabia, Satie, Max Jacob e Coco Chanel fece parte del «Boeuf sur le toit» e fece parlare di sé in tutto il mondo. Amava la tavola di qualità e classe ed il servizio ricercato di vivande sublimi. Fece qualche menu ed uno nel 1953 per il Grand Véfour al Palais Royal. Basta guardarlo per capire il suo buon gusto nel vedere il passato con gli occhi contemporanei.

Il Ristorante «La Colomba» a Venezia negli Anni 60 accolse una pleiade di pittori contemporanei che ciascuno a suo modo e secondo ispirazione si prodigò a schizzare, disegnare e dipingere menu fantasiosi che oggi, dopo solo vent'anni, sono ambiti dai collezionisti. Ne riprodurremo due, uno di Gentilini e l'altro di Mattieu [17], altri si possono vedere esposti in sinfonia di personalità colorate.

17

Il Menu di Marianna del 3 dicembre 1978 è stato concepito, cucinato e poi goduto per festeggiare proprio Marianna, figlia di Enrico Baj. Ventiquattro sono gli esemplari firmati a matita dal pittore; la firma a fianco «Roberta» è della signora Baj, mamma della bimba ed artefice in cucina assistita dallo scrivente, nonno di Marianna, che il giorno prima per una decina di ore preparò qualcosa come 250 lumache alla Borgognona. I poveri gasteropodi avevano vissuto per quindici giorni nella farina gialla e crusca. Stanchi di questa dieta monotona si erano chiusi nel loro opercolo per essere sacrificati alla tavola. Parlare di Baj artista non è qui il caso. Le sue mostre, i libri e articoli, le manifestazioni, riempiono le cronache. Stampa e critica ne parlano a ritmo serrato.

A noi spetta solo il compito di far notare che un artista di fama mondiale non disdegna di prestare il suo estro e la sua mano per illustrare quelli che possiamo tranquillamente definire tra i più prestigiosi menu contemporanei. Li possiamo vedere esposti.


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