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Disforia del nome
In Disforia del nome Lucia Gaddo Zanovello svolge un’indagine articolatissima sui rapporti intercorrenti fra vita vera e follia umana. Spossato e deformato e in rovina è lo stato della realtà dove l’Uomo diventa preda e “la voce vera smarrisce talora / nel distratto suono di un richiamo ambiguo.”.
L’opera è vasta, nessun perimetro di giudizio la soffoca, disonomie e disarmonie spesso sovrastano affetti e intelligenza, tutti i valori e le aspettative non trovano compimento. Siamo l’albero del Bene e del Male di cui parla la Bibbia all’inizio del “Genesi”. La storia di ognuno scorre “in rivoli di solitudini narcise”, l’azione è quel “dover fare per intitolare le date della storia”. Non ci sono regali, l’intimità è un fatto raro. Eppure o si è intimi o non si è nulla. Non ci sono regali se non qualche Surprise. Allora comincia ad aprirsi qualche pertugio, la coscienza di essere parte del poema immenso della Creazione, iscritto nella calligrafia di una foglia, sul profilo di un cane o di un cuore felino. La sorpresa è la ricompensa che ci spetta, una “luce che ripete altra luce / che innamora, ora come allora, / tornati densi i sensi...”. Ritroviamo l’anima solo se infondiamo alle cose senso e passione, altrimenti il nostro universo rimane ridotto a freddo congegno meccanicistico. La Surprise dura poco, poi tornano a ballare le “beffe amare”, anche nell’amore – tutto ritorna su scala minore – “e va dritta la corsa sulla lustra via della malinconia, / attraversa isole di sole / in cui s’addorme la ferita dell’esistere.” (pag.15) L’utilizzo delle parole è una registrazione continua e incessante del dolore profondo, il flusso riflette la lotta fra realtà e desiderio, il volume delle parole continuamente e volutamente rappresenta la struttura genetica complessa, l’itinerario è fra un groviglio di eventi e il cuore sospeso nel buio... È una piena di trame, che massacrano la vita, la mappa segna i punti possibili in cui ritrovarsi, ma sono pochi. Non c’è nessuna riduzione della Scala, tutto viene alla scoperto nella sua dimensione brutale-reale, mantenendo intatta la lotta sangue a sangue con la realtà, riflettendo la madreperla delle cicatrici sulla pagina... Fino al lento mutamento, tardi / ma non troppo, quando la rotta / ...per l’urto e per l’abbrivio / può cambiare”. Allora D’infinito sguardo dilata il raggio, prima di cadere dalle spalle del monte. Il senso e i sensi riprendono le vibrazioni, i palpiti, i valori. Ecco allora le parole come: fiamma, amore, sbocciato fiore, segreto andare, legàmi, compleanni ... “e gli eventi presero a chiamarsi / dalle opposte sponde della luce. // La riarsa attesa iniziava a dire piccole frasi. // Si moltiplica il seme dell’amicizia / e si innesta il dono nel profilo denso di un nuovo viso”. (pag.35) Ed è il Compleanno del bene, del buono, delle convergenze: “Ama la gente il nido / che riapre il telo buono della notte.”. L’inconscio poetico rallenta il suo fragore, il suono della parola rigenera, non angoscia, tutto si ricompone nel benessere e nell’ordine. L’Uomo attinge agli atti lirici della Natura, all’amore, alla maternità, alla paternità, a tutti i sentimenti che perdurano come “ aurora nuova prora a solcare onde / alte del fatto giorno blu sul tratto ancora / che resta di una vita, questa / che perdura”. E “Tutta l’attesa delle zolle / ascolta la preghiera silenziosa della luce / che alberga pellegrina / sulla coltre cilestrina della brina”. (pag.44) Ma le divergenze ritornano e inevitabilmente sono come “rotaie aperte dalle abitudini”. Poesia chiave del florilegio è “Divergenze”, dove c’è il mosaico della vita vinta, con lo slittamento dell’uomo nelle contraddizioni ...”finché falda d’alba rosa / rirespiri luminosa ...”. Concludendo. Sono stata molto toccata da Disforie del nome, ho cercato di leggerlo lentamente, con tutta la dolcezza possibile per non essere travolta dalle onde fisiche delle parole: mi sono tuffata in questa scrittura graffiante dove non c’è spazio per il silenzio, ho rivissuto l’identità di vittima, mi sono chiesta: Dov’è la forza del predatore? Del predatore giusto, quello che uccide per vivere e non per vendetta. Ho riattraversato con Lucia G.Z. le vie del tradimento, il senso delle piccole morti quotidiane, ho pianto di sconfitta, una sconfitta tremenda che ha la forma della spirale mortale. Perché una poesia così cruda, sentita nella sua radicalità più dolorosa e rapace, e che avrei una volta evitato di leggere, adesso, alla fine, mi fa stare bene? Mi sono risposta che, forse, qui c’è la poesia come counterpart, ossia l’equivalente, la copia, il reale duplicato del dolore insito nel soggetto, senza alcuna finzione, l’atto predatorio è nella parola come esorcista del male, che così non è più un datum fisso verso cui siamo tenuti a sottometterci a qualunque costo, ma un postulato, il quale fornisce la spiegazione di determinati fatti per ricostruire altre teorie/speranze. Riporto una frase del filosofo californiano Josiah Royce, che ha scritto: “ La nozione più profonda che noi abbiamo del mondo si fonda sull’intuizione o sul postulato che esso deve esserci: non una semplice causa delle idee, ma una counterpart di esse.”. Il postulare secondo Royce non è dunque una semplice pratica soggettiva, ma è un pensiero che ha insito in sé uno scopo, scelto deliberatamente dal soggetto in una dimensione che si potrebbe definire con Oppenheim di “un costante rispetto per l’obiettività”. Lucia G. Z. ha scelto di postulare l’idea della “Disforia”, cioè dello stato umano angoscioso e tale atto di volontarismo qui è stato rispettato, responsabilmente proiettandolo tutto in una dimensione obiettiva. La parola, con la sua forza d’artiglio, diventa l’espressione cosciente “...dell’anima che attende / la sovranità del sole / nel reticolo dei paesi dell’uomo / e sul volo solo / dell’aquila del nome”. Volano, 28 settembre 2014 |
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