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Il cantare delle mie castellaSul castello di Verona / batte il sole a mezzogiorno … (Carducci, La leggenda di Teodorico). Molte volte c'è un castello al principio di un racconto, storia o leggenda che sia. I luminosi ottonari carducciani sembrano fatti apposta per dimostrarlo, esemplarmente. Si tratta di un genere – la novella in versi – che i poeti romantici di primo Ottocento pretesero di resuscitare, rifacendosi ai cantari popolareschi delle nostre origini.
Ecco allora l'autore, incurante di sembrare rétro, andar in cerca, con filologica passione, di figure ed rpisodi, ora famosi ora meno conosciuti, legati comunque al mondo dei castelli, tra feudalesimo ed età comunale. Eccolo, con abilità notevole di versificatore “romantico”, rievocare quelle vicende, restituire vita ai fantasmi di un'epoca, i quali poi disvelano assai spesso, benché amplificati dalla dimensione epica del canto, pulsioni e passioni, comportamenti e ideali e del tutto analoghi all'oggi: positivi o negativi non importa agli effetti dell'arte, né alla voce del narratore. Il titolo stesso della breve raccolta ci suggerisce il senso di questa originale operazione letteraria, nata e mossa da un sentimento di identità e di amore (le mie castella). Il libro comprende cinque novelle, legate alle memorie e alle atmosfere di altrettanti luoghi del cuore. Si spazia dall'Appennino tosco-emiliano al Veneto, da Lucca e Siena a Bassano, da Oramala nell'Oltrepò Pavese a Canossa. Si va dai ruderi delle Moiane alla intatta Rocca Stellata di Bondeno. Ogni novella è introdotta da un'immagine fotografica del luogo, accompagnata da una essenziale didascalia. I versi sono canonici ottonari, qui riuniti in strofe di quattro; a differenza però delle quartine ottocentesche, troviamo solo due versi in rima (il secondo e il quarto), mentre il primo ed il terzo ne sono liberi. Tuttavia, l'ultima strofa di quattro novelle su cinque presenta lo schema aabB, con l'ultimo verso che si distende nel ritmo più ampio dell'endecasillabo. I temi evocati sono il sacrilegio e la punizione divina, immediata e sconvolgente; le ambizioni e le lotte di potere; il pentimento, il perdono e il miracolo; l'amore, il tradimento, la vendetta e la morte: tutto il campionario dei grandi ed eterni sentimenti umani, adeguatamente collocati su sfondi drammatici e foschi. L'autore appare immerso totalmente nel suo mondo poetico, a suo agio tra quei lontani fantasmi; e ce li propone con una scrittura che a volte tocca i vertici della perfezione, nella semplicità e nella essenzialità delle parole che sa trovare, ad esempio per suggerire la prassi del cinismo politico. Così si esprime lo spettro di Obizzo d'Este di fronte a quello del Barbarossa, già suo alleato e poi avversario: Chiesa e Impero mi studiavo / a vicenda frequentare, / nell'ufficio seguitando / solo il mio particulare, // ché conviene si pareggi / nel governo della gente / con la forza del leone / la prudenza del serpente... In due quartine, una lezione di sempre vivo machiavellismo. Analogamente parla chiaro Matilde di Canossa, sebbene ormai anziana e sinceramente pentita dei propri peccati. Sono ricordi, parole pensate nella propria mente: Prega, e torna la memoria / alla bella giovinezza, / ove ad arte manovrava / la ragione e la bellezza, // quando per le insane voglie / rese docili al suo sguardo / in età virile Enrico / e Gregorio da vegliardo... In quanto donna di fascino, Matilde disponeva di ulteriori armi per trionfare nei giochi del potere. Sono brani dai quali, con pochi tocchi sapienti, l'autore (che è psichiatra) sa far emergere anche la psicologia politica del tempo, o forse di tutti i tempi. |
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