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Stramenia
Nelle liriche di questo suo
più recente libricino (di sole nove composizioni), Lucio Zinna bada ad offrirci
il versante più intimo di se stesso, filtrando le incomprensioni (illusioni?)
esterne col totale affidamento alla pura forza della poesia, come cerca di
specificare lo stesso poeta nella “quarta di copertina”, ritoccando i tasti già
messi a fuoco in una lontana intervista datata 1986: «Considero il ‘far poesia’
un mezzo per capire il mondo e nel contempo tenerlo a distanza e una sorta di
fendinebbia nei condizionamenti plurimi che la vita ci impone. Un modo (e ‘modus
vivendi’) per mantenersi vigili nella tutela del nostro nucleo più
autentico…». Così in “Guglielmo o della sognagione”: «Ogni attimo è propizio a
sprigionare | impulsi da una forza minimale | recondita. È sempre tempo di
semina | perché è perenne tempo di crescita. || […] Non c’è chi non sappia (come
l’adagio | recita) quanta tempesta colga | chi vento ha seminato | ma a seminare
grano si raccoglie pane. | E chi – come l’agricola soale – | coltiva
sogni raccoglie poesia | alto fusto della speranza.» (Guglielmo è il poeta
palermitano Guglielmo Peralta, suoi sono questi neologismi, di cui soaltà
è un composto di ‘sogno’ e ‘realtà’; sognagione invece rappresenta
un’ideale ‘seminare sogni’).
La poesia, che non ha
mai perso la sua vena dialettica, appare adesso più uno scavo interiore, uno
svisceramento delle profondità recondite dell’anima in cui Zinna tenta di
scavalcare le ‘mura’ ottenebranti della realtà per riuscire finalmente, senza
disturbi esteriori, a guardarsi dentro: è il rigetto del mondo a permettere
l’indagine interna: «Quante volte i versi frugano | nell’anima si incuneano
| a
carpirne vibrazioni | a leggerne il reticolo di pieghe | in incognite
chiromanzie.| Altre volte è lei – l’anima – | a evadere | da sue
in-controvertibili eternità || e sbirciare tra le parole | latitare nei sintagmi
| e con tangenziali sguardi | involare squarci di presente | tentando di
fermarli.» (Da “Squarci”)
Oppure: «Il bello della poesia – da vivere | non solo da scrivere
– risiede anche | nel grattare il similoro. Che versi vuoi | si distillino da
un’umanità | interiormente blesa che sfalsa l’essere | e salva l’apparire.
| Se
l’acqua assume forma della brocca | questa trova senso nella sua liquida |
presenza. Vuota sarebbe un’opzione | o un malinconico soprammobile che altro.»
(Da “Mutare in pendici”)
Sono questi i versi di
un “rifiuto della resa”, dove il poeta sente svilirsi il chiarore della vita e,
inerme, tenta d’opporsi all’inesorabile cadenza degli eventi. Quest’opera «[…]
può paragonarsi allo spartito di una suite in cui si alternano motivi ora
memoriali ora d’introspezione, poetica o spirituale, dominati da una tonalità
bassa, ma vibrante e luminosa: un po’ come quel pulviscolo invisibile nell’ombra
della camera, che quando attraversa un esile raggio di sole per un attimo
s’indora, per vanire ancora nell’ombra.»
(Marco Cipollini,
L’ultima raccolta di Zinna. Pro manoscritto, aprile 2010).
«[…] Tutto ho temuto non solo caldo e freddo | e a tutto ho resistito ogni
volta ho preso | il coraggio non so dove – a due mani | si dice – e fattone
quanto se ne poteva | anche palle di neve a esile difesa | luminarie volanti
scagliate | con la spavalda cautela di chi vuole vivere | e la resa rifiuta per
quanto disarmato.»
(Da “I giorni della merla”)
Solitamente in poesia,
quando il dettato tocca le punte del monologo interiore con un ‘altrove’, questo
pensiero, poiché si rivolge quasi sempre a persone scomparse care al poeta, è
facile inneschi un circuito patetico (si ricordino, ad esempio i modelli, già
classici, foscoliani e carducciani) che finisce, in certi casi, per svilire la
qualità della composizione per eccesso di sentimentalismo. In Lucio Zinna matura
invece una certa visione universale di tale altrove, che suggerisce il
rivolgersi ad una totalità dei defunti per stabilire un esile filo che possa
sondare le “alte sfere celesti”, esaudendo una richiesta d’aiuto lanciata da chi
si trova ancora ‘intrappolato’ in questo mondo: «Ormai i molti
sono gli scomparsi | dal mio globo e non so che velo | li
ricopra quale vento sottile | sussurri tra ora e allora tra qui e dove –
| dove – come
grido sommesso. || Dove siete se ancora siete chi vi cela in quale | cielo
vi vela sotto quale vela navigate per quali | onde galattiche chi vi impedisce
di lanciare | un amo o di agganciarlo oltre le nebbie | del ricordo se ancora in
voi albergano ricordi. | Siete il mio popolo disperso nel gorgo | del tempo la
mia diaspora in profondità.» (Da “I molti e il loro altrove”. Si noti
l’iniziale derivatio-variatio fondata anche grazie alla doppia accezione
(verbale e sostantivale) che assumono i termini “cielo” e “vela”.)
Se, in precedenza, la
figura divina appariva distante («Tu stai sempre lì in calici d’oro»), adesso si
delinea una sorta di “sfuggenza umanizzata” che sembra suggerire una vana
ricerca, prospettando piuttosto una presenza terrena ma, allo stesso tempo,
inosservabile del trascendente: «Sarà capitato di muoverci | nello stesso
quadrilatero… | […] avrai finto di non vedermi | (in attesa di un cenno mio)
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non ti avrò riconosciuto | immerso nell’attimo venturo | o distratto
dall’avvenente incedere | di una ragazza quasi avessi ventanni. || Le chiese mi
narrano di te | in suggestive atmosfere | ne salgo i gradini speranzoso | li
discendo deplorando mie | insensibilità (mi paiono luoghi | d’intimo colloquio
per chi con te | è già in confidenza). | Ti ho cercato al trancio di patimenti |
in bidonvilles e nosocomi | eri passato da lì ti attendevano. || […] Ti
cercherò ancora dentro di me | come in piazza in ora antelucana | quando non
transita anima viva. | Ti scorgerò prima o poi | e un sorriso leggerò nei tuoi
occhi | ora che si appannano i miei.» (Da “Da qualche parte”) Ancora una volta
il tribolato tentativo di un abbandono fideistico lascia scoperta la soglia del
dubbio.
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Recensione |
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