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L’ironia nell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna

“Timeo danaos et dona ferentes”, disse Laocoonte quando i troiani trainarono e lasciarono sulla rocca di Troia il famoso cavallo greco.

Avrebbero voluto abbandonare – abban-dona-re –, lasciar perdere per sempre i dona dei Danai.

Il poeta Lucio Zinna, mazarese di nascita ma palermitano per adozione, vuole lasciare, invece, per sempre, – abban-dona-re i dona di Troia: “Abbandonare Troia”, infatti, è il suo ultimo libro di poesie (Forlì, ed. Forum/Quinta Generazione, 1986, con presentazione di Raffaele Pellecchia).

Troia, qui, è l’essere-dato-città-Elena, la città che lo realizza, lo concretizza, lo determina, lo derazionalizza, capovolgendone il rapporto funzionale con l’uomo che l’abita: la città messa in atto, in essere, per servire l’uomo, ha finito per inghiottire e stritolare l’uomo che l’ha creato.

Il meccanismo delle strutture e delle sovrastrutture, che avrebbe dovuto essere un servomeccanismo, ha finito per rivelarsi una agghiacciante creatura stritolatrice del suo artefice.

Un balenìo, un’osservazione, un tema, una parentesi-riflessione, e il poeta-Menelao, che era partito alla conquista di Troia-città-Elena, appena ritorna dall’attacco, ri-appropriatosi di Elena e ritornato in patria – in se stesso – è preso dalla malinconia della realizzazione e dalla nostalgia del non -essere-ancora realizzato,ma già presente lì dove dallo “smascheramento” emerge all’orizzonte “un’utopia di nome libertà.| Uomini e idee andare sicuri nel mondo. Una possibile | Utopia...” (p. 37).

Troia è una metafora dell’essere-dato-città-Elena, dal quale il poeta si allontana con un lucido distacco. Il distacco a sua volta si articola per sinèddoche, metonimia e anche attraverso la chiave poetica dell’ironia-interrogazione, che è sottesa e regge tutta l’architettura dell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna. (Vedi L. Zinna, di II ponte dell’ammiraglio e altre narrazioni, Palermo, Romano Editore, 1986).

Non è azzardato, a questo punto, dire che l’essere poetico è anche un essere sofico e filosofico, trattato in chiave poetica, che conosce tutta la carica dell’inquietudine della filosofia contemporanea dell’“erranza” dell’essere, in cui lo scarto tra l’essere e il dover essere è messo in luce e provocato dall’ironia.

Un’ironia socratica, kierkegaardiana, romantica?

Un’ironia soprattutto conoscitiva, provocatoria, pro-gettata in avanti, comunicativo-progettante, indagatrice, che altrove, nel parlare del suo Il ponte dell’ammiraglio e altre narrazioni, ho definito euristica ed ermeneutica, creativa di nuovi sensi, valori, per un essere del mondo e nel mondo diverso e alternativo, da “impegno”, liberante.

Da dire, qui, che l’ironia, come processo meta-forico, nel testo Abbandonare Troia del nostro poeta – dotato di coesione poetico-semantica e di coerenza-poetico-tematica, anche se diviso in diverse sezioni – non agisce da tropo di sostituzione semiotico-intralinguistica delle parole sull’asse paradigmatico, ma come figura semantica che, giocando sull’asse sintagmatico della contrarietà della combinazione delle parole, coglie il senso della relazione lingua-mondo-essere nel con-testo, e in esso si fa discorso di verità e informazione.

E qui, legando le due opere, con maggiore certezza posso riconfermare quanto già detto a proposito de II ponte dell'ammiraglio: il gioco sulle parole, l’uso del termine dialettale, carico di tradizione, di dissimulazione e simulazione, l’intersezione semantica non di singole parole ma di enunciati di osservazione, analisi, memoria, riflessione, i quali trovano il terreno propizio nell’ellittico semantico, nella risemantizzazione tonale e ritmica della composizione della parola che si fa discorso, sono la testimonianza più diretta e palpabile della capacità artistico-letteraria dell'ironia di Lucio Zinna.

Questa è la dimensione poetico-letteraria dei versi e delle “narrazioni” di Zinna che l’ironia, con la sua capacità di modificare la referenza logica e cosale univoca e lo statuto ontico dato, rafforza ancora di più attraverso la torsione della parola discorsiva e delle conseguenziali associazioni significanti di sensi che si vengono a produrre.

Torsione e associazione, queste, che alle parole fanno dire e il già detto del tempo come “fatto” e il nuovo che può scaturire dal fatto che il lettore è condotto a intra-vedere ciò che non aveva visto prima o che non c’era ancora o a rivedere la memoria della propria vita e delle proprie scelte.

“... Venti lire non erano | molte (poche neanche a quell’epoca) per considerare | nostra semenza...”, dice il poeta Zinna nella poesia Odore di Acetilene di Abbandonare Troia.

Qui, per esempio, l’ironia è lo scarto tra l’alto significato, quasi assoluto e puro, del valore di nostra semenza – legato, fra l’altro, anche alla memoria dantesca e il suo stesso deprezzamento legato invece alla misera somma di venti lire (non molte ma neanche poche, dice il poeta, considerata l’epoca) che ne profanizza e ne volgarizza l’altezza paragonandola ai semi di zucca, i quali sono gettati su una bancarella e rischiarati dall’odore grasso e violento dell’acetilene.

Se torsione e associazioni non facessero scaturire il novum, non si spiegherebbe quello che emerge in ogni verso e in ogni rigo: l’arricchimento semantico del referente extralinguistico o l’inveramento o la smentita di quello che Pellecchia chiama l’ordinario e il quotidiano sull’asse sintagmatico o delle combinazioni lessicali.

Questo dimostra che la capacità letteraria e poetica di Lucio Zinna di utilizzare lo strumento linguistico, con la misura e l’architettura di chi ha un habitus di “preziosa e ironica curiosità”, è di notevole fattura, e che l’impiego dell’ironia-interrogazione, indagine, euristica, ermeneutica, va oltre il soggettivo psicologico e il contemplativo nostalgico o disincantato del nóstos o “ritorno”, e che la sua poesia non può essere chiusa entro i confini positivisti dell’espressivo.

Nel significato dei versi di Abbandonare Troia, a parer mio, c’è la stessa posizione che ho rilevato in “Il Ponte”: Zinna guardiano-demiurgo del tempo, al quale strappa l’anonima e neutrale retta del chrónos, per intervenire sul tempo che è l’essere nel tempo, e il tempo è quello storico-culturale degli uomini con contraddizioni e lacerazioni che vanno superate qui ed ora (carica etica), e non quello generico quanto astratto dell’uomo altrettanto generico quanto astratto della meta-fisica umanistica vecchio stampo.

Il mythos della, mimèsi poetica di Lucio Zinna non può, quindi, che fondarsi sulla rappresentazione ri-descrittiva dell’essere, dell’oggettivo, e la sua comunicazione, chiaramente, non può essere affidata che alla “logica” alternativa del discorso poetico, dove la verità del vero e del falso non ha meno pregnanza di quella della logica scientifica, e l’impegno della verità ti fa obbligo dell’imperativo:

“Fido nella memoria. Altra funzione non v’è
che sia così cosciente così controllata così
di sé consapevole (Galluppi). Vigile memoria
di sconfìtta barbarie. Quando si vide il nero
proclamarsi luce ordine il caos quando la filosofìa
della morte violenta pretese gloria nei secoli
fu obbligo
e sacrifìcio – lo smascheramento” (p. 37)

Ma il viaggio della ricerca procede anche per altre direzioni:
“Venti lire non erano | molte (poche neanche a quell’epoca) per considerare nostra semenza.| Si sgranocchiavano serate blu | e nostalgie campestri un seme appresso all’altro” (p. 15); “(...) Ebbi | (mite-parsimonioso) permesso di venirti a trovare | per catilinarie coseni | covavo un desiderio impudico | che presagivo condiviso come quella strana malinconia | da stradivari (“lunga amicizia i patti chiari”...| ...e restituivi smarriti i miei protoromantici | tentativi sempre maldestri e tardivi” (p. 19); “Abbandonano gli uccelli l’anticrittogamica campagna. | ... emigrano | con celeste meridionalità e s’inurbano |...| stazionano sui rami con disinvolta discreta vucciria |...|... Levare gli occhi al cielo comporta | un rischio (anche per il tuo rimmel oh Maria la Giulia). | Sorge un’era d’urbanesimo ornitologico un pennuto | sessantotto si profila il meno – tirate le somme – | che potremmo attenderci” (p. 28); “Esistono le mafie ed i fascismi e sono planetari | sono mascherati...| |...| siamo un (generoso) popolo | di oppressi ed oppressori siccome in ogni particula | mundi ci coglie sino qui il montaliano male di vivere.|...| Per quanto mi concerne – Marina – ‘i mi son un che quando | il sole picchia ne riceve fastidio e non si abitua |...| secondo l’aspetto climatico-geografìco mi configuro uomo del nord (Sicilia mio nordafrica) né mi cale se tu – così soavemente lombarda – sia donna del sud (del sudeuropa intendo) – ” (p. 42).

Ma vale l’intera trascrizione, per la sua splendida fattura architettonica, di:

A volte qualcuno rimane:

"Di poesia mi reputo un antico drogato

(Iniziai per solitudine a quattordici anni
con spinelli in terzarima a sedici mi bucavo
versisciolti più tardi m'iniettai – quel tanto –
parolibere in esperienze neoformaliste)

Da tempo mi coltivo (solitario) la roba
non soffro crisi d'astinenza evito cauteloso
l'overdose

M'affratello ai clandestini della parola
ai tossicopoesiomani ai liricodipendenti

agli indifesi in più plaghe temuti dal potere
mentalmente perquisiti destinati a campi
di deconcentrazione

È canapa indiana la parola e cresce
in terra di libertà parola trasmutata
risignificata – vena musica fionda – era
in principio
sarà anche alla fine

(A volte qualcuno rimane accartocciato
in un angolo accanto a versiringa a volte
poeti si muore)” (p. 39).

Sebbene per estrapolazione, però, qui, debbo catturare l’attenzione su i Sessantacinque versi per il treno della Maiella di Abbandonare Troia: “S’annega lo sguardo tra roccia alberi e cielo |...|... Semideserto sfila a tratti | un paese aggrappato a una collina diruto |...| Piantare tutto...|... prima che entrino falsi cavalli abbandonare Troia |...| reinventarsi le albe e i tramonti |...| tu sapevi madre che la vita non mi avrebbe serbato | che sorprese...|... quando | il cuore avrebbe detto basta una mattina |...| Non poterti più dire una parola | e si bruciavano

i tuoi ultimi istanti |...|... e venne infine un urlo | di sirena per un viaggio – poi – senza ritorno.|...| Come l’Abruzzo ora | anche il Molise è trascorso – magico e sconosciuto – |...|... si corre...|... verso Palermo tradita moribonda | tra rifiuti e mostruosi palazzi dagli animati (dicono) | pilastri si corre verso il freddo glaciale coltivato | per secoli da un sole irridente permaloso” (p. 58).

Come ne Il Ponte dell’ammiraglio e altre narrazioni, pubblicato pressoché contemporaneamente ad Abbandonare Troia, il ponte è una metafora del viaggio, anche il treno che corre in Abbandonare Troia è un’altra metafora del viaggio.

È la metafora di un viaggio, di un osservatorio privilegiato, quello del viaggio-riscrittura intorno a “Troia”, a Palermo se volete, la Sicilia o qualsiasi altra Sudità o qualsiasi altro posto di questo pianeta, un viaggio, insomma, intorno all’essere del mondo, all’esser-ci che abita questa realtà.

È una metafora viva, non stereotipa, che appartiene al circolo eliotropico, in quanto il seme della luce-calore di cui il treno è portatore con i suoi fari, serve al poeta nel suo cammino di penetrazione-disvelamento, di attraversamento della dimora-città buia dei “palazzi dagli animati (dicono) pilastri” ed è legata a quell’altro, antitetico, della luce-freddo.

Il treno, come il ponte della nave, sono delle metafore che si richiamano per il comune sema di attraversamento. Sono metafore che hanno in comune l’antitesi (e vi convivono gli opposti della luce e del buio, del calore e del freddo, della quiete e del movimento) e risultano legate al circolo eliotropico nell’identico del viaggio; sono similmente legate all’altra metafora di richiamo comune: quella dell’allontanamento dalla dimora e del ritorno rinnovato.

Il ritorno, infatti, qui non è quello nostalgico e della riconciliazione con il passato, ma il ritorno-ri-appropriazione soggiorno nella nuova casa: abbandonare la vecchia Troia per “reinventarsi le albe e i tramonti” verso una Palermo dove da secoli c’è un “sole irridente permaloso”.

Il nóstos come nostalgia del passato, dell’infanzia perduta, sarebbe come quella “fanciulla” – l’arte – che, secondo quanto dice Hegel, non potrà mai i frutti ai rami dell’albero dal quale sono caduti. Poco importa se la ri-appropriazione ri-fondante della dimora, della città, è toccata dal “freddo glaciale coltivato”. Il freddo, infatti, a sua volta, oltre a mantenere lo scarto e la differenza non riassorbente tra essere e dover essere e a giustificare quindi il mantenimento infinito dell’ironia-interrogazione del poeta, appunto perché coltivato, perché “coltivato” dal sole, è terreno-fondamento-dimora ri-fecondato dalla vita-sole “irridente”.

Un sole che quando “picchia” e penetra non consente a chi n’è attraversato e illuminato (teoricamente) di adagiarsi sul dato, rinunciando alla “prassi” del poiesis, neanche se si trova davanti il muro delle maschere ideologiche.

Ora è in questi profondi legami con la nostra cultura, con la migliore tradizione poetica della nostra letteratura, che si nota e si apprezza la continuità e l’originalità del verso di Lucio Zinna, piuttosto che nel richiamo ironicamente invertito di stilemi, sintagmi, moduli classici.

Il verso e le strofe che costituiscono il testo poetico di Zinna scorrono sull’endecasillabo “libero” dell’enjambement ricco di ipotiposi, antanàclasi e di anàstrofe e di altri arti-fici poetici, i quali, oltre a sostenere la forza espressiva dell’andamento poematico, rinforzano anche il ritmo e la sua musicalità, legata, prevalentemente, alle consonanze, alle assonanze e alle alliterazioni.

L’antanàclasi, l’anàstrofe, e la posizione anomala, sintatticamente, delle parole, creano una certa positiva ambiguità, che destruttura i significati e i sensi dei lessemi e dei sintagmi cristallizzati senza per questo ostacolare la rappresentazione delle nuove informazioni e la trasmissione della loro comunicazione oggettiva.

Questa, infatti, ove risultasse trasgressiva per l’impertinenza sintattica, semantica, logica, come deve accadere in presenza del prodotto poematico dell’arti-ficio,del poiein, nel suo momento perlocutivo viene salvaguardata dalla presenza di costanti logiche, semiotico-grammaticali e tipografiche e di precisanti di referenza tematico-contestuale.

Le costanti logico-retoriche, che salvaguardano la comunicazione oggettiva e consentono la comprensione oggettiva del testo oltre il soggettivismo psicologico e indefinibile del lirismo solo “romantico” o espressivo, sono, per esempio, quelle della coordinazione e della subordinazione logica sottese, rispettivamente, la prima alla sinnedoche e la seconda alla metonimia.

L’anatàclasi, invece, che consiste nella ripetizione di una stessa parola o nello stesso verso o in versi diversi con significato diverso, e l’anàstrofe o l’ipèrbato, che consiste nell’inversione o rovesciamento dell’ordine normale e abituale delle parole, salvaguardano l’accentuazione e il significato dei termini grazie alla posizione occupata sugli assi linguistici.

Le altre costanti, quali, per esempio, parentesi, incisi, ricordi, annotazioni di particolari, scandite dall’interpunzione, dalla segnaletica grafica e tipografica d’uopo, non solo vigilano sulla comunicazione e la comprensione del testo ma non ne appesantiscono, quello che più conta, gli esiti poetici.

Attento com’è, il poeta Lucio Zinna, all’uso di termini nuovi, vecchi e risemantizzati, rari e quotidiani – giusta la lezione di Majakovskij – e all’uso dell’interpunzione segnaletica, infatti, il «Piccolo» Lucio piega l’uso di queste costanti al fine del suo fare poesia.

Lo snodo dell’enjambement non viene turbato nella sua elegante declinazione dalla presenza di queste intermittenze parentetiche, furtive quanto delicate e ben inseriti artifici precisanti, i quali consentono invece una più lunga catena di associazioni e una ri-comprensione ri-costruttiva aperta dei testi.

Le parentesi testimoniano che il “flusso§” espressivo poetico e redazionale dell’autore non è uno scorrere automatico dei versi quanto piuttosto un attento lavoro di composizione costruttiva.

Un prodotto artistico-poetico, quello di Zinna, in cui l’«estranianamento» espressivo-comunicativo conosce l’intervento di una ragione-immaginazione poetica che demistifica, demitizza e rimitizza, svera e invera oltre la logica del vero e del falso rimanendo, tuttavia, nella simul-azione del mythos della mimèsi poetica deformante e trasfìgurativa dell’essere reale e possibile.

Ed è in questa azione modificatrice dell’essere demistificato, derealizzato e prò-gettato irreale-reale, in cui il soggettivo e l’oggettivo del mondo e dell’esser-ci si incontrano nella loro comune base materiale, che affonda la lirica di Lucio Zinna e non nel tradizionale e desueto lirismo soggettivo e dei “buoni” sentimenti.

Certo il “lirismo” è presente – non può non esserlo –: emozioni, ricordi d’infanzia o legati allo Scartabello Degli Attimi Invenduti, moduli linguistici vaghi e quasi smaterializzati o castrati, per dire dominati nell’irruenza della passione, lo attestano, ma la lirica di Lucio Zinna è anche e soprattutto nell’oggettivo del testo, sia espresso che inespresso, dichiarato o ellittico, perché gode di quel fare-dire poetico che utilizza artisticamente parole, sintagmi, stilemi che richiedono una materiale struttura portante, direi quasi scientifica.

Ciò fa sì che, scendendo dal livello tematico e simbolico, per es., del testo a quello ideologico e contenutistico, all’informazione e alla verità oggettiva, l’ironia-interrogazione di Lucio Zinna consente allo stesso poeta, nel momento dell’assemblage, per dirla con Raffaele Pellecchia, un “dominio dell’organismo formale” che accresce la resa poetico-letteraria e impedisce “una moralistica compromissione con la materia”, e con quel tempo-rosario (rosario è un termine molto frequente nei testi di Zinna) della città, dell’uomo con i suoi conflitti soggettivi e oggettivi, le sue aspirazioni alla massima libertà della verità e del pro-gettarsi.

L’ironia-interrogazione però, pur distendendosi, nel momento dell’“assemblage”, nel “dominio dell’organismo formale”, non impedisce al poeta l’uso di metafore (come, per esempio, “è canapa indiana la parola e cresce”) che vanno al di là del tradizionale lirismo soggettivo e dei significati circoscritti e chiusi.

Le metafore liriche usate da Lucio Zinna, infatti, sono anche informative e in continua espansione semantica, perché, attraverso il lavoro di torsione cui sono sottoposti concetti e parole, generano nuova conoscenze e sensi che diversamente rimarrebbero potenziali e nascosti nell’essere-possibilità.

Le metafore del nostro poeta sono portatrici di una risonanza che consente e legittima l’espansione di quella analogia contagiosa in base alla quale si colgono relazioni e corrispondenze non deducibili per sola via ipotetico-deduttiva.

Se guardiamo, per esempio, più da vicino, alcuni sintagmi metaforici come “si sgranocchiavano serate blu | e nostalgie campestri un seme appresso all’altro” della poesia “Odore di acetilene, e “... malinconia da stradivari... |” della poesia di “Il Bacio”, il nostro assunto risulta più evidente.

Le serate blu diventano ciò che non sono: semi da sgranocchiare con gusto; la malinconia diventa altra cosa che non è: stradivari. Questi cambiamenti e questi sensi, con tutto quello che le trasformazioni associative o identificanti delle metafore portano, possono essere operate solo dalle metafore vive che cambiano il mondo dato e il rapporto percettivo dell’uomo che guarda il mondo.

Lo sgranare, ancora, ci informa che il poeta conta e vaga: manipola ed enumera una realtà che per essere palpabile deve essere vicina e fra le mani come i semi e i grani di un rosario, e vaga nella lontananza simboleggiata dal blu delle serate in uno spazio-tempo immaginario da “nostalgia” vissuta quanto invisibile e irraggiungibile. Anche in malinconia da stradivari, la metafora ci informa di un dolce-amaro struggente, e che questo struggersi è quello di una lontananza, passato o futuro che sia, che è percepita, quasi fra le mani, mediante il quantitativo-qualitativo della fisicità delle vibrazioni sonore dello stradivari.

Anche qui traspare il contare e il vagare del poeta, il quale, così, riesce a ben sintetizzare la ragione-immaginazione e l’immaginazione-ragione. Lo struggersi, infatti, ci vien (rac-)contato attraverso il rapporto numerico dei numeri razionali, o frazioni, della chiave di sol, o di violino, che si esprimono nelle frequenze matematiche delle vibrazioni sonore; lo struggersi, inoltre, qui, ancora, ci dice che il poeta vaga in una dimensione sfuggente al calcolo, in quanto è magia di una musica in lievitazione e impalpabile all’orecchio e al digitale: è la dimensione in cui il contare della ragione è il limite del sogno dell’Eros e viceversa.

Le nuove connessioni, operate dalle metafore, modificano il mondo della datità perché introducono relazioni cognitive prima non esistenti e ora introdotte dalla parola-azione-essere o mythos della mimèsi poietica.

Non diciamo più che le relazioni create dal poeta sono meno reali e oggettive di quelle create dalla logica della matematica e delle scienze. Una relazione è sempre una relazione, un rapporto (forte o debole che sia, creato tra oggetti, simboli, forme, comunque richiamantesi) tra simboli e referenzialità, disciplinato dal dominio dell’analogia, il quale può arrivare all’identità o alle somiglianze più vicine o più lontane.

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