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Poesie sparse questo Abbandonare Troia
di Lucio Zinna che ora la Forum-Quinta Generazione ha riunite in volume
raccogliendole da riviste e antologie dove erano state precedentemente
pubblicate. Non quindi una silloge compatta che determini un particolare momento lirico-compositivo del poeta, ma vari momenti e tensioni datati dal 1977 al 1986
e suddivisi per sezioni in una alternanza perciò di date e occasioni ispirative.
Occasioni tuttavia riconducibili tutte
– al di là dell’apparente contraddizione – all’ultima lirica «Abbandonare Troia»
che dà appunto il titolo all’intera raccolta e stigmatizza quindi il pensiero –
anelito primo, e ultimo, dell’autore. Abbandonare la città amata prima che sia
troppo tardi, prima che «entrino falsi cavalli» a strapparle quel poco ossigeno
che le rimane. Fuggire il male forsennato del progresso e della violenza che
incombono e rifugiarsi «nel più remoto villaggio» dove ancora si possa
«Comprimere la fretta rallentare i gesti | reinventarsi le albe e i tramonti». E
torna splendida e terribile allora – in questa parentesi di desiderio di
«piantare tutto» cullato da molti di noi ma poi sempre scartato perché l’urgenza
del momento ci rigetta subito nel vortice ed è troppo difficile rinunciare a
tutto, dare un taglio netto ad una certa vita cui ormai si è abituati – la
memoria della morte quasi improvvisa della madre del poeta, la sua pena
d’andarsene lasciando un figlio «indifeso» mentre non sapeva che egli aveva
imparato a mantenersi un «nucleo intatto», «un osso di purezza», una freschezza
innata.
Su questa scia, pur segnate da una
apparente contraddizione – come si diceva – si dipanano tutte le altre poesie di
Lucio Zinna che sono sorrette, a differenza di Abbandonare Troia, da una
inesausta vis ironica dalle molteplici sfumature, quell’ironia appunto
che permette al poeta di risolvere e sciogliere il suo problema esistenziale e
convivere perfettamente con tutto ciò che potrebbe procurargli malessere e
disgusto; senza quindi dover abbandonare Troia. L’ironia dunque che scioglie
ogni contraddizione. L’ironia che permette all’autore di vivere e poetare
allineato con i nostri tempi, pronto tuttavia sempre a denunciare, irridere,
sferzare.
A questo ordito più o meno fitto, più o
meno lineare, più o meno teso si intreccia la trama di ogni composizione nata o
dal ricordo di un’infanzia ed un’adolescenza rivisitate attraverso odori,
accostamenti di immagini, attimi di abbandono solare o da momenti realmente
vissuti e poi dilatati nel riferimento storico, nella divagazione colta oppure
ancora nel ricordo o da meditazioni o meglio dal crogiuolo dell’anima che
avverte l’incompletezza di sé, che soffre, che arranca, che cerca sempre il
tutto sognato. Del resto scorre sempre tra le righe impalpabile ma ben
avvertibile l’ascendenza filosofica del poeta e la sua raffinata cultura. Il suo
linguaggio tuttavia, colto certamente sempre, sostenuto, ricco di riferimenti i
più eclettici, è anche il più attuale, il più vicino alla nostra era tecnologica
avanzata. Non può permettersi infatti il poeta – accanto agli slanci lirici – di
non misurarsi con il linguaggio specialistico d’oggi, anzi proprio i colpi d’ala
devono attingere vigore e credibilità da un terreno apparentemente arido ma che
nelle vibrazioni di un animo veramente poetico possono diventare lussureggianti
e di ancora più ampio respiro.
Sorrette sempre – lo si ripete – da
quel filo ironico che segue la traccia di ogni pensiero e di ogni immagine sia
coloristica che contemplativa che meditativa. Cosi la punteggiatura è ridotta al
minimo o meglio non esiste la virgola quasi il sintagma possa librarsi libero
per intrecciarsi a un altro sintagma o l’aggettivazione possa essere ambivalente
nella sua libera collocazione centrica e quindi nel suo significato a seconda
del gusto del lettore o della sua ricerca interpretativa. Cosi la suggestione di
un mitico passato, di dolci-ridenti pudori e primi ardimenti adolescenziali si
frantuma subito nella glaciale immagine dell’oggi in un’osmosi che se in un
certo senso aderisce ai nostri tempi contemporaneamente ne mette in luce il lato
alienante e parossistico.
Non a caso, del resto, la prima poesia,
scritta in corsivo, non datata, estrapolata dalle sezioni e quindi posta come
epigrafe o come discorso introduttivo e propositivo insieme, è «Il bivio». Il
poeta sa che non si può tornare indietro; sarebbe sciocco fare gli struzzi o
rinchiudersi in una sonnolenta torre d’avorio; e allora si, bisogna andare
avanti, allineati al tempo che si vive, anche con il mezzo espressivo, ma sempre
in avvedutezza, sempre con la coscienza chiara e la prontezza di correggere il
tiro, mutare la rotta, fermandosi al bivio e interrogandosi prima di riprendere
il cammino con consapevolezza senza mollare le briglie e lasciare che agisca il
caso o un qualsivoglia «Ronzinante». «Insisti stringi i denti» è il messaggio di
Zinna che percorre allora tutte le pagine dove già i titoli delle liriche sono
emblematici e ci riportano sempre a quel misto di adesione ai tempi nostri e di
contemporanea denuncia di un vivere corrosivo. «Resta la speranza di uno
squarcio | aperto nell’ignoto» tuttavia mentre la parola continua ad essere
necessaria «canapa indiana» e il fantastico cavaliere marino ci ricorda, nella
favola dolorosa d’oggi, che si devono ancora «custodire i custodi».
Una poesia vera quindi che si rifà al
passato per ricomporsi nel presente e tendere verso un futuro più lineare e
vivibile, sciolto dall’esigenza di dover abbandonare Troia.
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Recensione |
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