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Disforia del nome

Dalla lettura delle poesie della silloge Disforia del nome si intuisce con quanta intensità e urgenza Lucia Gaddo Zanovello sia alla ricerca del senso della vita. Nel tentativo di afferrarlo, pur essendo consapevole che l’esistenza è avara di felicità e colma invece di difficoltà, «disillusioni, distanze, negazioni, disgregazioni», indaga la realtà che la circonda, osserva con occhio critico l’agire umano e scandaglia il proprio “Io”. Ferma poi il proprio sentire e le proprie riflessioni su carta, dando vita a versi profondi, raffinati, complessi, in cui le parole sembrano grondare dolore, sprigionare graffiante fisicità e acquisire una duplice comunicatività, a volte limpida altre enigmatica, ermetica. Sono versi in cui non mancano latinismi, assonanze, consonanze, ritmi franti o intenso lirismo, come in questi della poesia D’infinito sguardo dilata il raggio: «Il naufragio di questo sole | che a lungo riemergeva fluttuando fra le nubi | nell’azzurro del sopravvissuto giorno, | ha dilatato d’infinito sguardo il raggio | prima di cadere dalle spalle del monte | dietro la scia di stella dei vibrati jet | che solcano i mari oceani della vita».

Nelle tre sezioni in cui si divide la silloge, Sine die, Disonomíe e In disnomine patris, Lucia Gaddo Zanovello descrive emozioni e stati d’animo intrisi di solitudine, rimpianti, sofferenza – «Tutto il centro vibra | del dolore di ciascuno, | chiodato d’attesa | teme la nullità della promessa || e l’insopportato viaggio nella vita» (p. 54) –; racconta visioni dell’inconscio; ricordi che scavano nel passato; abissi di buia malvagità nei quali l’uomo può precipitare fin dalla “infelice infanzia | di solitudine assoluta”; la fragilità, finitezza e sofferenza dell’essere umano: «Nel giorno che non c’è | quanta vita nasce e muore. || Quanta ne semina la voglia di bellezza | sulle macerie che adduce la vecchiezza. || La domanda che incalza | dal limbo delle solitudini | dell’abbandono | è perché non esista felicità | in questa terra di mezzo | paradiso per pochi | o per nessuno forse» (p. 53); «Di tutti e d’ognuno il tempo va | di molti battiti sprecati | nella vanità degli indugi, | nel buco nero delle parole non dette | che tutta la luce ingoia del nome» (p. 14).

Nella raccolta è palpabile pure il dolore dell’autrice causato dalla presa di coscienza della devastante azione del tempo: esso provoca infatti continui e inarrestabili cambiamenti, consuma cose e vita. E lei ora sa bene che l’uomo nel suo “errare d’orrore” sulla Terra non si può sottrarre al logorio fisico e mentale del tempo, tanto che a volte perfino il proprio nome gli diventa estraneo, nei versi di Fioriture scrive: «nulla resta di ciò che è, | si vede dai ricordi | che fluttuano perduti verso riva | nell’infinita risacca del tempo | che batte e ribatte a terra | nomi sorrisi e frasi benedette. || Con la marea delle solitudini avanza | la luce che spegne tutte le stelle | e i lumi della notte | nel fiore dischiuso | che scrive di fame e sete | la corolla».

Anche se i testi di questa raccolta sono caratterizzati dalla presenza di termini il cui prefisso “dis-” denota negatività (disonomia, disforia, ecc.), in alcuni di essi possiamo trovare spiragli di speranza. Pure dalla Nota dell’Autrice però si sprigionano tenui sprazzi di luce, che invitano ad apprezzare la vita nonostante le tante possibili avversità, nonostante la carenza d’amore, infatti afferma: «Non sempre e quasi mai la vita è storia a lieto fine, ma di certo e comunque è finestra aperta giorno e notte, invetriata luminosa che resta prodigiosamente spalancata sullo stupore».

Recensione
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