Servizi
Contatti

Eventi


La peste

Tre studi che analizzano il rapporto fra «I promessi sposi» e l’epidemia del 1630, una tragedia che ispirò pagine realistiche e commoventi. Manzoni: cronaca vera sui giorni del contagio. Lo scrittore narra gli effetti della peste a Milano meglio di ogni testimone oculare

Scendeva dalla soglia d’uno di «quegli usci...». La pagina dedicata dal Manzoni alla madre di Cecilia, che «portava in collo una bambina di forse nov’anni, morta», è, molto più di ogni descrizione storica, rappresentativa della peste che infuriò a Milano, e in altre parti d’Europa, nel 1630-31: un disastro demografico, biologico, psicologico, sociale, morale. «Voltatasi di nuovo al monatto – voi disse (la madre di Cecilia) – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me». La prosa manzoniana da, molto più di ogni spiegazione epide-miologica, la truce dimensione del contagio che rapì inesorabile la vita della madre e della figlia: «come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato».

La realtà immaginata dai romanzieri e dai poeti è a volte più «vera» della realtà narrata dai testimoni e dai cronisti. Peste e contagio: due parole, una paura. Peste, ha scritto il glottologo Giacomo Devoto, «dapes, radice indoeuropea antichissima, che significa soffiare»: un soffio mortale, opposto al divino soffio animatore. Contagio, ha scritto molto tempo prima Isidoro di Siviglia, «da contactus, perché inseminò chiunque l’avesse toccato». Se la peste era la morte, il contagio era il suo battistrada. Se non lo si evitava, si moriva. La sola risorsa per salvare la vita era la fuga: fuge cito, longe, tarde, «fuggì presto, va’ lontano, torna più tardi che puoi». L’aforisma della medicina veniva messo in pratica anche da medici che abbandonavano i pazienti, da preti che abbandonavano i morenti, da figli che abbandonavano i genitori, finanche da genitori (non dalla madre di Cecilia) che abbandonavano i figli. Salvare la vita spesso voleva dire perdere l’anima, abdicando alla solidarietà, all’altruismo, all’aiuto, rintanandosi nell’egoismo della paura.

L’impatto con la peste, quanto era biologicamente esiziale, tanto era psicologicamente traumatico. Come la fuga, anche l’aggressività era un comportamento reattivo, istintivo o inconscio, una reazione esistenziale alla paura e all’angoscia di morte. Ne scapitavano anche i «conservatori» della pubblica salute presso il Tribunale della Sanità, il vecchio protomedico Ludovico Sellala e il più giovane collega Alessandro Tadino. Sul finire del 1629, scrive quest’ultimo in terza persona, «essi avvisarono che veramente la peste era in Milano, e però dalla plebe n’ebbero villanie, e poco mancò non fossero percossi». Più esplicito al riguardo è il Manzoni: «Un giorno che (il Settala) andava in bussola a visitare i suoi ammalali, principiò a radunarglisi intorno genie, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia; lutto questo per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò (e toccò al Tadino) per aver veduto chiaro, dello ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone». Più di 70.000, ad andar stretti nel computo: la slima, in una Milano di circa 200.000 abitanti, serve a dare un’idea delle dimensioni della strage. Non si può negare che i due «conservatori» di una sanità cittadina tutt’altro che conservata avessero visto giusto. Per quanto condividessero entrambi la credenza, diffusa nella medicina del tempo, relativa all’«influenza» degli astri e credessero ambedue che congiunzioni astrali in questo o quel segno zodiacale fossero «inditio manifesto del futuro castigo della peste che Nostro Signore ci voleva mandare», è ben vero che contro suggestioni e superstizioni popolari essi si prodigarono a fondo, consapevoli che ogni loro sforzo doveva essere indirizzalo contro la trasmissione e la propagazione del «contagio». Però credevano ambedue nella realtà delle «untioni pestilente»: «tutta quella rovina fu dipesa dall’interesse maledetto del denaro», scrive il Tadino al riguardo degli «untori», attivi per lucro nel rinnovare e aumentare «la mortalità delle creature» onde favorire, nell’immane dissesto della città e della convivenza civile, le imprese di rapina e di sciacallaggio delle «robe».

Gli ufficiali sanitari, con in testa il Sellala e il Tadino, erano in prima linea sul fronte del contagio. Non erano i soli; né erano i soli a non fruire della fuga davanti alla peste. C’era anche l’arcivescovo, il cardinal Federigo, non solo padre-pastore del suo popolo, ma anche uomo di governo provvisto di una grande capacità di organizzazione. Nella Vita di Federigo Borromeo di Biagio Guenzati (che giace manoscritta presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano) leggiamo: «Tanto egli fece, gareggiando sempre col Tribunale della Sanità nel procurare anche dalla sua parte ogni opportuno rimedio per arginar questa piena di morte, in cui naufragava la vita di tante migliaia di cittadini». Nonostante qualche screzio fra autorità civiche e poteri ecclesiastici, in generale Chiesa e Stato trovarono il modo di collaborare attivamente contro l’immane flagello.

Anche il Manzoni vedrà il cardinal Federigo ergersi a padre difensore del suo gregge, capace di mutare il castigo di Dio in divina provvidenza, impegnato ad allontanare l’epidemica spada di Damocle incombente epì démon, «sopra il popolo»: figura emblematica del buon padre, in grado di alleviare l’esistenza umana dalla paura della peste, sia del corpo che dell’anima, e di alleviare la coscienza di ogni uomo dalla paura della morte, massimo evento innominato.

martedì 28 marzo 2000

articolo sulle “Recenti pubblicazioni:
«Alessandro Manzoni. Società, storia, medicina», a cura di Gian Luigi Daccò e Mauro Rossetto, Leonardo Arte. «Contagio. Sudore, lacrime e sangue in tempi di pestilenze» di Andrea W. D’Agostino, Musumeci editore.
Giovan Pietro Arluno «La peste», a cura di Francesco di Ciaccia, Asefi editore.

Recensione
Literary © 1997-2024 - Issn 1971-9175 - Libraria Padovana Editrice - P.I. IT02493400283 - Privacy - Cookie - Gerenza