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Non occorre cercar di sapere se quanto detto da Ruffilli in questi Affari di
cuore sia reale o piuttosto fantasticamente elaborato. Non è questo che occorre
cercare, quanto piuttosto il guadagno che il poeta – per sé e per il suo lettore
– ne riceve. È come il lasciarsi condurre là dove tutta la vicenda approda. E lì
vedere, come se l’essere arrivato salvo in porto dopo un tremendo fortunale, dia
questo responso: l’amore è salvo, dopo averne sperimentato i versanti più
libertini, fino alle tentazioni del gioco sado-maso, fino alla messa in gioco
del significato che il corpo può avere per le pratiche amorose. È in questo
senso che gli ‘affari di letto’ vorrebbero prendere il posto degli ‘affari di
cuore’. Sì, paga duramente il poeta la riconquista della libertà dell’amore,
della sua identità.
La sequela degli episodi prodotti da questi ‘affari di cuore’ diviene un poetico
‘affaire’, testimone di una messa a nudo ‘de mon coeur’, preso tra le ragioni
del cuore da una parte e le ragioni dell’amore dall’altra. Come a dire, preso
tra le ragioni del corpo e quelle del suo perché, fino a trovarsi preso tra
quelle del tradimento da una parte e della fedeltà (a chi e a che cosa)
dall’altra, cioè tra presunzioni di vittoria e realtà della sconfitta. Ma,
leggendo, vediamo bene come una pratica degli affari di cuore di questa sorta
non porti ad altro che ad una sconfitta.
Eppure, come dice Dante, anche Raffili
testimonia il proprio “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai”. A volte questo
viene dichiarato apertamente, come nel sigillo di “Sorpresa (p.60): “senza
rimorso | perfino con sorpresa | nel mezzo del cammino | perduti e ritrovati |
ci piace stare proprio amanti amati”. Che è formula, quest’ultima, più da
mistici che da poeti trasgressivi. Ecco la conferma del guadagno che viene da
questi ‘affari di cuore’ (p.94): “Se non ti amo più, | però ti ho
| molto amato
| e non è stato vano | perché, perdendo , | mi sono ritrovato”. Come se dicesse
che è uscito dalla ‘selva oscura’ di questa tremenda pratica dell’amore
(tentazione, tradimento, disfacimento) che rende infelici. A conferma il
sigillo posto a “Paolo e Francesca” (p.77): “– Perché siamo infelici?”. Che
rinvia ad altri segnali forti di infelicità: “Noi, infelici | perché non
ricambiati” (p.60), “Infelice | della mia felicità”(p.68). Eppure è ancora il
“ben ch’i’ vi trovai” che si muta in guida verso una ri-scoperta: “Voglio
tornare indietro | alla scoperta | dei primi anni, | al nostro antico amore”. È
come il primo segno di un rinsavimento, quasi conferma di come operi (solo a
posteriori riconoscibile) la divina pedagogia degli opposti. Niente altro più
del cuore può offrircene l’esperienza. Dura cosa farla fino in fondo! Significa
entrare nelle regioni importanti del sogno (vedi l’esergo con le parole di Hesse
su sogno|visione, ma altrimenti già in Dante) e della paura (vedi la conclusione
di “Ossessione” (p.90): “Mi affido alla paura | e affondo in te
| sulla tua
carne | il male che mi assale | e che mi opprime”). Ma ‘sonno’e ‘paura’, che
sono essenziali per l’incipit comedìa, appartengono, più fortemente di quanto si
creda, al fondo stesso di Ruffilli, che ha esperienza dell’andare a fondo e
ritrovarsene fuori, come per miracolo. Il quale non ha rifiutato l’andare al
fronte ad affrontare “quel che ci si oppone | in una eterna guerra | di
posizione” (p.103), ma lì non è morto, riguadagnandone il ritorno a casa ormai
più maturo. Anche come poeta. Così ha potuto giungere alla scrittura della
sezione conclusiva del libro, posta sotto la sigla “Al mercato dell’amor
perduto”, il cui testo introduttivo reca questi due versi-spia (che rinviano al
verso dantesco prima citato): “per tutto il bene | che me ne è venuto”,
“nell’averti amato”. Ecco il suo “trattar”. A questo proposito assai
interessante sarebbe rileggere i sigilli di moltissimi testi di questo “Affari
di cuore”, segnali di una progressiva conquista di saggezza nel trattar di
quell’amore che, dai Siciliani agli Stilnovisti, si muove, fisiologicamente e
psicologicamente, attraversando gli “occhi”. Da qui poi, la vicenda di Ruffilli, diaristicamente andando, è tutta tesa tra esiti cavalcantiani (la “strutta
mente”) ed esiti danteschi.
Ognuno di noi legga con la propria responsabilità, col proprio confronto di
esperienze, con la propria competenza di lettore, questo libro che segna la
maturità poetica di Ruffilli, coraggiosa e linguisticamente incisiva. I suoi
versicoli, che l’hanno reso riconoscibile, sono cifra da interpretare più a
fondo: a momenti che rinviano ad un andamento che richiama il settecentesco
cantabile ad altri che l’avvicinerebbero all’essenziale cifra caproniana, quella
che fulmina rime, quasi obbligate all’incontro dalla forza stessa di un pensiero
che va alla propria conclusione. Ma non è sempre cosa utile cercare rinvii a
possibili fonti. Più importante e forse più utile per il lettore è il camminare
con lui, lasciando a lui l’apertura di un dialogo, che conduce ad un commento
più che ad un giudizio.
A conclusione
possiamo notare che le tre iniziali citazioni – da Lao-Tzu, da Wittgenstein, da
Marianne Moore formano, a ben vedere, un sillogismo, di significazione non solo
poetica. Amore e conoscenza danno luogo ad un processo ‘logico’ che a questo
porta: la conoscenza dell’amore diviene amore della conoscenza; l’amore della
conoscenza dona il linguaggio della verità; la verità non può nascondere la
crudeltà che la pratica dell’amore comporta. Così la poesia d’amore diviene via
della verità del dire di Ruffilli, giustificando la propria poesia d’amore.
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Recensione |
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