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Il fine del mondoIl modo migliore per parlare oggi in forma narrativa non è raccontare le cosiddette «storie vere», né ambientarle qui ed ora. Il ‘trucco’ della veridicità letteraria non poggia sulla semplice raffigurazione della vita quotidiana che ci circonda, se non nella grande poesia, non certo nel romanzo e nel suo logoramento. I grandi romanzi poggiano invece su ciò che non invecchia, lasciando alla cronaca e alla diaristica il compito di assolvere al mero valore «documentale» e «testimoniale» (questi sono i termini della differenza in questione) di situazioni della propria epoca. Sono i romanzi storici, le storie alternative, i romanzi fantastici, speculativi e fantascientifici, le narrazioni proiettate più indietro e più avanti, che assumono un grande valore per chiunque sappia leggerli con profitto. Leggere con profitto significa far propria un’opera letteraria, avocare a sé il ruolo di critico e pensatore, senza fare banale ‘uso’ del racconto, ma offrire a sé prima, ed eventualmente agli altri poi, un’attenta interpretazione scevra da passioni personalistiche atte a mettere in bocca a un autore cose che egli non ha mai enunciato nella raffigurazione del suo mito messo su carta o in scena.
La scelta di Giancarlo Micheli di ambientare il suo penultimo romanzo Il fine del mondo (Ladolfi, Novara 2016) alcuni decenni oltre i nostri giorni rientra nella necessità di tenere la narrazione nel suo alveo letterario maggiore: l’ambientazione gli offre uno strumento critico e speculativo, in cui appunto i lettori possano rispecchiarsi, oggi così come domani, con un distanziamento scevro dai troppi orpelli della stringente quotidianità di chi legga. Col suo autoreferenziale presidente americano Wu e l’altezzosa e sadica first lady Zenobia, con il suo impettito generale golpista Hyppolitus Words, la coppia idealista di antropologi Mark e Sophie, i novelli sposi Huang e Kuei Fei, gli infervorati esponenti politici di provincia cinesi, presi a trascinar le masse tra proclami ideologici pacchiani e autobiografismo nostalgico lungo gli altipiani di un ideologismo ormai vieto, e con tant’altra umanità su cui l’autore indugia meno, l’ironia nera di Micheli dà corpo al suo romanzo. Eccoli lì, ognuno a badare ai fatti propri, chiusi nelle bolle di sapone dei propri problemi ed incapaci di guardare oltre il proprio naso. Come il comico giornalista del New York Times Anthony Wittie e il suo assistente Winston Slender, vagole macchiette newyorkesi dei ben più consistenti Sherlock Holmes e John Watson:
Le storie parallele confezionate in capitoli estensivi, talvolta brevi, talaltra fluviali, stan lì ad indicare lo scollamento di un senso comune, di una visione d’insieme del mondo. Si tratti di raffigurare eminenti o piccoli personaggi politici, professionisti della carta stampata e delle forze armate, intellettuali o mistici: essi appaiono parimenti svincolati dal ‘senso’ del mondo il cui orientamento è necessario nell’epoca della globalizzazione postindustriale. Vale a dire dal suo «fine» e dalla sua «fine», teleologicamente intesi:
Micheli opera un’intensificazione di ciascun momento della vita dei protagonisti attraverso l’uso molto raffinato dell’ipotassi, con lunghe frasi fatte di coordinate e subordinate e una scelta lessicale variegata e ricercatissima. Questo ad esprimere l’idea che, se la consapevolezza delle vicende globali è carente, non altrettanto poco sentita è, sulla propria pelle, l’intensità dell’esistenza individuale e ambientale quale coscienza della singolarità soggettiva. Il guaio è che l’intensità della propria esistenza non basta a salvare quest’ultima se non si abbia contezza delle problematiche nella loro globalità per farvi fronte con adeguatezza. In questo senso del dentro e del fuori, del sottopelle e del mondo che circonda l’involucro umano, parlo di motile raffigurazione estensiva:
La vicenda narrata da Micheli è presto detta. Il presidente americano Wu non è nelle condizioni di sottomettere al grado del proprio mandato popolare gli apparati finanziario e militare, e i vertici di quest’ultimo lo ingabbiano nella loro appiccicosa ragnatela di potere, inducendolo ad aggredire la Cina con un attacco nucleare, il quale, lungi dall’essere un’orribile, rapida e conclusiva azione, si traduce in un conflitto che si ritorce contro gli aggressori, con meno robusti ma bastevolmente efficaci (se così si può dire) bombardamenti atomici cinesi sul territorio americano e sulle sue zone di interesse: attacchi cinesi che i sistemi di difesa statunitensi hanno, con scarsa perizia e apocalittica tracotanza, sottovalutato. Del resto, le guerre non le si possono fare a tavolino, come la storia e la cronaca ci insegnano: perché ciò avvenga ce lo ha spiegato magistralmente Tolstoj nel suo «Epilogo» di Guerra e pace e nelle copiose incarnazioni degli eventi che lo precedono, ossia che vi sono talmente tanti e tali minuti fattori in gioco per cui chi è ai vertici del potere si limita a muoversi in spazi d’azione ristretti trascurando i fattori umani più profondi. Proprio citatissime narrazioni distopiche come 1984 di George Orwell (1949) e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985), dopo aver narrato di un totalitarismo asfissiante che sorveglia capillarmente e punisce i propri cittadini con i metodi delle società disciplinari indicati da Michel Foucault, si concludono con la fine di tali regimi, con la loro implosione di illusi regimi che posson reggere storicamente attraverso una razionalizzazione temporanea del dominio. Fatto sta che, ne Il fine del mondo, l’azione militare autorizzata dal presidente Wu finisce in uno sfacelo generale per gran parte dell’umanità, coinvolgendo miserevolmente le vite, a lui ignote, di miliardi di esseri umani (oltre a quelli di altre specie), inclusi i protagonisti «paralleli» che si trovano in Cina e in Nigeria:
Ho notato che Micheli non ha incluso nella catastrofe nucleare il Vecchio Continente, come se l’Europa, Russia inclusa, ne sia in qualche modo risparmiata. Di fatto i luoghi su cui gli effetti atomici non tardano a farsi visibilmente apocalittici sono nel Nordamerica, nell’Estremo Oriente asiatico e nell’Africa subsahariania, non da noi. Forse che la ‘civiltà’ debba fare passi indietro, ripartendo dalla culla del Mediterraneo, dal suo magico humus celtico e dalla ‘barbarie’ germanica e slava? Non so: Micheli, se non erro, suggerisce solo in absentia che il Vecchio Continente resti intatto dalla subdola e rapida foga degli elementi i cui atomi impazziti sciolgono e fossilizzano tutto e tutti, tranne alcuni dei protagonisti e il presidente Wu. Oppure l’Europa deve essersi già disintegrata da sé. Questo nel romanzo non è detto. V’è molta teatralità ne Il fine del mondo. Veri e propri spaccati, con ambientazioni caratterizzanti e avvolgenti (vere e proprie scenografie abilmente descritte nel dettaglio), ed un uso di mimica e dialogo che crea contesti chiusi, a fronte dell’ossimoro ironico per cui essi sono anche permeabili dalla reazione a catena di incontenibile instabilità atomica. A parte la breve «Appendice» che fa da chiusa, la narrazione termina in effetti con un lungo «Epilogo» ambientato in una buia spelonca, all’interno di una montagna, dove alcuni dei sopravvissuti vengono condotti coattivamente al pari del sequestrato capo di stato americano:
Micheli ci conduce in spazi differenziati, da quello del plateale discorso pubblico di Wu a quelli di amorevoli amplessi in riva al mare, in cui la natura avvolge e asseconda in armonia i vivi salubri corpi nel loro godimento mondano e spirituale. Il rapporto con la natura è essenziale nella filosofia di Micheli: la natura è il tutto, l’intero mutevole che è poco comprensibile alla limitatezza umana e alla sua coscienza, la quale si traduce piuttosto che no in coscienza ristretta o cattiva coscienza, come è evidenziato dalle elaborate giustificazioni che Wu, nel finale del romanzo, adduce ai suoi sconosciuti astanti, che altri non sono che i vari sopravvissuti protagonisti con cui viene a trovarsi in una stessa chiusa stanza. Egli chiede loro di spiegargli il proprio sogno, un articolato incubo affioratogli nel suo isolamento di leader degli Stati Uniti imprigionato e sotto effetto farmacologico; ma, di fatto, accampa egli stesso, di fronte a spiegazioni che non gli garbano, filosofeggianti giustificazioni della propria condotta. Spazio teatrale buio, quello della camera oscura, come per il dramma di Maeterlinck I ciechi e i radiodrammi Sotto il bosco di latte di Thomas e Ceneri di Beckett. Spazio, che diventa per Wu una sorta di hortus conclusus di un rispecchiamento negli abissi ancestrali del senso, quasi voglia egli sviluppare una fotografia apollinea di ciò che lo ha portato a produrre lo sfacelo totale dell’umanità, o di gran parte di essa. Del resto, il nome Wu, in cinese, significa «il nulla», l’«assenza», il «non esistente», la negazione. La sua risposta ai quattro sopravvissuti che gli raccontano il proprio sogno più volte nel lungo dialogo dell’«Epilogo» è caratterizzata dal diniego della veridicità delle versioni offertegli, da Wu che nega che tale o tal altro sia il suo sogno.
Negazione, Wu appunto, di guardare in faccia le proprie responsabilità, di negarle continuamente. Al contempo, l’uso dell’antefatto raccontato posteriormente è un’altra caratteristica del dramma greco antico, così come di tante sue nobili derivazioni che giungono ai nostri giorni. Le giustificazioni che Wu adduce anzitutto a se stesso aprono scenari suadenti e fiabeschi riaffioranti dalla memoria della sua infanzia cinese, tra rocciosi anfratti, piante rigogliose, luci incantevoli e le gigantesche leggendarie cascate della paesaggistica storica cinese, come nella rievocazione della gita alle cascate di Huangguoshu coi genitori e la sorella:
Vale l’ironia di Micheli nell’aver raffigurato un presidente e una first lady americana cinesi, nati e cresciuti nell’apparato comunista del proprio paese d’origine: come a dire che lo «scontro di civiltà» non ha alcuna consistenza nei grandi conflitti mondiali, i quali sono guidati da «interessi» degli apparati di potere delle nazioni, al punto che persino il presidente americano non è, come si ripete da più parti da tempo, che un capo di stato e di governo fantoccio, tema che ha peraltro caratterizzato le primarie e presidenziali americane dell’ultimo anno. Certo, se quest’ultime non hanno esercitato anlcuna influenza su Il fine del mondo, lo stesso non può dirsi degli ultimi quindici anni di espansione forsennata degli Stati Uniti in forma violentissima e della Cina in forma pervasiva sui mercati internazionali. Dal punto di vista stilistico, Il fine del mondo fa uso di un’accurata e precisa scelta lessicale. Quando ho evidenziato una certa robusta teatralità di questo romanzo, ho inteso mettere in luce un aspetto che non riguarda la mimetica del dialogo in sé, ma le sue maschere, come se Micheli, pur nella forma diegetica del romanzo, intendesse mantenere un tono comune nella voce dei personaggi, soprattutto un tono classico da romanzo, dramma e film epico, così come lo intendevano soprattutto Döblin, Benjamin, Brecht, Godard e Deleuze, in antitesi a certo dialogismo bivoco su cui si sono incentrati gli studi di Bachtin. Quello cui rifugge Micheli in questo romanzo è il romanzesco, al pari di come lo rifuggono altri grandi romanzieri militanti di oggi, quali, tra gli altri, gli splendidi Ōe e Handke. Nel linguaggio di Micheli, quantomeno in questa opera, la parola è sempre greve, pesante come una massa che prenda colore e forma a contatto con gli elementi con cui interagisca. Il fine del mondo, coi suoi momenti elegiaci, comici, di una crudezza distaccata e viscerale, col suo lasciar che i personaggi dibattano, nelle loro cellule di miele in sfere lanciate nello spazio, sui drammi dei propri intrecci, offre uno spaccato attuale e condivisibile della società in cui viviamo, della vita reale di persone di ogni specie, di decisioni che cadono dall’alto in modo goffo e devastante: e dell’affabulazione falsificante e spiazzante dei media, di cui gli uomini, me e te, siamo infine le vittime. |
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