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Menotti Danesin, nasce a Padova il 29 Agosto 1894 da famiglia originaria da Venezia. Il padre Paolo Minotti e la madre Amelia Danesin. La madre, donna sensibile e amante della lirica, aveva trovato impiego come costumista al Teatro Verdi di Padova, mentre Paolo libraio, fotografo e tipografo, svolgeva la sua attività a Padova in Piazza dei Signori (al tempo Piazza Unità d’Italia). [nota – pag .6/8 in Quaderni Territorio I/- Mi venga a trovare col tram, saluti e baci da Teolo –- Cartoline di Teolo edite da Paolo Minotti dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale. a cura di Sergio Giorato) Comune di Teolo 1995. In “Immagini e cronache del ventennio” – a cura di Sergio Giorato. Comune di Teolo 1999 “(…) Paolo Minotti – fotografo padovano autore di una prima campagna fotografica relativa al comprensorio Euganeo – tra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale. Il lavoro del Minotti rappresentò una prima ricognizione visiva dell’intero comprensorio euganeo, importante anche perché forse la prima volta il paesaggio dei Colli potè entrare nella rappresentazione iconografica che sino ad allora si era occupata quasi esclusivamente delle grandi emergenze architettoniche od artistiche] I genitori si incontrano ad una rappresentazione teatrale. La loro fu una vicenda travagliata (il padre, Paolo Minotti era già sposato e con un figlio). [Il figlio Carlo – cs. Nota 1 in Quaderni Territorio. - Nota biografica a pg.97 di “La memoria e l’oblio” ritratti di fotografi padovani 1840-1940 Editrice Zielo 1992.] Menotti fu il primogenito di cinque figli nati da questa lunga ed appassionata relazione: Menotti, Gino, Cara Maria, Paolo e Zaira) e presero il cognome della madre Amelia Danesin. Il nome Menotti gli fu dato in omaggio al figlio dell’amato Garibaldi. Fin da ragazzino Menotti amò l’atletica leggera e la ginnastica. A 12 anni, inizia il suo apprendistato lavorativo alle dipendenze del fotografo Fiorentini, del quale diventa l’allievo prediletto dopo tre anni, passa allo studio del cav. Turola in Via Roma 39. Sotto la guida di quest’uomo schivo e di poche parole ma di grande capacità, si appassiona ancor più alla fotografia e affina le sue tecniche di ripresa e di stampa favorito e sostenuto da un innato talento.
Allo scoppio della I° guerra mondiale viene arruolato in fanteria. Prima mandato a La Thuile, al confine francese nel gruppo sciatori e poi al fronte. Combatte ad Arsiero nel vicentino, poi sui monti asolani. Ha solo18 anni quando viene trasferito sul fronte albanese. L’8 agosto del 1916 per rientrare in Italia, si imbarca assieme a 2500 fanti sulla nave Principe Umberto. La sera, in navigazione in mare aperto, spossati ed esausti, la nave viene silurata. Prima che affondasse, Menotti si getta in acqua con addosso ancora la divisa e faticosamente si allontana a nuoto per non venire risucchiato dall’inabissamento della nave. Resta tutta la notte in acqua. Una scialuppa poi lo trae in salvo ma per farlo salire – carica com’era – tutti dovettero spogliarsi e buttare a mare gli indumenti per alleggerire il carico. All’alba verranno recuperati da un cacciatorpediniere e sbarcati a Bari. Menotti, appena toccato terra, volle rituffarsi subito in acqua e, solo dopo aver raggiunto a nuoto una lontana boa, pensò d’essere veramente salvo, si disse: “ce l’ho fatta!” Quel gesto lo aveva sentito come necessario per vincere subito la naturale avversione e paura per il mare che quell’avventura poteva lasciargli. Dopo poco viene trasferito nelle trincee del Carso, in una pietraia qui, finita l’acqua e per non morire disidratati, lui e i suoi commilitoni sono costretti a succhiare, a masticare le poche erbe e foglie che trovano in mezzo ai sassi ma così tutti si ammalarono di colera. Il Colonnello li fa allora isolare su una collinetta con il proposito di ritornare dopo la quarantena e recuperare i sopravvissuti. I colerosi furono lasciati con dei viveri ma anche con tanta calce da mettere in bocca a chi moriva. Pieni di pidocchi, divorati dagli insetti e senza niente per disinfestare sé stessi e il proprio giaciglio, solo pochi sopravvissero tra cui egli stesso. Lo rimandarono subito in trincea e in quel periodo conobbe Cesare Battisti. Svolgendo il suo incarico di radiotelegrafista, in una sortita d’avanscoperta, venne catturato e fatto prigioniero e, con estenuanti marce a piedi, mandato al campo di concentramento di Mauthausen dove vi rimase 18 mesi, fino alla fine del conflitto. Il campo di concentramento era suddiviso in diverse baracche ognuna indicata con le lettere progressive dell’alfabeto: a,b,c,d ecc. (Un metodo che serviva per selezionare i prigionieri in base all’istruzione e al titolo di studio). Gli fecero un esame per la destinazione della baracca. Erano domande sulla sua professione da borghese e altre di cultura generale. Lui, pur avendo conseguito la sola licenza elementare ma con una vasta cultura da autodidatta, venne mandato nella baracca A, quella degli intellettuali. Lì, fra gli altri, ebbe come compagni il pittore Giulio Oppi lo scultore Paolo Boldrin (con cui strinse amicizia). L’essere nelle sezione A significava, sì patire come tutti i crampi della fame, ma evitare almeno molte incombenze umilianti oppure faticose come andare a scavare trincee. Addetto ad espletare vari servizi del campo riuscì a costruirsi fortunosamente e pezzo su pezzo una macchina fotografica e con un procedimento particolare anche delle lastre sensibili. Di nascosto riuscì così a immortalare momenti e situazioni che avvenivano in quel luogo. Lastre preziosissime per lui, tanto che, quando ebbe il sentore della fine della guerra, scappò per tornare a Padova, percorse tutto il lungo tragitto a piedi spingendo una carriola con solo poche cose, fra cui la rudimentale macchina fotografica e le pesantissime lastre che documentavano le tante sofferenze viste e sofferte. Ritornato civile prese contatto nuovamente con lo studio fotografico del cav. Turola sempre in Via Roma . In quel periodo conosce Francesca (Fanny) Rinaldi, una giovane fotografa originaria di Genova. Si sposano e aprono assieme uno studio fotografico in Via San Fermo. Dall’unione nasce Fernanda, una bambina che però morirà a soli sei mesi. Dopo tre anni di matrimonio, incinta per la seconda volta, muore di polmonite anche la giovane moglie. Rimasto solo, apre un suo studio fotografico in un vecchio stabile al n. 2 di Via San Clemente, tra piazza della Frutta e piazza dei Signori con la dicitura “Foto industriali, Riproduzioni d’arte, Fotomontaggi, Ritratti artistici”. Per un “ritratto artistico” fa la conoscenza di Elvira Ferrara. Una donna bella ed elegante, nata in Germania da genitori italiani e che lavorava come corrispondente italiana con la Germania alla Banca Commerciale di Padova. Nel 1924 si sposano ma per le leggi vigenti lei così perde l’impiego. (Alle donne sposate allora non era permesso avere un lavoro esterno). Avranno tre figli. Nel ‘25 nasce, Fernanda, l’unica a sopravvivere. Il maschietto muore subito e un’altra bambina, Silvana, vive solo pochi giorni. (L’amatissima moglie morirà nel ’54).
Nello studio di Via San Clemente Menotti rimase fino alla fine della sua attività nel 1970 (fine anticipata e forzata da incomprensioni con il proprietario dello stabile). All’inizio lavorò moltissimo per Ilario Montesi e per le campagne saccarifere della zona, per la Fiera Campionaria. Frequentò la contessa Buzzaccarini, scultrice, la baronessa Treves de Bonfigli. Collaborò con la De Agostini ed altri editori. Documentò le opere d’arte presenti nelle chiese, nei musei di Padova e del Veneto. All’epoca erano quasi tutte sue le documentazioni fotografiche della Basilica di S. Antonio e di Santa Giustina, immagini che poi sono state inserite in cataloghi e libri che andarono capillarmente sia in Italia e all’estero. Tante e importanti anche le riproduzioni dei dipinti, degli affreschi, dei bassorilievi ripresi all’Università, le raffigurazioni di Campigli al Liviano, i monumenti al Palazzo della Ragione. A tale proposito scriva Gustavo Millozzi in “Padova e il suo territorio” (n 8, 1987):“Buona parte della storia antica di Padova è stata fermata nelle lastre di questo fotografo d’altri tempi, la cui perizia era paragonabile solo al suo scrupolo e alla sua modestia. (...) Con la sua macchina fotografica a soffietto, cavalletto di legno, drappo nero e il tappo dell’obbiettivo quale otturatore a mano, riprodusse quadri ed edifici, costruendo negli anni un archivio di migliaia e migliaia di negativi su lastra. (...) Importanza riveste anche il lavoro che Danesin svolse per conto di architetti e progettisti, perché permette di documentare le modifiche che Padova ha subito con il passare degli anni. Così è accaduto che importanti situazioni edilizie preesistenti abbiano lasciato nelle sue foto l’unica testimonianza storico architettonica e ambientale dell’evoluzione della nostra città”.
Con gli anni divenne ricercato perché aveva fama di fotografo degli artisti. Salivano la buia e angusta scala dai gradini sconnessi, per arrivare al suo studio dagli arredi un po’ retrò, i maggiori pittori e scultori veneti, e non solo. In un articolo apparso su Il Gazzettino di Padova del 6 settembre 1966 dal titolo “Ha illustrato la storia artistica degli ultimi cinquant’anni padovani. A questo grande maestro delle fotografia ricorrono enti, istituti, accademie di ogni parte d’Europa” si dice anche: “Il suo gabinetto fotografico, in quaranta anni non ha subito alcuna modifica, è rimasto quello che è: si sale una stretta scala, si entra in un angusto corridoio, ci si affaccia in una saletta le cui pareti sono tappezzate di fotografie più che ventennali e dalla quale si accede ad allo stanzino dove è conservato un archivio inestimabile comprendente 55 mila negative in un’altra stanza, quella riservata alle “operazioni fotografiche” troneggia un vecchio “macchinone” che non sgarra un colpo e per la quale Menotti Danesin rifiuta l’apporto delle macchine moderne, quelle che assicurano una precisione millimetrica.(...)” Gli artisti, i committenti, apprezzavano la capacità di questo fotografo che con la sua grande e artigianale macchina di legno e con il suo sguardo sornione tacitava le loro infinite raccomandazioni ed – era certo – non li deludeva mai. “Anche se era un uomo da non lasciarsi influenzare: se io gli dicevo: “fà cussì, lui mi rispondeva “lasseme far a mi”. E faceva lui. E che facesse bene potrebbe essere a dirlo tutti i tanti cari e illustri amici che egli ebbe da per tutto, se ne fosse bisogno” Cosi Giulio Brunetta ebbe a scrivere di lui. Per arrivare a tanto passava ore e ore in camera oscura e, chi l’ha potuto vedere all’opera, lo racconta ancora facendoci intuire il fascino alchemico che riusciva a creare. Al buio della piccola camera oscura con il piano della lastra da stampare su cui spostava cartine, veline di qua e di là, ne aggiungeva, ne toglieva, ne sovrapponeva ... poi contando i secondi a voce, dava l’avvio alla luce, all’impressione. Solo dopo, quando si vedevano le immagini uscire pian piano dalla trasparenza dell’acido, dopo che, ancora immerse, le aveva sfiorate accarezzate “massaggiate” con le dita ormai scure e macchiate dagli acidi, si aveva anche la meraviglia di vederlo finalmente sorridere leggermente. [Nota tecnica di ripresa: Composta l’inquadratura sul vetro smerigliato (non essendoci il reflex l’immagine risultava capovolta e la destra diventava sinistra) – Messa o a fuoco, calcolata l’esposizione della luce – veniva sostituito il vetro smerigliato con lo sciassì contenente la lastra fotosensibilizzata. Si toglieva il volè che proteggeva la lastra e poi tolto il tappo dall’obiettivo oppure attraverso un comando, per i secondi calcolati necessari alla impressione della lastra. Veniva poi rimesso il tappo, rimesso il volè e riestratto il scissì. Questo portato in camera oscura. Si toglieva il volé e, al buio completo, e sviluppato. La stampa su carta veniva quasi sempre per contatto. (Francesco Danesin)]
Nascevano nuovamente in questa restituzione sulla carta le tante sfumature dei neri, la resa cromatica dei grigi, le tonalità, le ombre e gli spessori reali dove il pittore, lo scultore poteva ritrovare intatta la sua opera. Allora esisteva solo il bianco e nero, il seppiato e la maestria era appunto qui, nel tradurre fedelmente i colori in sfumature di grigio o seppia e dare così l’idea dei colori originali. Erano foto che poi andavano in cataloghi e che avrebbero girato il mondo. La condivisione creativa rendeva naturale l’amicizia fra il fotografo i gli artisti. Veniva così semplice e normale conversare, discorrere per ore d’arte e di correnti artistiche in quel suo studio in penombra, quasi monastico d’estate, appena entrati nell’atrio oscuro e fatti i primi gradini che portavano da lui, sembrava lasciarsi alle spalle tutto il caldo, il vocìo, i rumori delle piazze fra un leggero odore di umidità, di carta e di acidi, in quel suo studio si entrava come in una bolla protetta. Tante erano a volte le “visite” che riceveva che per terminare i lavori commissionati, per finire le stampe con la giusta concentrazione, spesso ritornava nello studio dopo cena e vi restava fino a notte fonda.
Il “Gran Caffè Pedrocchi”, poi il bar Coccodrillo, il bar Missaglia in via Gorizia erano i punti d’incontro con “I tosi”, come lui li chiamava, ma da lì passavano altri “tosi” che si univano e ognuno portava le proprie quotidianità, i propri patemi e frizzi artistici. Erano Pendini, Campigli, Lovisetto, Disertori, Longinotti, Saetti, De Pisis, Fasan, Galuppo, Morato, Lazzaro, Zancanaro, Dal Pra, e inoltre – fra i più cari – lo scultore Amleto Sartori con le sue maschere, lo scultore e gallerista Mandelli, Strazzabosco, la pittrice Cassoli, Menegazzo che si firmava Amen, il critico Fiocco e gli architetti Mansutti, Brunetta, Fagioli, Ponti e molti, molti altri. Alcuni arrivati dopo, l’allora giovane Romanin Jacur e il giovanissimo Galeazzo Viganò. Menotti Danesin, legatissimo a Pendini e a Lovisetto, riusciva con la sua serenità di giudizio e la sua autorevole mediazione a farli dialogare nonostante i due avessero idee politiche e caratteri diametralmente opposti.
In Salone ogni due anni c’era la mostra del Triveneto a cui aderivano tutti i maggiori artisti. Una mostra molto apprezzata anche da galleristi milanesi, fra i quali Gian Ferrari che venivano a vedere le novità e gli umori di questa regione così prolifica di talenti artistici.
Danesin saliva i gradini fino alla sala dell’esposizione con l’immancabile cavalletto di legno e un’enorme borsone verde a tracolla colmo di lastre vergini che comperava rigorosamente solo in un magazzino a Venezia, a Santa Fosca. Sua fu la cura fotografica della Biennale d’arte Triveneta e della Mostra del Bronzetto fin dalle loro prime edizioni. Menotti con i suoi scatti diede memoria a tutte quelle manifestazioni. La gallerista Peggy Guggenhaim (1898-1979) curiosa di questi nuovi movimenti artistici, divenne un’amica particolarmente devota non mancava mai dall’America di inviargli i suoi saluti e, come testimonia la figlia Fernanda, il padre era una delle persone che desiderava incontrare quando veniva in Italia. Molti pittori, e scultori arrivavano a lui per il passaparola sulla sua particolare tecnica fotografica, per la stampa che era quasi sempre per contatto ma soprattutto per la magia del suo ritocco.
Divenne un “maestro” per diversi fotografi che hanno operato a Padova. Claudio Toma un nome per tutti che si è sempre considerato il suo discepolo. Fu Menotti Danesin a regalare all’allievo e collaboratore Toma la propria macchina fotografica inglese del 1920, oggi cimelio da collezione che sfoggia nelle vetrine del laboratorio ubicato in un’ala dell’antico palazzo vescovile. Dal 1977 il laboratorio continua, nella stessa sede, sul solco della tradizione familiare con il figlio Fiorenzo, che dal padre ha appreso i segreti e le tecniche della fotografia. [“(..) La sua passione per la fotografia che ha origini lontane, diventa mestiere dopo aver frequentato il laboratorio del maestro Menotti Danesin specializzato in riproduzioni d’arte. Usava metodi antichi dice ora, ma era molto bravo, oltre che un amico. Un giorno il maestro lo vide fotografare un quadro servendosi di un esposimetro. Gli domandò cosa fosse quell’arnese e con aria di disapprovazione gli disse che “l’esposimetro ” doveva averlo nella testa (…)” In Padova e il suo territorio n.95 febbraio 2002. - Il Gazzettino 02.09.2001 “Toma, Padova in camera oscura” - Il Mattino 03.05.1998 “In un clic volti e storie patavine”.]
Durante il secondo periodo bellico fu sempre Menotti a portare al sicuro sui Colli Euganei, ai frati del Convento di Praglia, su preghiera del Magnifico Rettore Carlo Anti, l’intero archivio fotografico dell’Ateneo che egli stesso aveva pazientemente allestito [vedi nota biografica in “La memoria e l’oblio” pg.93 (c.s.)] In quel lungo periodo, con le incursioni aeree sulla città, la figlia con il marito erano sfollati nei vicini Colli Euganei mentre lui, per lavoro, era rimasto a Padova ospite in casa del fratello Paolo. Il 12 ottobre del 1944, cercando di allontanarsi dall’abitato durante un allarme aereo, mentre sostava al ciglio della strada verso Battaglia Terme (allora molto stretta), fu investito dal rimorchio di un autocarro tedesco. Riportò la duplice frattura alla tibia e al perone della gamba sinistra. In quel frangente, dopo il ricovero immediato all’ospedale non era reperibile il gesso per l’ingessatura, glielo fornì lo scultore Amleto Sartori, che lo adoperava come base per le sue opere. Ma, forse l’impasto non aveva la giusta densità perché, dopo quella prima ingessatura e nonostante le cure e i vari ricoveri, (fu ingessato per ben sei volte e immobilizzato da una trazione di sette chili), ebbe un lungo e sofferto anno di immobilità, complicato da una sopraggiunta rosolia. A fine guerra, lentamente e dopo altre vicissitudini, riuscì finalmente a ritornare a casa. Il conforto e l’affetto “dei suoi artisti” in tutto questo travaglio, non era mai venuto meno. Tale testimonianza e vicinanza costante lo sostennero molto anche emotivamente perché lo aiutarono a riprendere il suo lavoro.
Continuò così a salire ancora lo scalone del Palazzo della Ragione per le varie mostre del Bronzetto allestite in quegli anni. Vi trovava ormai esposte anche le molte opere di quegli artisti che lui stesso aveva fotografato nelle manifestazioni precedenti. Gli artisti, furono suoi amici fraterni e lo sostennero anche nell’ultimo periodo dell’attività quando il proprietario dello stabile gli intimò lo sfratto. Iniziò una lunga diatriba che lo portò suo malgrado in Tribunale. Ma le numerose testimonianze e petizioni, articoli sui quotidiani della città promosse dai suoi amici artisti ed estimatori, lo aiutarono a ottenere ragione sia pure con un compromesso di risarcimento. Tuttavia il 20 gennaio 1970 Menotti Danesin fu costretto a chiudere per sempre il suo studio. Un trauma che lo segnerà e che sopportò con lo stile e lo stoicismo che contrassegnò tutta la sua vita. Dopo una lunga e dolorosa malattia muore a Padova il 5 febbraio 1976. La figlia Fernanda con il marito Aldo, che gli era quasi figlio, lo accompagnarono con amore in questo graduale decadimento fisico durante il quale, mai perdendo la lucidità della mente, poté intrattenere e a volte far sorridere ancora i cari amici (i tosi) che lo andavano a trovare. Il suo inestimabile materiale di lastre e di stampe dapprima diviso tra il Museo Civico, l’Università e la Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia è ora custodito nell’Archivio del Gabinetto Fotografico dei Musei civici di Padova. Biografia ricavata dalla narrazione della figlia Fernanda
Danesin Paggetta
© foto Archivio Danesin Bibliografia— Padova e il suo territorio – Menotti Danesin Artigiano dell’obbiettivo di Gustavo Millozzi – n.8, 1987 — La Memoria e l’oblio – Ritratti di fotografi padovani 1840-1940 Editrice Zielo 1992. (Unione Provinciale Artigiani Padova). — Quaderni Territorio I/- Mi venga a trovare col tram, saluti e baci da Teolo –- Cartoline di Teolo edite da Paolo Minotti dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale. a cura di Sergio Giorato. Comune di Teolo 1995. — Immagini e cronache del ventennio – a cura di Sergio Giorato. Comune di Teolo 1999 — La memoria di Carta – Momenti di vita padovana dagli archivi degli artigiani fotografi dal primo dopoguerra agli anni ’60, © Copyright 2001 – Unione Provinciale Artigiani Padova Categoria Fotografi.
Sue immagini anche in.
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