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Introduzione a
Il pollice smaltato
di Gemma Forti
la
Scheda del libro

La parola arma e crittogramma
Gualtiero De Santi
“È tempo di forgiare l’arma estrema
Prendiamo la penna in mano.
È tempo
che la penna sia la nostra difesa.”
(Vladimir Majakovskij,
Il corrispondente operaio)
Decenni di volgarità e luride bassezze; lo sconvolgimento del
tessuto morale e civile, la dissoluzione di menti e corpi e anime. Gemma Forti ha riempito
le pagine del suo libro di quelle parole nelle quali si decantano coscienza e poesia. Ha scomposto
la realtà e i suoi falsi segni verbali muovendosi con libertà sulla traccia di un neo
cubofuturismo, italiano e femminile/ista: pittorico in quella parte da cui ci si rinvia a qualcosa che
potremmo anche definire poesia visiva; sperimentale nel senso di una rescissione radicale della
tradizione (anche quella falsoavanguardistica dei “groupuscules académiques” delle nostre italiche lettere);
materiale e materico là dove i segni sono sì precisi in quanto termini ma poi divengono
anche cose provviste di una loro specifica trama, attraversate da un marcato e serrato dinamismo,
inarcate sopra una struttura aggettante non per avventura rilevabile su grandezze
tipografiche diverse e insieme articolate in grassetti e tondi; inoltre fatto giostrare su giocolerie
irridenti e un sarcasmo che più si avanza nel libro più diviene sferzante, tragico e nero.
È una scrittura, la sua, che vuol investire e anzi aggredire il
presente. Nel succedersi delle soluzioni sbigottenti e persino a tratti eccentriche determinate
dallo sfaldamento della realtà e dallo stupore che questo ingenera, non si dispiega nessuna polemica per mero
partito letterario volendo solo agire contro le convenzioni, avverso un feticismo
archeologico della letteratura che oggi sembra imperversare presso veneranti neo-arcadie. O meglio
questo anche avviene. Ma rimanendo per così dire implicati nella meccanica dei versi e
dei lemmi, delle strofe e del ritmo: tutti insieme mezzi necessari per una terapia d’urto contro un
presente insostenibile. In questi andamenti e scorrimenti delle frasi poetiche in cui le
parole scaturiscono l’una dall’altra per contiguità e insieme per connessione semantica,
per evocazione fonica, i concetti poetici divengono in un tratto sintagmi pittorici (o scultorei,
nella logica di un rimario petroso) e insieme concetti pratici, funzionali al discorso, perché no
anche ideologici nel senso di una concezione del mondo e di una sua lettura critica. Tanta forza e
energia sviluppa un impulso ritmico che si fa strada dalla parola d’avvio, e – a muovere da
quella, dalla tensione che essa ingenera – tira poi fendenti e allarga varchi, andando a scavare
nel magma che cresce inarrestabile, adottando una interna risonanza con parole-concetti orientabili
verso un carattere finalistico che naturalmente non si eccettua dalle ragioni e
motivazioni di tale scrittura.
L’immagine-metafora, curvata nelle iperboli, nelle invettive,
nelle irrisioni, lasciata esercitare su un tamburo beffardo e sul mordente ritmico-fonico, rimane in
evidenza entro la cornice prospettica di un presente che deve essere leggibile e
decrittato. Il rimbombo costruttivista è in Gemma Forti, e sin dall’inizio, struttura per così dire
pienamente umana, concreta. La cui destinazione è tanto contrastare le impostazioni viete quanto
avversare la schiuma del presente, il mercato borghese delle lettere e delle relazioni sociali, il
bunga bunga dei pensieri.
Così Forti fornisce la propria penna ad un arsenale se non del
proletariato o dei neo-rivoluzionari certamente degli indignati e degli arrabbiati. La poesia parla
in lei una lingua nella quale le parole hanno potuto assumere il valore di simboli
minacciosi, di una gigantesca rilevazione del male. In ordine a ciò i versi e le frasi, le varie strisce
sintagmatiche, sia che si volgano alla cronaca più diretta sia che ne assumano i paramenti
mostruosi, si srotolano sopra un andamento ritmico-epico, muovendosi lungo procedimenti dove non conta il
modo della rappresentazione ma dove la rappresentazione sceglie le forme giuste per
esprimersi ritrovandosi per ciò stesso all’avanguardia.
Pertanto il lavoro di scrittura e di elaborazione complessiva fa
franare le noie melodicizzate del lirismo gratuito, sull’onda di un impegno a scatenare
materiali agitatori condotti sulla linea di un immaginario vignettista e beffardo. La sagoma delle cose
si fa immediatamente una loro forma fantastica, o almeno comunicativa.
Nella decomposizione della vita pubblica e delle nostre menti,
la più lodevole e originale fisionomia di tanta irruenza è tutta nella capacità di una
coscienza che si esprime attraverso il paradosso e le sortite provocatorie, ma che lascia pur
intravedere gli intrecci tra il raccapriccio e la ribellione. Ma poi, infine, lo stile obiettivo di questo
libro vive sulla possibilità di concepire un tipo di poesia i cui mezzi debbano essere interrogati intorno
ai loro scopi. Detto al modo di Majakowskij (in un richiamo che penso si addica a Gemma e che
lei possa approvare): “Per non scrivere, / gridando inutilmente, / vi espongo la morale”.
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