Sicuramente Lucio Zinna è tra le voci più
ferme della poesia siciliana di oggi: la sua attività più che ventennale si è
venuta nel tempo sempre più precisando attraverso un continuo lavoro di
intensificazione dei temi di elaborazione stilistica, sicché il suo ultimo libro
“Abbandonare Troia” costituisce un risultato di indubbia qualità sia per
lo spessore ideale sia per l’equilibrio stilistico che mai viene meno.
Abbandonare Troia viene a
costituire una sorta di bilancio del poeta che scrive di sé in “A volte qualcuno
rimane”: “Di poesia mi reputo un antico drogato | iniziai per solitudine a
quattordici anni...”: un bilancio in cui il mondo affettivo-ideologico di Zinna
si dipana attraverso tappe successive fino ai “Sessantacinque versi per il treno
della Maiella” un testo a nostro parere tra i più alti che la poesia di questi
anni abbia espresso, perché in esso si condensa una visione della vita e una
tragica consapevolezza: che l’esistenza cioè è e rimane comunque una scelta
singola e dolorosa (“non ti dissi – né avresti creduto – | che fin dall’età di
ragione | avevo imparato a corazzarmi e mantenermi | un nucleo intatto – un osso
di purezza – impenetrabile | ai tratti del volto ai segni della mano”).
S’apre il poemetto, perché di un vero e
proprio poemetto si tratta, con una notazione paesaggistica evocatrice di tanti
paesi del sud (“semideserto sfila a tratti | un paese aggrappato a una collina diruto
| inerme stanco di difficoltose | sopravvivenze...): in questo silenzio
del luogo, in questo paese non sfiorato dalle rotate, immobile nel tempo e nello
spazio, il poeta avverte prepotente il senso della sua lotta vana in un mondo
massificato e tecnicizzato (“Piantare tutto. Allogarsi da queste parti | con la sacrafamiglia nel più remoto villaggio
| mettersi in pensione anzitempo vivere del minimo | prima che entrato falsi cavalli abbandonare Troia…”).
Quella del poeta a questo punto non è
solo la stanchezza individuale (non è solo la sua volontà a dirgli di
abbandonare, di scegliersi il suo angolo privato) ma è anche la stanchezza della
storia: una storia insieme trascorsa e in atto, una storia della vita che per
lui è stata dura come gli aveva profetizzato la madre (“Tu sapevi madre che la
vita non mi avrebbe serbato | che, sorprese e inconfessati strazi…”).
Ma il poeta sa che la fuga non gli è
possibile. Nel paesaggio che annotta (“Imbrunisce. Passano larici e abeti passa
una capra | solitaria corrono due bimbi su un prato e spariscono...”), torna il
ricordo dei figli la loro presenza che non si può eludere e allora non resta al
poeta che riattraversare la storia, il Molise, Napoli, l’affranta Calabria,
Palermo tradita e moribonda, per prendere ancora una volta contatto con la
realtà, perché Troia non può essere abbandonata.
Ma se il poemetto finale, unitario e
drammaticamente dolente nella fermezza con cui Zinna dice le cose, è lirica
riassuntiva ed emblematica, non si può tacere che il suo senso sia in tutte le
altre parti della raccolta, in cui dolenza e ironia privato e pubblico si
intersecano di continuo tesi a dare l’idea di un poeta che si pone di fronte a
se stesso e al mondo come coscienza interrogante. E non è poca soprattutto in un
momento in cui la poesia italiana pare privilegiare più l’attimo il frammento,
le “agudezas” e pare eludere le questioni di fondo che sono state sempre alla
base della poesia. Zinna questa sua idea della poesia la realizza attraverso
una scrittura che, come ha scritto Raffaele Pellecchia, poggia su “un
pluralismo” linguistico che “investe tanto la sostanza lessicale quanto la
strutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso
poetico”.
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