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Il Concilio Romano del 1725

Il Concilio provinciale lateranense del 1725, che va sotto il nome di Concilio Romano, si configurò quasi come un concilio ecumenico, non solo per l’autorità che lo indisse e per il numero delle diocesi convocate, che oltrepassavano la delimitazione geografica laziale, ma anche e soprattutto per le istanze poste da papa Benedetto XIII ai Padri conciliari. Indicendo il Concilio, il pontefice intendeva ripristinare la prassi sinodale – stabilita dal Tridentino ma divenuta «nimium rara praesertim in Italia» (G. B. De Luca) -, allo scopo specifico di porre in atto strumenti idonei a restaurare «il buon costume e la santità della vita degli ecclesiastici» (Relationes ad limina). L’A., offrendo una panoramica attenta e documentata del costume ecclesiastico dell’epoca, «inquinato da disordini deplorevoli» e distolto pesantemente dalla funzione pastorale a causa di interessi politici ed economici, documenta d’altra parte l’esigenza di un rinnovamento reclamato nella Chiesa e per la Chiesa, «in capite et in membris».

Il compito di papa Orsini, «più religioso e meno politico», fu tuttavia difficile, come l’A. rileva con rigorosa metodologia storica. Ostacoli provenivano dalle gerarchie ecclesiastiche cristallizzate nei loro privilegi giuridici e nei loro pregiudizi dottrinali, che facevano vedere il Concilio come «rem novarn et insolitam»; dalle contrapposte scuole teologiche dei Gesuiti e dei Domenicani, nonché dei filo-giansenisti, i quali in effetti avrebbero provocato forti tensioni a proposito della bolla clementina Unigenitus; infine dall’apatia del clero romano e addirittura dall’invidia verso la «colonia di ecclesiastici e laici beneventani» fatti insediare a Roma dal papa. Comunque il Concilio, se pur fu difensivo e non «missionario», volto «piuttosto che a inserirsi nella società a non integrarsi ad essa», rappresentò un antesignano della più recente tendenza ecclesiastica nel seguire una linea «pastorale», e costituisce un fatto eccezionale in un secolo refrattario alla visione spirituale della prelatura. Il fondamento di tutta la riforma fu individuato nell’episcopato, e in subordine nel presbiterato, richiamati istituzionalmente alla funzione primaria della predicazione e cura d’anime, e quindi legislativamente all’obbligo della residenza, della preparazione culturale, del distacco dalla società mondana. Secondo l'A., la dimensione pastorale non solo fu un movente importante, ma imprescindibile, ed essa rappresenta la chiave di lettura del Concilio Romano del 1725.

Il suo influsso fu avvertito sia in fatto di dottrina ecclesiologica sia di pastorale catechetica, anche se gli effetti benefici non furono né duraturi né generalizzati, sia per un ritorno preponderante, lungo il sec. XVIII, a tendenze indisciplinate nel clero, sia per l'insufficienza teorica del Concilio stesso, la cui impostazione non fu intrinsecamente unitaria. In effetti, come l’A. rileva mirabilmente, il nerbo di tutto il Concilio fu la volontà ferrea e appassionata del papa, il quale in genere combatteva contro un’assemblea «opaca e rinunciataria». L’A. comunque ha saputo far emergere, con accuratezza storica, gli esiti favorevoli del dopo-concilio, e con finezza analitica ha sottoposto ad esame le posizioni di Pietro Giannone e di Johann Walch, che del Concilio ci hanno lasciato differenti e in parte contrastanti giudizi.

Il saggio di Luigi Fiorani, altamente specialistico ma anche avvincente per ogni cultore di storia e di teologia, è condotto con particolare spirito critico anche nell’analisi delle abbondanti fonti; inoltre, è corredato da una pregevole appendice di documenti, nella quasi totalità inediti, che integrano la vicenda conciliare. (F.d.C.)

[Francesco di Ciaccia, Recensione di Luigi Fiorani, Il Concilio Romano del 1725, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, 1978, pagine 330, «Nuova Rivista Storica», 3 (1981) pp. 762-763.].

Recensione
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