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Il vaso del mondo, da Jacopone

Il lavoro portato a termine da Antonio Bertolotti, poeta e anche docente di italiano e coordinatore scolastico, si rivela molto complesso, nonostante l’apparente esigua consistenza materiale. Sul piano materiale, tuttavia, bisogna subito notare che si tratta di una plaquette artistica d’alto valore, realizzata su carta Acquarello Avorio in tiratura numerata di 100 copie da un editore che si qualifica letteralmente come “Nessuno”, cioè Niemand, ma che al pari del “Nessuno” d’antica fama, cioè Ulisse, fa risuonare la sua voce in opere d’alta, direi superba, finezza e preziosità, come nel caso di alcuni scritti di Primo Levi, avvalorati da acquaforti di Davide Casari.

Nel volumetto di Antonio Bertolotti troviamo invece una riproduzione di Jacopone in adorazione della Vergine, tratta dall’editio princeps delle Laude ad opera di Francesco Bonaccorsi, a Firenze, del 1490.

Il volumetto, dal formato di grandi dimensioni e privo di numerazione di pagine (come si addice a un’opera d’arte), si accredita con un saggio introduttivo, Le parole dell’anima: le ragioni di una scelta, sulla lauda Donna de Paradiso del Tudertino, del quale si occupa il presente lavoro. Si tratta di una lauda che toglie il respiro, anzi toglie la forza di continuare, quando si legge come la Madre alza il “grido disperato” – che quasi rischia la “blasfemia” – sul perché «mat’e figlio impiccato!». L’autore del saggio confessa che ogni volta, a quel punto, gli cade il libro dalle mani, ma ammette che quel libro gli resta avvinto all’anima e si chiede perché quella lauda gli sia così “vicina e irrinunciabile”.

È umana, è troppo umana. Traduce una Maria di una “umanità struggente” che è consona all’animo passionale di Jacopone ma che è al contempo storia di un’anima che obbedisce a Dio.

L’impostazione di Antonio Bertolotti non è tuttavia psicologica né teologica. È scenografica, dato che, poi, realizza una rappresentazione della lauda in oggetto. Ciò che l’Autore nota a tal riguardo è l’impianto narrativo della lauda: essa “non è concepita come vera e propria lauda rappresentativa, ma come racconto orale”, con una “successione incalzante e ininterrotta di quadri” che focalizzano non i luoghi e gli oggetti, “ma solo e soltanto gli uomini e i sentimenti che le loro parole incarnano, nei quali identificarsi”. In tutta la produzione del Tudertino costruita di vissuti incarnati che tanto piacquero ad un altro affocato poeta, pur d’altro sangue, Gabriele d’Annunzio, e in modo particolare in questa lauda si tratta di gesti e di sentimenti “concreti come pietre”, pietre che in Jacopone sono le parole in cui contano “il suono e il ritmo […], il dolore e l’amore che passa per i versi e la loro successione scandita e intensamente sonora”.

Considerando poi il testo della lauda, l’Autore mette in risalto, in un’attenta ricognizione della struttura interna del testo stesso, lo spessore emotivo – ma, più profondamente, spirituale – dell’animo della Madre nel suo “straordinario soliloquio, dalla musicalità struggente ed energica, priva di lacrimosa malinconia, che lascia il posto ad una commozione travolgente e viscerale, che annoda la gola e mozza il fiato”. Ecco perché è detta “viscerale” quella commozione; ma anche “spirituale” (se non metafisica, se è possibile attribuire questa dimensione a una categoria esistenziale), poiché, dice potentemente l’Autore, “ogni parola della donna è un frammento di un nuovo parto, come se la croce fosse una lama che squarcia il ventre della madre di Dio”. E qui si innesta quella dimensione che ho insinuato appunto come metafisica. Se il san Bernardo di Dante aveva visto nella Madre la figlia del proprio Figlio (Paradiso, XXXIII, 1), a evidenziare l’apparente ossimoro logico – apparente, perché in questa definizione la figliolanza non ha significato univoco – e la reale bivalenza nel rapporto madre-figlio, Antonio Bertolotti coglie il rovesciamento del processo del parto: “in un percorso di immedesimazione totale nel figlio”, avviene che, adesso, “la morte/sacrificio” del figlio avvolge la madre a ritroso in un percorso finale dentro la morte e la perdita”.

Per tutto il resto del libro-rappresentazione l’Autore procede a “riscrivere” la lauda – con il testo del Tudernino a lato, pagina dopo pagina – tenendo l’occhio fisso, anzi l’orecchio e la mente, a un padre che, lasciato il paese d’origine a causa della miseria e della guerra, non trova il proprio figlio e lo cerca con “disperazione senza lacrime”, inchiodato tra la speranza perduta e l’implacabile speranza. La riscrittura non vuole essere una spiegazione testuale; essa costituisce un “dramma” autonomo, che però segue fedelmente il dramma di una madre, la Madre di Gesù, che sembra non rassegnarsi al martirio del figlio, ma che tuttavia alla fine si rammenta del “coltello” “che fo profetizzato” e da cui ora si sente trafitta.

Così si è espresso Vincenzo Sibillo, in Quando la poesia genera nuova poesia, il 6 dicembre 2016, a commento di quest’opera jacoponico-bertolottiana:

«È poesia, quella di Jacopone, che genera nuova poesia, quella di Bertolotti, e si crea un intreccio che vedi anche sulla pagina: i versi di oggi si accostano serrati ai passi della lauda, mentre gran parte della pagina resta bianca, silente, come per far respirare il testo, per dare sfogo alla tensione emotiva.

La Donna che soffre per la morte imminente del Figlio e che parla con Lui non può non richiamare il dolore del mondo, che è universale e senza tempo, e non può non generare ancora oggi la speranza che quella morte, un gesto d’amore per noi, ha generato:

Madre mia nella mia pena il tuo dolore / è frattura e silenzio di speranza / voglio madre che tu resti che tu venga / che il mondo ti conosca e non ti perda / che il respiro mio ti trovi ancora forte / padre o madre dentro al calice che verso / nell’amore che mi lega alla tua vita / e nel sangue, scrive Bertolotti».

Un esempio della tempra poetica e al contempo esplicativa del testo di Antonio Bertolotti mi pare che possa essere emblematico quello che accompagna il famoso brano di Maria, secondo la versione di Franco Mancini edita nel 1974 da Laterza:

«Figlio, l’alma t’è ‘scita / figlio de la smarrita, / figlio de la sparita, / figlio attossecato! // Figlio bianco e vermiglio, / figlio senza simiglio, / figlio e a ccui m’appiglio? / Figlio, pur m’ài lassato! // Figlio bianco e biondo, / figlio volto iocondo, / figlio, perché t’à el mondo, figlio, cusì spezzato? // Figlio dolc’e placente, / figlio de la dolente, / figlio àte la gente / malamente trattato».

Bertolotti:

«Figlio figlio figlio figlio consiglio appiglio / nel fuoco che ti monda / nell’aria che manca / nella terra che ti sporca / nell’acqua che ti laverà / dal mondo figlio figlio figlio / il gioco degli uomini ha scacciato / il giglio bianco del tuo viso figlio figlio / è solo puntiglio figlio volerti / felice per sempre / figlio al mio corpo sostegno e conforto / figlio dei figli del mondo / unico mio figlio mio / orgoglio e argilla del vaso del mondo».

In sintesi direi che la scrittura tesa, come di acque sferzate da vento procelloso, con periodi spesso asintattici e con frequenti sequele di vocaboli senza predicati verbali rende bene lo stato d’animo dei protagonisti della lauda, che vivono un monento intensissimo di suprema esperienza interiore, e soprattutto risultano estremamente efficaci quando il testo, invece che essere soltanto scorso con gli occhi, è ascoltato in una rappresentazione narrativa.

Francesco di Ciaccia, recensione di Antonio Bertolotti, Il vaso del mondo, da Jacopone, Niemand, s. l. 2016, s.p.

Recensione
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