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Jost von Meggen, Pellegrino a Gerusalemme

Il suo diario, Peregrinatio Hierosolymitana, è apparso di recente in italiano per la traduzione di Francesco di Ciaccia. Le peripezie di un viaggio, dalla natia Lucerna, durato dodici mesi

Jost von Meggen (Lucerna, 1507 o 1508), autore del diario di viaggio Peregrinatio Hierosolymitana, fu il primo comandante delle Guardie Svizzere vaticane, dopo che Paolo III, esonerate le Guardie tedesche assoldate da Clemente VII su istanza dell’imperatore, ricostituì nel 1548 questo Corpo con le originarie Guardie svizzere, costituite ufficialmente da Giulio II il 21 gennaio 1506.

Il Meggen esercitò con sommo e unanime gradimento la funzione di comandante fino al 17 marzo 1559, l’anno in cui morì. In seguito, il 10 aprile 1565, Pio IV inserì nel trattato di alleanza con i cinque Cantoni la clausola che il capitano della Guardia pontificia fosse sempre un lucernese.

Jost fu un appassionato pellegrino. Da giovane pellegrinò al Mont Saint-Michel, in Bretagna; e nel diario di viaggio in Terrasanta narra di quello compiuto a Loreto nell’attesa della partenza da Venezia. C’è da segnalare che l’autore affrontò il pellegrinaggio in Terrasanta per ricevere il titolo di Cavaliere del Santo Sepolcro.

L’8 maggio 1542 partì da Lucerna e pernottò ad Urania, l’attuale Altdorf, dove fu accolto dai notabili della città che, secondo l’uso, gli offrirono del vino. Ed ecco il primo impatto con le montagne: le Alpi.

«Da lì, non senza grave pericolo bisognava superare la sommità delle Alpi (il passo del monte chiamato San Gottardo), con la sua sterminata distesa di neve che nei torrenti ghiacciava lungo i bordi e altrove si scioglieva in rigagnoli, così che ovunque si aprivano buche estremamente insidiose per uomini e cavalli. Non solo: di schianto, precipitavano con gran fragore ed impeto masse di neve; una volta mancò poco che ne restassimo bloccati. Poi, perché il viaggio fosse più sicuro e più agevole, non raggiunsi Milano per via diretta: allungai di mezza giornata il cammino».

Il percorso da Venezia a Giaffa, in Palestina, fu un susseguirsi di traversie per mare, a causa sia dei fortunali, sia dei pirati che spadroneggiavano nel Mediterraneo orientale. In Palestina, i pellegrini percorsero anche la Giudea montana, dove sorgono l’altura detta di Santa Elisabetta, cioè Ain Karem, già percorsa dalla Madonna, e quella dell’apparizione degli “angeli” ad Abramo, dove oggi sorge il villaggio Beni Na’im.

Ma il percorso montano più significativo resta quello delle aspre montagne del Sinai. Leggiamo.

«Andammo al Monte Sinai, salendo per erte molto aspre e alte, poste a sud, e vi arrivammo dopo 5 miglia. Lungo il sentiero, a quasi un terzo del percorso, trovammo la cappella della Beata Vergine Maria e, a metà, arrivammo al piccolo cenobio dove un tempo solevano abitare alcuni religiosi; ora ci sono tre cappelle, dedicate la prima a santa Maria (Egizia), la seconda a sant’Eliseo, la terza a Sant’Elia; in fondo a quest’ultima c’è una piccola grotta, vicino all’altare, in cui alcuni affermano che Elia per quarant’anni vi abbia fatto penitenza. Comunque qui va tutto in rovina, poiché sia i sacelli che i locali di abitazione, abbandonati dai monaci, sono accessibili agli arabi.

Sulla cima del Monte Sinai si crede che Dio abbia consegnato a Mosé il Decalogo dei comandamenti, a nostra salvezza: lo attesta anche la sacra Scrittura. Il luogo presenta oggi un enorme masso concavo.

Ce lo ha indicato il religioso che ci accompagnava. Vi è stata ricavata una cappella molto carina. Sul posto c’era originariamente un cenobio molto importante, come rivelano le rovine; ma poco a poco, per il raffreddarsi della fede e per la difficile accessibilità del luogo, fu abbandonato dai monaci ed ora è disponibile per i mauri e per gli arabi: costoro, che a volte vi si fermano a dormire (lo dimostrano le stuoie lì stese), compiono secondo la loro usanza i sacri riti su due tavolati, che noi vedemmo.

Noi allora, dopo aver osservato con attenzione il tutto ed aver eseguito a voce alta canti e preghiere di rito greco con turiboli fumanti (d’incenso) e candele accese, per un po’ scendemmo per lo stesso sentiero, finché, superato il piccolo monastero più in basso, prendemmo a sinistra un viottolo sempre accidentato, in discesa; e scesi con quasi altrettanta fatica che salendo, arrivammo in una valle, di gran lunga la più bella e fertile (tra quelle che vedemmo) di tutta la zona: non tanto ampia, produce tuttavia uva, olive e altri frutti in gran dovizia grazie all’acqua abbondante; vi si trova anche tanta legna: in questa Arabia, cosa davvero rara. Tutto il luogo, con il piccolo monastero che vi sorge, è dei greci; cenammo nell’elegante sacello seduti accanto al fuoco, a bell’agio, e la notte dormimmo in alcune stanzette. Il luogo prende nome dai Quaranta Santi, ogni tanto abitato da due o più monaci. Nella zona ci sono anche alcuni tuguri, di pessima costruzione, abitati da gente del posto.

All’alba ci incamminammo verso il Monte Santa Caterina. Dopo un breve tratto in piano salimmo la durissima montagna: durissima e altissima, a detta di tutti. La scalammo con grande, anzi inimmaginabile fatica (a volte il sentiero pareva precipite, rovinoso!), ma finalmente, a mala pena, arrivammo sulla cima. Stanchi da morire; un percorso di 6 miglia in salita! Su questa cima, più alta di tutte, si scorge quasi tutta l’Arabia, col Mar Rosso a sud-ovest a due giorni di cammino. Dicono che subito dopo la morte vi fu miracolosamente portato dagli angeli per divino volere il corpo di santa Caterina vergine (decapitata ad Alessandria dai tiranni) e che per 365 anni vi fu custodito tra due angeli che facevano da guardia: poi, trovato da un monaco, fu ben presto sepolto. In seguito, lungo la discesa e voltati un po’ a destra, ci mostrarono un albero, o meglio arbusti piuttosto alti, spinosi, tra enormi massi, quasi in una valle lungo un rigagnolo: tra questi rovi che ardevano ma non bruciavano il Signore apparve a Mosè in forma di fuoco, gli disse di togliersi i calzari, poiché quella era terra santa.

Su questo monte vengono qua e là staccate lapidi di pietra: con incisa la forma di rovo, se ne trovano sparse lungo il sentiero. C’è chi dice che, a perpetua memoria, le lapidi tramandino il miracolo; i pellegrini son soliti prenderne alcune. Noi invece continuammo la discesa, con sofferenza e difficoltà ancora maggiori: e tornammo a mangiare nel posto da dove eravamo discesi».

Abbiamo qui ripreso alcuni importanti tratti del viaggio, compiuto dal Meggen, attraverso i monti. Tuttavia, i momenti più rischiosi e, a dire il vero, a un passo dalla morte furono quelli attraversati sia in mare, a volte di fronte alle imbarcazioni dei pirati, tenuti a freno solo dalle bombarde, sia nel deserto del Sinai, con i predoni che hanno anche aggredito pesantemente i pellegrini.

Dodici mesi, insomma, di autentiche peripezie carambolesche. Oggi non se ne potrebbe avere neppure un’idea.

Il diario di Jost von Meggen, nella traduzione dal latino del professor Francesco di Ciaccia, è di recente uscito con il titolo Pellegrinaggio a Gerusalemme. Avventure d viaggio per mare e a cavallo di un gentiluomo svizzero del Cinquecento. Chi ne fosse interessato può richiederlo all’Asefi editrice. Via San Semplicismo 2,20121 Milano.

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