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La Tua Destra
Dal punto di vista della scrittura e dello stile, colpisce innanzitutto
la concisione laconica dell’eloquio. Si tratta, secondo la mia percezione, non
solo di una qualità formale: questa stringatezza veicola uno scavo concettuale
di contenuti che aprono, a volte nel nascosto, al mistero (come ad esempio in
quel: “a dire d’ogni ascensione il sangue”, L’entrata). A volte la parola
si fa essa stessa mistero, nascondendo – per svelare – una verità che è
difficile, o forse inopportuno, dipanare secondo i canoni espressivi del
linguaggio quotidiano (come ad esempio in quel: “nel fremito dello squarcio e di
tutti i perdoni.”, Lunedì dopo le Palme).
Il discorso può anche essere costruito secondo la formula dell’immediato
e diretto riferimento del significante al significato, per cui tutte le parole
risultano denotative, come in questo incipit di San Carlo ai Catinari:
“Quello che è male – contro / me, contro gli altri – / ai Tuoi occhi io l’ho
fatto”. Le terzine immediatamente successive ripresentano subito, però, il
registro espressivo adattato alla dimensione del mistero, quel mistero in cui,
nei giorni della passione e della morte – cui riconduce quell’annuncio iniziale
(“Quello che è male”, ecc. -), la “parola” è incrostata (per rifarmi al
verso “Ma scrosta la parola”) e solo a Pasqua “saprò con Maddalena”, solo dopo
la Risurrezione capiremo. Capiremo tutto.
Sul piano del pensiero io trovo – sempre in base alla mia sensibilità –
una concezione di fondo che coniuga il sacro all’interno della naturalità, in
particolare di quella umanità che vive e soffre, in tutti i tempi e in tutti i
luoghi, nelle condizioni di povertà e di modestia esistenziale, e forse anche
sociale. È forte – io credo – quella foto icastica del popolo acclamante, del
popolo che si accalca intorno al Gesù di Nazareth, nel cosiddetto – poiché lo
diciamo noi – giorno delle Palme: “[…] annunciando / il Paradiso coi somari” (L’entrata).
La glorificazione è calata nell’umiltà del popolo (poiché “Il Verbo appare ai
semplici”, 16 Aprile, Mercoledì), nella condizione di gente che non ha in
testa scenari di trionfalismo regale ma che segue Gesù e lo acclama nelle
modalità di tutti i giorni, “coi somari”: il che è un dato oggettivo ma
soggettivamente è significante, poiché connota, appunto, la semplicità popolare.
Altrettanto è significativa la puntualizzazione contrappositiva tra “olivo” e
“palme” (“l’olivo non le palme”, ibidem), che esprime, quasi
esplicitamente grazie alle immagini universalmente espressive, il concetto che
il cammino redentivo passa attraverso l’umiltà e la pace e non attraverso la
gloria e la potenza.
Un pensiero che credo fondamentale in questa raccolta lirica di Gian
Piero Stefanoni è il suono della voce che desta, della voce che si ascolta nel
silenzio, della voce che risuona dal sepolcro. E dall’apertura del sepolcro. È
il Risorto che si rivela: “E Tu risuoni / nel vuoto del sepolcro / rompendo
d’ognuno la veglia” (Gesù Nazareno, a Largo Argentina). Qui è
l’esortazione a non “guardare al passato” – secondo le parole dell’Angelo -: è
il futuro l’orizzonte di chi crede.
Una presenza, poi, importante in questa raccolta è quella di Maria,
madre di Gesù. Ella è presente nei giorni e nella sfera della passione di suo
figlio, quale “Madre dei dolori”, poi soprattutto nella continuità indefettibile
della storia salvata, nella quale ella è, sì, la “Regina”, ma lo è “senza
corona”, e per questo “Santissima”. Si staglia dunque sulla Madre la santità del
Figlio, quella santità che, come già all’inizio abbiamo indicato, si nutre di
umiltà interiore – o di kenosi, per dirla con Paolo Apostolo -, e di
umiltà, ancor più esattamente, nella partecipazione alla vita degli umili, dei
“poveri uomini”.
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Recensione |
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