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Letture manzoniane e oltre

Oltre che sul «primo romanzo» manzoniano, il CNSM cerca di portare ulteriore luce sui Promessi Sposi in Letture Manzoniane, con prospettiva di «informazione e di formazione» (Giancarlo Vigorelli, La ripresa delle «Letture Manzoniane» e oltre, pp. 5-10). Edoardo Villa, Don Ferrante o la genialità del concreto (pp. 11-24), «leggendo» il cap. XXVII delinea l’abbozzo, in un domicilio privato, dei costumi e della cultura secenteschi attraverso l’intermezzo descrittivo-caricaturale di don Ferrante. Del cap. III Sergio Pautasso, L’Azzecca-garbugli e il dispregio della parola (pp. 25-33), studia la potente ironia manzoniana, questa volta non soltanto scherzosa: perché ne va di mezzo la giustizia. E allora la pagina graffiante si fa drammatica ed etica nell’accostamento narrativo con l’immagine contraddicente di Cristoforo e con l’inserimento di fra Galdino, dalla parola edificatoria ma non ingannatrice.

Su una pausa narrativa del cap. XXX si sofferma Geno Pampaloni, Dove si scopre un don Abbonalo solitario e infelice (pp. 35-48), un Abbondio coraggiosamente in fuga. E sì, perché il coraggio ce l’ha da vendere, quando si tratta d’aver «paura»! È qui che il «lettore» entra nell’animo del curato: la paura di don Abbondio non è per niente disgustosa, perché è in lui un tratto esistenziale, che gli «deforma» addirittura la vista del reale in una «autoalienazione per eccesso e metastasi di egoismo» (p. 45). Ne è prova il fatto che egli non «soffre» mai: egli scansa. Oppure se la prende con gli altri. Non ha dolore: ha trepidazione. Non conosce cordialità: solo diffidenza. Per questo non è stato condannato: alla fin fine, egli è un uomo solitario. Terribilmente. E malinconico. Sotto un’altra angolatura, quella etica, la pavidità donabbondiana è sviscerata da Umberto Colombo, Il torto di chi fa pasticci (pp. 49-70): è la frase, nel cap. I, con cui il curato, per scusarsi con i bravi di don Rodrigo, addossa la colpa su quelli che si volevano sposare. Nella seconda stesura il romanziere ha cambiato il termine «aggiustamenti», che corrisponde nel dialetto milanese a «pattuizioni nuziali», con quel vigliacchissimo altro termine: come a dire che, per don Abbondio, la colpa è di chi s’innamora! La prognosi morale è disperata. Le iniziali analisi del Colombo dimostrano che lo scenario paesaggistico, con cui il romanzo si apre, non è uno sfoggio topo-geografico, ma una fine ambientazione dell’attitudine al «domestico» del curato, alla quale rimanda una natura confidente e conosciuta, entro cui deflagra come un fulmine lo sguardo terrificato, che s’imbatte sui brutti ceffi. Anzi, bruttissimi. E a nulla vale la preghiera del salmista: «Se mi troverò nei guai, tu mi darai la forza, o Dio!». Meglio non rischiare: «troppo giusti, troppo ragionevoli...». Carattere opposto è quello dell’Innominato, fegatoso nel violentare e nel beneficare. Ne parla Stefano Jacomuzzi, «In man recando il prezzo del perdono» (pp. 70-88), sottolineando già nel titolo la collocazione semantica del «perdono» nella storia della Grazia in senso stretto. Le microvarianti narrative e lessicologiche tra il Fermo e Lucia e I Promessi Sposi (capp. XX-XIV) svelano che «perdono» e «misericordia» acquistano un nesso intrinseco in riferimento non già ai processi psicologici, vuoi dell’Innominato, vuoi di Lucia che gli sta di fronte, ma alla tensione teologale, a cui tutto l’affresco della conversione rimanda. L’analisi del critico è particolareggiata, viva e concettualmente puntuale, concludendo con un rilievo anche teologico: il «pegno del perdono», assunto in proprio dal Conte del Sagrato di ritorno al castello, nei Promessi Sposi gli viene invece attribuito da un altro (dal cardinale), come a significare l’interdipendenza «strumentale» degli uomini in rapporto all’unica fonte di carità, che discende dal «Padre di ogni misericordia». Infine, ecco il significato generale del romanzo, davvero «senza idillio» se, realizzato il «sogno», iniziano i guai normali: che neppure val la pena raccontare. Non «scadimento», dunque, ma «mimesi» della vita è il cap. XXXVIII, spiegato da Pietro Gibellini, L’ultimo capitolo: parabola del romanzo e romanzo-parabola (pp. 88-102). A questo punto, al romanziere sembra che interessi di più riflettere, magari sotto l’apparenza di un conversar domestico, che non immaginar storielle appiccicate alle costole di mamme, papa, figli e consanguinei; e fra le tante saggezze c’è il «bilancio». Ognuno ricuce la propria parabola. Salvo Abbondio, il quale, straripante di macchiettismo, è restato al punto di partenza, con quel beato De profundis per Rodrigo. Per Fermo-Renzo l’iter è stato «di formazione» eticamente ragionevole, sulla quale lei, la mulier dulce ridens, getta l’ultimo sguardo dolce e ieratico: i guai son proprio essi a venire incontro a noi; ma le parole del Signore sono consolazione e forza. Per me. [Francesco di Ciaccia]

[Recensione di Letture Manzoniane 1987, Casa del Manzoni - Centro Nazionale Studi Manzoniani, Azzate, Edizioni «Otto/ Novecento», 1988, pp. 103, in «Annali Manzoniani», I (1990) pp. 270-272]

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