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Poesie d’amore a LivioQuando si ama intensamente qualcuno, non si vorrebbe che chi si ama ci lasci. Mai più. E quando ci si è amati profondamente – totalmente, intensamente, struggentemente – per quarant’anni, sembra impossibile che chi si è amato ci lasci. Che muoia. Ma forse in realtà non ci lascia.
Adesso gli occhi tendono, invano, verso quell’angolo: che lo accoglieva morente. Ma si pensa anche al passato: ai giorni in cui il vigore del corpo, la freschezza della mente ci portavano verso lidi lontani, a Parigi o sull’Isola d’Elba; tra i boschi o verso i monti scoscesi, oppure ad annusare l’antico odore dei castelli e a visitare musei in ogni parte del mondo. Tutti questi “pensieri” si possono vedere nel libro di Wilma, scritto per il suo Livio, attraverso le foto stampate: foto giustamente in formato ridotto, ma nitide ed eloquenti, vibranti di vita vissuta, al punto che, al vederle, si sente quasi l’odore dell’erba d’alpeggio ma soprattutto l’armonia dei sorrisi amorevoli. E già attraverso le foto sembra al lettore di attraversare la storia di una vita, anzi di due vite unite in una sola. E che accanto vorrebbero morire. Ma non tutto quel che vogliamo si avvera. Salvo una cosa: la vita che continua a scorrere, insieme, anche dopo la morte di uno di noi. Nella lirica, scritta dopo la morte del caro Livio e allegata, in testo dattilografato, al libro di poesie, l’Autrice dice che ritroverà l’amato quando anch’ella passerà all’“Oltre”, entrando nell’“Universale”. Indubbiamente è vero; ma è anche vero che nessuna certezza futura elimina il senso d’ambascia di non sentire la persona fisicamente vicina, di non accompagnarsi tra i prati e le ville golosamente annusate; di non vederla mentre si consuma il pasto insieme – anche se non insieme preparato – o mentre ci si soccorre l’un l’altro camminando con passo incerto per la casa o per le strade della città. È ben vero:
È ben vero: se uno dei due morisse, tutto si polverizzerebbe, anche colui che vive – e le sue cose, il suo tempo, il suo divenire – sarebbe un immenso vuoto visibile, concreto, massivo. Tuttavia, la presenza non svanisce. Presenza reale. Benché non sia fisica. È forse il “miracolo” dell’anima? Forse. Ma è senz’altro il miracolo dell’amicizia. Infatti, ciò è vero anche nel caso della dipartita di una persona con la quale c’è stata una intima profonda relazione di grande e fraterna confidenza. Nei versi di Wilma al suo Livio si scorgono vivacissimi i sentimenti d’affetto e d’amore che si concretizzano in sensazioni dolcissime, nel dolcissimo sguardo, nelle vibrazioni delle ciglia, nel sorriso delle labbra, sensazioni così delicate, deliziose e graziose, che par che il corpo si faccia fanciullo, un fanciullo che vibra di gioia e che vorrebbe trastullarsi e tuffarsi (“vorrei trastullarmi / E tuffarmi”) nel mare della beatitudine della puerizia (Dolcissimo sguardo). Infatti incontrandosi nella più profonda affezione non serve parlare, basta “lo sguardo” per trovarsi e sentirsi, per penetrarsi a vicenda nell’abisso della reciproca intesa: “inesprimibile” (Lo sguardo). In un rapporto d’amore che è “cresciuto” (Frammento) ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno, attimo dopo attimo e sorriso dopo sorriso, la vita scorre con tutte le sue luci e tutte le sue ombre, con momenti di varia quotidianità – dai dissensi e dissapori alla cena gustata insieme -, eppure tutto sembra quasi fiabesco – ovvero paradisiaco –, circonfuso di spirito soave e di armonia quasi empirea. Il tempo trascorre quasi in una mitica eternità – che “svanisce le ore” (Giorno felice) – o in un mondo interiore edenico, e al tempo chiede – in un “giorno felice”! – di fermarsi; anzi, di arretrare: perché si viva “ancora / Dell’oggi”. Si sa: poi arriverà il tempo che non può né andare avanti, né tornare indietro, e neppure fermarsi. Ma intanto l’Autrice assapora il momento del “ritorno” di lui: una stupenda esperienza nella quale la voce dell’anima dà voce anche alle cose, che “piansero il silenzio chiuso / di una casa inanimata”, durante l’assenza temporanea di Livio, mentre tutto sembra, in modo “palpabile”, attendere il ritorno di lui, e gli stessi tasti del pianoforte “sembran dire: “grazie” / alle tue lunghe dita accarezzanti” (Ritorno). Ma il ritorno più vero è quello dell’incontro dopo la morte. Anzi no: oltre la morte. Le ultime poesie della presente raccolta vibrano di una vitalità sconfinata e sconfinante, al di là del fisicistico, entro un mondo che sa di parapsichico, forse di innaturale. O meglio: di naturalissimo, ma che è profondo come un abisso che dà il capogiro. È il tempo in cui il compagno ha gli anni che pesano come una tomba, ha i giorni che si sa ormai agli sgoccioli e “Sui tuoi caduchi anni / la mia penombra sulla tua ombra”, cioè anche chi ha più tempo da vivere è già moribondo, è “penombra”. Allora si volge lo sguardo “lassù”; lo sguardo non più su di lui, sul compagno, ma già “oltre”, poiché è nell’“oltre” che il ritorno avverrà. Egli ancora non è morto. Ma è come lo fosse. Si aspetta la luna che si inabissi al monte: si aspetta la vita che si immerga nell’“oltre”. E allora, quando già le ore non risuonano più della voce di lui, quando già le mani tendono verso colui che più non è accanto, è allora che si sente che egli riempie il mio cuore, è presente in tutte le mie fibre, e
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