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Presentazione dei libri
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La poesia di Wilma Minotti Cerini si definisce nella categoria dello spirito, nel senso che la sua ispirazione è data da una ricerca delle intime radici dell’anima e da una visione della vita intesa come cammino spirituale verso la sorgente dell’io, che è Dio – comunque lo si voglia chiamare, secondo le varie culture o religioni -: l’Unità dell’essere, il Principio dell’essere, il Fine dell’essere.
La ricerca di sé e delle radici dell’anima presuppongono ed impongono una vigile solitudine interiore: la sua “essenza” è nel deserto (La solitudine, in La luce del domani).
La poesia – come espressione di questa stessa ricerca interiore – si manifesta dunque nel nascondimento – nascondimento al mondo -, e al contempo si manifesta come autorivelazione, cioè come scoperta della propria verità e della verità del mondo (Radici necessarie, in La luce del domani), per giungere “davanti all’infinito che affascina” (La catena, in La luce del domani).
L’infinito umano ha essenzialmente i confini dell’amore: una scoperta che ogni soggetto, sprofondato in quel fascino, scopre dentro di sé. Dentro, e anche fuori: perché l’amore è cosmico, è una esistenzialità che non si esaurisce in nessuna cosa del mondo e in nessuna situazione dell’uomo. Ma l’amore è anche nella quotidianità, crea situazioni di vita ed è nelle situazioni di vita. L’autrice perciò canta la natura, il sole, la vita (cfr. La catena, in La luce del domani): sembra che in tutti gli aspetti del mondo reale si libri quel senso che è nel fondo di ogni cosa, appunto l’amore, l’“alma mater” generatrice di vita, la Venere del canto di Lucrezio sulla natura.
Per tal motivo la poesia, come l’amore, se è interiore e se è una forza spirituale, è anche concretezza ed è anche carne.
Ma l’amore è soprattutto autoidentificazione: rende consapevoli di sé. Genera l’io.
È il nascimento.
Poi, nascendo, si è come di nuovo bambini, si è di nuovo piccoli, con l’“attesa”, nel cuore, del domani (La luce del domani, in La luce del domani), nonostante i dolori e le incertezze (Esperia, in La luce del domani), con l’attitudine a meravigliarsi del mondo, a “stupirsi ancora / perché la luce offrendosi / porterà i suoi doni” (Perché, in La luce del domani).
Nella raccolta Alla ricerca di Shanti, sembra tematizzata proprio la tensione dello spirito verso quel Centro che, abbiamo detto, è al contempo Principio e Fine e a cui l’autrice dà un nome: il Signore.
In questa tensione, si combattono, nell’animo, la ricerca del fine agognato e le remore dell’inconscio, che potremmo legare alle istanze della carne.
Il superamento delle contraddizioni è un penoso arrancare verso un sentiero di tranquillità e di pace: perché è infatti nel rasserenamento delle pulsioni che è possibile contemplare le passioni stesse e, contemplate, sentirle come compagne di un viaggio duro, quasi infinito, ma tuttavia esaltante. Questa pacificazione è un’offerta che giunge dalle profondità dell’essere: non si sa come, non si sa perché. Si sa però che sei soltanto Tu.
Con lui l’animo si placa a
considerazioni che vanno verso la purezza originaria. È l’esser buoni? Non lo è
(cfr. Cattivo/a, in Alla ricerca di Shanti). È una
compartecipazione totale all’alterità amata, al punto che
«ho finito
di desiderare e penare
perché il Tuo amore m’invade»
(Nótre
Dame, in Alla ricerca di Shanti).
La meta è chiara: ridiventare «persona» (cfr. Apatia-Agosto 1992, in Alla ricerca di Shanti). Impossessarsi di se stessi fino nel più intimo dell’anima, per arrivare alla piena consapevolezza senza ombre. Su questa linea esistenziale tutto il resto è percepito come inutile: anche il corpo non appartiene all’essenziale (cfr. L’anima di Gionata, in Alla ricerca di Shanti). Perciò l’autrice può affermare che «tutto ciò di cui ho bisogno» è esclusivamente «il Tuo amore» (Nôtre Dame, in Alla ricerca di Shanti).
L’immagine del fine agognato si
configura in modo preciso nella pace conseguita nella unione con l’anima
universale: il maha Purusha. È lì, nella luce della Bhakti – la pace –, che
perde significato ogni oro che abbaglia ma non soddisfa, ogni frutto che piace
ma non sazia: ed è lì che l’anima trova dolcezza, in un cammino sempre proteso e
sempre fermo al contempo, come quello di un viandante interiore che non esce mai
da se stesso ma continuamente esce da se stesso superandosi verso una
comprensione più profonda, e pacificata, dell’io. Il rapporto con il proprio
fondo – per dirla con Jung – assume i connotati di una generazione come da padre
a figlio: lo «spirito» che dà beatitudine all’io è «Padre» di una creatura
novella (Al mio Creatore, in Alla ricerca di Shanti) e nasce al
«calore» di un amore più caldo del fuoco e più intimo della propria stessa
coscienza; c’è una misteriosa congiunzione di consanguineità – omogeneità – e di
alterità – subordinazione –, in una «dilatazione» dell’interiore che al contempo
«si annulla per diventare tutt’uno» con l’universo e che si autoricostituisce
nella propria identità «portando con sé / tutta la grazia dell’incantamento» (Al
mio Creatore, in Alla ricerca di Shanti): così quando
«il mio granello di polvere vorrà
gettarsi nell’oceano della Tua
pace,
che io arrivi come figlia
per riposare ai Tuoi piedi»
(Come
un calore, in Alla ricerca di Shanti).
Non c’è tuttavia da illudersi che il processo interiore si svolga in una quiete senza tempo (cfr. Se venendo, in Alla ricerca di Shanti). L’aspettativa trascendente e globale della rinascita ad una vita universale si articola in mille rivoli di quotidianità di sentimenti e di attese, di agonie interiori e di risvegli spirituali (cfr. Agonia, in Alla ricerca di Shanti).
Il sottofondo emotivo si conforma però alla medesima ansia di totalità e di immutevolezza: come quando il bambino vive il tempo come fuori dal tempo e sembra di possedere la sua esperienza in una «sicura» immutabilità. La coscienza della contraddizione dell’essere – per cui il positivo si accompagna irreversibilmente con il negativo – si impone comunque, ed è a questo punto che scatta, consapevole e matura, la dinamica della speranza di riconquistare l’armonia universale, come in un’attesa del nuovo sole, nel ciclo delle variazioni:
Inizialmente, e solo apparentemente, intimistica, la progettualità della scrittrice si staglia, catapultata per forza obbligatoria, sull’orizzonte dei destini umani: o la terra riscopre la logica della realizzazione interiore di sé e la assume a criterio discriminante, come fine unico di ogni uomo e di tutti gli uomini, oppure continuerà a girare intorno ad un perno di autodisgregazione, in cui le illusioni appaiono massive verità (cfr. L’attesa sul mio Gange, in Alla ricerca di Shanti). Al fondo della sostanza di questo arrabbiato esistere della storia alla fin fine sono due, e solo due, le opposizioni radicali: da una parte la tracotanza dell’uccidersi a vicenda per miraggi storici, la lotta per l’arricchimento e per il potere che seminano morte, ovunque ci sia un figlio d’uomo, e che s’accaniscono contro l’inerme (cfr. Invocazione, in Alla ricerca di Shanti); dall’altra c’è la promessa di una vita liberata: parteciparvi vuole dire disarcionare il fardello di Caino, muoversi verso sponde in cui sovrana è l’unità tra tutti i figli d’uomo.
A esemplificare la pulsione omicida, a servizio del potere e della egemonia sugli altri – pulsione che può condurre anche al genocidio -, ricordo la lirica Disegni (ne La luce del domani), tragica e storica, in cui si parla della morte. Non si tratta di quella morte per cui ogni giorno si muore, in quanto in ogni momento si invecchia e la carne man mano deperisce, ma di quella, più dolorosa, per cui l’uomo calpesta e uccide l’uomo: quella dei bambini ebrei deportati da Praha, che nel 1941 “partirono” per non tornare mai più. Allora la voce dell’autrice si fa voce di silenzio che domanda il pianto, e che chiede che il mondo diventi migliore.
Ma che cosa è che fa sperare in una gioia più grande, in un mondo più dolce e bello? Può essere mai che la speranza sia da porre nella dialettica degli interessi che scavano tombe per gli altri e che le preparano per chi le scava a danno altrui? «Sciocchi esseri mortali», siamo! È questa, forse, 1’«intelligenza» umana?
Occorre invece liberarsi innanzitutto del proprio «bagaglio»: il nemico dell’uomo è dentro di lui.
[Francesco di Ciaccia, Presentazione di Wilma Minotti Cerini, La luce del domani e Alla ricerca di Shanti, 23 novembre 1993, Casa della Cultura, Milano]
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