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Umiltà e morte nel “Frate Francesco” carducciano

«Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto, i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
                            Dante ed Aroldo»[1].

Una delle risonanze del «fatto» cristiano è costituito, nel Carducci, dalla suggestione di Maria e di Francesco d’Assisi. In un raffronto testuale, è possibile scorgere in che senso e perché sboccia nel «pagano» un sonetto mirabile come quello di Santa Maria degli Angeli.

Quando il Carducci scrisse La chiesa di Polenta, felicemente salvata da un progetto di abbattimento nel 1890, era stimolato dal consueto amor per l’«Itala gente da le molte vite» v. 37), dalla glorificazione per i grandi spiriti d’Italia, fra cui l’Alighieri che, forse, in quel tempio «inginocchiossi» (v. 25). Anche «la voce / de la preghiera» (vv. 108-109), «la campana […] ammonitrice» (vv. 109-110), che l’autore invita a cantare «di clivo in clivo a la campagna» (v. 111), insomma, la «chiesetta del mio canto […] questa / madre vegliarda» (vv. 105-106) non dimostrano il senso religioso del Carducci. Resta incerto il significato fra la «madre» chiesa e la «madre» Italia, di cui la chiesa potrebbe rappresentare solo un simbolo, un significato.

Il finale de La Chiesa di Polenta trasporta il lettore in un clima tenue:

«Un oblio lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar di quiete,
una soave volontà di pianto
l’anima invade» (vv. 121-124).

È l’atmosfera dei brani più intimi e rievocativi di Davanti San Guido, di Sogno d’estate, in cui l’autore ritorna alle ragioni della morte, di chi «dorme presso ne l’erma Certosa». È una presa di coscienza non di colui che teme, ma neppure di colui che crede; ma di colui che pensa e non ha paura di contraddirsi, in quel silenzio interiore in cui

«Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo ‘l tramonto ne l’azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
Ave Maria» (vv. 125-128).

La nitidezza del paesaggio, consueta al Carducci, e i vertici delle piante, che ricordano quelle di Bòlgheri, che cosa dicono al poeta? «Un pover uom tu se’»[2].

È questa la corda interiore in cui crediamo suoni non un equivoco ricordo di fede, ma una sicura convergenza cristiana, se non altro come istanza del senso più vero e genuino dell’umiltà creaturale e «fraterna» insegnata da «Frate Francesco».

Se l’«Ave Maria» della campana de La chiesa di Polenta può sembrare prima di tutto una seduzione lirica, o al massimo una fascinazione emotiva, come del resto quel «giorno di festa» in cui «ne la chiesa lombarda il dì scendea», come quel «mese di Maria pien di fior»[3], al contrario l’umiltà del saluto dei «piccioli mortali» è un’affermazione, più che suggestiva, convinta. È scarna e modestamente dura. Né è ironica o polemica: poiché «scovrono il capo, curvano la fronte» anche «Dante ed Aroldo».

La dimensione religiosa non consiste, allora, soltanto nelle cerimonie, non è più umiliata, dall’autore, da quei «ruggiti» che si elevano «in fra gli altari», da quei «boati de l’organo», dalla «pompa di broccati o d’ or»[4], ma si espande a congiungere i tempi e gli uomini «che furon, che sono / e che saranno»[5]. Questa «melodia […] / invisibil fra la terra e il cielo»[6] non è, forse, un coro di salvati, ma di uomini in genere, non di santi, ma di gente. Tuttavia essa resta l’unica dimensione cui è annesso valore e che, nella poesia con accenni mariani come è La chiesa di Polenta, contiene un accoglimento della coscienza creaturale. Ed è soprattutto quella che, nelle immagini poetiche, più si accosta alla figura del «Frate Francesco», piccolino e servo, di Santa Maria degli Angeli. Quando incontra quel frate, il Carducci scopre – per la cronologia delle composizioni, ha già scoperto – la gioia della coscienza creaturale, intravvede l’umiltà perfetta della gioia nel dolore[7].

L’aspetto «vivamente umano»[8] di San Francesco attrae le intime fibre del Carducci, quell’aspetto che non avvinse neppure il ben più travagliato Leopardi, cui forse mancò l’umiltà della coscienza creaturale.

Abbiamo dovuto premettere questi rilievi per poter capire il «Frate Francesco» carducciano, amico di Dio ma anche amico dell’uomo, uomo di gioia ma anche di stupenda gioia; quella di un uomo che muore. Giustamente il Bourget afferma che, se «nessun uomo visse più estraneo di lui [Francesco] a tutto ciò che fa l’orgoglio della società moderna», nessuno più di un uomo «inoffensivo e puro» ha potuto far capire il «beneficio dell’universo»[9], e, aggiungiamo noi, nel Carducci soprattutto il bene del dolore e la «fraternità» della morte.

L’inizio di Santa Maria degli Angeli risponde all’ammirazione del poeta per quell’architettura che rappresenta il segno della grandezza italica. «I templi di Maria e di Francesco sorgevano per le Città d’Italia spingendo al cielo le arcate […] come aspirazioni delle anime all’infinito», dice il Carducci[10]. Questo è vero. Ma se «Sorgono e in agili file dilungano / gl’immani ed ardui steli marmorei», e «le arcate salgono chete, si slanciano»[11] si che «tant’ala di secolo lambe»[12], il Carducci non chiede Dio agli «steli marmorei», non cerca quel Cristo, in essi, che «di tristizia l’äer contamini», dice il poeta[13]. Infatti, «[…] i cieli splendono, ma i campi ridono, / ma d’amor lampeggiano / gli occhi di Lidia»[14].

Altrove, però, riscontriamo ancora un altro atteggiamento, che ci avvicina di nuovo alle ragioni di Santa Maria degli Angeli.

«[…] In vesti rosse
Traggono le alpigiane, Abbondio santo,
A la tua festa; ed è mite e giocondo
di lor, del fiume e degli abeti il canto»[15].

Qui non c’è solo il suggestivo incanto della natura, consueto al Carducci; c’è anche un ambiente paesano. C’è l’ambiente umile. L’aggettivo «mite» inquadra tutta la festa in una colorazione di semplicità, e in qualche modo di umiltà. Incalzeranno indubbiamente in tale raffigurazione i ricordi infantili; ma ciò non basta a spiegare la domanda seguente:

«Laggiù che dire de la valle in fondo?
Pace, mio cuor; pace, mio cuor»[16].

Del resto, è proprio su questo bisogno che i ricordi stessi si concentrano, e traggono ispirazione e senso.

Eco petrarchesca, ovviamente senza l’autocompiangimento del medioevale in crisi; ma, qui, non c’è la maledizione carducciana contro il «cruciato màrtire»[17] di In una chiesa gotica. C’è, anzi, il «giocondo canto».

È solo la città di Assisi, è solo la «bella cupola del Vignola» a infondere simile, e più attento e profondo, bisogno di pace nel sonetto Santa Maria degli Angeli? Noi non lo crediamo.

La poesia fu scritta nel 1877, dopo il soggiorno del poeta in Assisi, in luglio e in ottobre, per ragioni ministeriali, come commissario di esame di stato. «Qui il paese è veramente bello […]. Fui ad Assisi: è una gran bella cosa, paese città e santuario, per chi intende la natura e l’arte, nei loro accordi con la storia, con la fantasia, con gli affetti degli uomini»[18].

Ma l’attenzione del Carducci è diversa in Santa Maria degli Angeli da quella per le «fantastiche torri del Santo»[19]. Anche nelle poesie Nel chiostro del Santo sono notate le «cupole», «sonito / di mondo lontano» «tra le arcate che abbraccian le tombe» (vv. 4 e 8-10); anche qui la riflessione corre tra l’infinito e il finito, quasi leopardianamente: «fuggon l’etadi brevi degli uomini» (v. 4). Ma gli occhi son «smarriti», e il poeta si chiede: «che vuol l’infinito?» (vv. 15-16).

La tensione di Santa Maria degli Angeli è, invece, totalmente fuori dallo smarrimento, fuori da ogni segno di dubbio.

«Nudo, giacesti su la terra sola!».

La «cupola del Vignola» costituisce, sintatticamente, la proposizione principale; ma, sostanzialmente ed affettivamente, rappresenta solo la cornice. Essa è il luogo che contiene l’implacabile. Essa è l’ambiente che costituisce il gesto meraviglioso: la morte dell’umile.

«Nudo giacesti su la terra sola!».

La poesia inizia con «Frate Francesco», e termina nella prima strofa con la sua definizione: «nudo», in «terra».

Strano che il difensore delle bellezze naturali, anche contro il sadomasochismo cristiano, non incontri un Francesco giullaresco: un frate che canta lodi per il sole e per le stelle, un santo in mezzo al cinguettio degli uccelli. È strano che il Carducci non incontri un Frate Francesco più o meno tradizionale. Eppure, sarebbe stato diplomatico unire il sacro al profano (sempre secondo una troppo facile «tradizione» a volte fuorviante, comunque non sempre lucida rispetto all’amore di Francesco per le cose). Diplomatico, e anche lusinghiero ed agevole.

Invece, il Carducci incontra un agonizzante («a l’agonia»), con le braccia incrociate. Poeti mistici l’avevan visto preferibilmente trafitto dal crocifisso; poeti intimistico-romantici lo avevan colto araldo della «fratellanza» più o meno universale. Il Carducci lo sente nel momento biografico, e spirituale, più inopportuno per un semplice poeta: nello scandalo della morte gioiosa, scandalo persino per il ministro generale frate Elia[20].

«E luglio ferve». Così inizia la seconda strofe. Ugualmente «ardea» il luglio della poesia LXXI, v. 1 di «Rime Nuove»; la gente lavora «nel pian», nel «canto» che «vola» fra terra e cielo in un giubilo «d’amor». Ma in Santa Maria degli Angeli non c’è solo questo, non c’è tanto l’entusiasmo panico per l’Umbria bella. C’è, piuttosto, questo:

«[…] che una traccia
Diami il canto umbro de la tua parola».

La parola umbra è di soavità ma fa soltanto da tramite verso la parola «tua», è strumento per comprendere la «tua» parola di soavità.

«L’umbro cielo» è bello, ma
«L’umbro cielo mi dia de la tua faccia!».

Ora, abbiam visto che la «faccia» di questo frate è quella dell’agonizzante, e perché il poeta vuol vedere questa «faccia»?

È la faccia di un agonizzante strano. Il paesaggio della terza strofa di Santa Maria degli Angeli è, come quello di Sant’Abbondio, «mite»:

«Nel mite solitario alto splendore».

È in tale cornice che l’autore vuol vedere la faccia del frate.

Si sviluppa poi un crescendo di concitazione, sia pur pacata, tra «l’orizzonte del montan paese» e le «porte» del «paradiso» divino, e il tutto lascia prevedere un’apoteosi di smagliante glorificazione. Francesco, iconograficamente «dritto», le «braccia tese» ‒ all’inizio dell’ultima strofe ‒, potrebbe, almeno adesso, apparire il Santo di Assisi consueto, giubilante in mezzo ad uccelli e inneggiante sotto il sole, sotto la luna e le stelle. E invece, il «Cantando a Dio» del penultimo verso ha questo contenuto:

«Per nostra corporal sorella morte!».

È strano questo Carducci che ha visto, nell’inno A Satana, «ghiacciato […] il fulmine / A Geova in mano», che ha avvertito il monaco: «invan ti maceri / Ne l’aspro sacco» ed ha annunciato: «Dal chiostro brontola / La ribellione»; strano che veda qui, senza neppure il sacco, uno, per «terra», che trionfa, uno che trionfa lodando Dio per la «sorella» meno sorella che un «pagano», lui, possa immaginare.

Allora, leggiamo la pagina del Celano che difficilmente poté essere ignorata dal Carducci che si riprometteva di scrivere «due o tre» poesie su Francesco[21]. Il Celano descrive il Santo, vicino a morire, proprio con le mani incrociate, per benedire frate Elia: «Che tu possa trovare qualunque benedizione desideri e sia esaudita qualunque giusta domanda». Poi Francesco, non senza meraviglia di qualche discepolo, invitò tutte «le creature alla lode di Dio»[22], e quindi disse: «Chiamatemi i fratelli Angelo e Leone, perché mi cantino di sorella morte»[23]. Ordinò che, sul punto di morire, fosse sepolto nudo sulla terra, e che fosse lasciato così «per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio»[24].

Se quest’ultimo particolare non compare nel sonetto carducciano ‒ e non è cosa strana, visto che neppure cattolici e poeti religiosi hanno colto la straordinaria grandezza di quella delicatissima discrezione nell’amore per l’umiltà evidenziata dall’ultima disposizione di San Francesco ‒ tuttavia vi compare lo spirito, in quell’accenno tagliente ma discreto sulla lode per la «sorella morte».

In effetti, contro l’impressione per cui il sonetto potrebbe apparire sollecitato dalla soffusa dolcezza paesaggistica umbra, ed il Santo essere elemento solo «letterario» ed estrinseco al sentimento lirico, stanno alcuni dati che si impongono. Non tanto il «Frate Francesco» iniziale, facile esordio per una poesia sull’Assisiate, quanto il radicale riferimento alla figura del Frate stesso. Potremmo dire che il paesaggio si «francescanizza» anch’esso. Ma la sororità della natura non appare sospetta comunque, quando essa è vista nella morte.

Certo, quell’aggettivo possessivo in seconda persona, nel «tuo paradiso», riferito al Santo, sottende un qualche distacco, come se l’autore lo contemplasse dal di fuori, come qualcosa di un altro. Potrebbe invece essere un distacco anche di umiltà, come se l’autore non si sentisse degno del «paradiso» di lui, di quel Frate la cui «faccia» egli chiede di contemplare, almeno come in una «traccia», ma che in fondo confessa di non aver ancora conosciuto. Se è così, non sarebbe francescano, ma neppure decente, parlare del mio, o nostro «paradiso in su le porte».

L’umiltà, dunque, o per lo meno la «mitezza», si riversa su tutto il contesto geografico, fino all’orizzonte del «montan paese». Ma l’intero sonetto è senza sfoggi retorici o di forma, e senza sforzi celebrativi o di dottrina, della quale pur non era digiuno il Carducci, come dimostra una sua nota ad un’altra poesia, La chiesa di Polenta. Altri poeti, di ben diversa tempra ma d’altra parte di ispirazione cristiana, hanno cantato in «Santa Maria degli Angeli» la «soave / dominatrice della umbra vallata»[25], la «immacolata pace» che disserra «per malia divina arte». Il testo in questione, ad esempio, ricorda la Basilica «cantata / dal poeta pagano!». Ma, a nostro avviso, ci pare difficile trovare in otto secoli una poesia più francescana di quella del «pagano» Carducci, naturalmente fatta eccezione per quelle dei massimi poeti quali ad esempio Dante, Iacopone, Tasso, Pascoli.

Una poesia scritta da penna credente su «Santa Maria degli Angeli» definisce la «Porziuncola» «rude» e «pia», e la ricorda accogliente «frate Francesco […] / nell’ultima dolce agonia»[26]. Il Carducci non si permette chiamar «dolce» l’agonia. La morte o richiama terrore, o esige forte accettazione. La «lode» per «sorella morte» è cosa diversa che per la «dolce» morte.

Nel sonetto Dante[27], il Carducci rifiuta l’ascesa dell’«amante sacro» accompagnato da Beatrice, che «in vano sale a Dio di stella in stella» (vv. 7-8), e fa sapere che «per me Lucia non prega e non la bella / Matelda appresta il salutar lavacro» (vv. 5-6 ). In Santa Maria degli Angeli, Il Carducci anela alla «faccia» del frate, e vuole vedere lui che va «cantando»: «Laudato sia, Signore», «Per nostra corporal sorella morte».

In Dante, «muor Giove, e l’inno del poeta resta» (v. 14). Con «Frate Francesco», muore invece il poeta, e vive lui, Francesco, implacabile cantore di Dio anche in morte e per la morte:

«Ti vegga io dritto con le braccia tese».

In Santa Maria degli Angeli il Carducci muore nella «terra sola», nuda, della povertà di un grande: povertà che non è rito, perché è fede. È umiltà, e non è posa: perché è gioia.

In effetti, ciò che resta, immortale, è quel «Frate», «dritto», in piedi «su l’orizzonte del montan paese», ed il suo «cantando a Dio». Il Carducci miscredente, o «misocristiano», come diceva Enrico Santoni, ha colto in realtà il significato della povertà, ed anche della letizia nell’ora della morte, di quel frate che è Francesco: «Io, frate Francesco, piccolino e servo […], secondo il beneplacito […]». Se non lo avesse colto nel senso giusto, lo avrebbe vilipeso come vile frate, per la rinuncia alla dignità, alla virilità e all’autonomia dell’essere umano. E l’unico senso del frate, perché non fosse disprezzato dal Carducci, non restava che questo: la povertà del cuore in coinvolgimento «creaturale» con il mondo tutto e in libertà totale nella gioia.

Alla rappresentazione della dipartita di San Francesco fa contrasto, nel Carducci, quella di un altro, un grande, Martin Lutero. Il poeta lo celebra, con convinzione, come colui che «scelse Gesù Cristo duro ed austero», come colui che «di fortezza i lombi suoi precinse / E di serenità l’alto pensiero»; «A lui d’intorno il popol suo cantava» un canto «pien d’avvenire»[28]. Ma il grande combattente sospira:

«Signor, chiamami a te: stanco son io:
Pregar non posso senza maledire»[29].

In Martin Lutero c’è l’amato fustigatore del papa – che anche il Carducci «maledì» fino alla «conciliazione» de Il canto dell’amore del 1877 –. Ma Lutero – si sente – non tocca le corde del poeta: colpisce la mente del polemista.

Tutti posson maledire. Benedire, pochi. E, pochissimi, benedire senza debolezza. La gioia del Frate carducciano è il segno della fortezza. Carducci non era il tipo che apprezzasse le benedizioni lacrimose. Seppe apprezzare l’accettazione: ma quella, che è della massima fortezza, quella dell’umiltà dolce e seria di «Frate Francesco». E non fu solo lui, il Carducci «pagano», a non saperla imitare.

Tale apprezzamento non manca di un terreno accogliente:

«E dimani cadrò […]
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine»[30].

Quello che cercava: «Pace, mio cuor; pace, mio cuor»[31], sembra che il poeta l’abbia visto, almeno per un attimo estetico ed estatico, qui, in lui, «Nudo su la terra sola»,

«Cantando a Dio – Laudato sia, Signore,
Per nostra corporal sorella morte –».

È quella stessa «terra» che, in Pianto antico del 1871, era «terra fredda», era «terra egra»: una terra che ha fatto comprendere al Carducci la morte. Qui, con «Frate Francesco», egli ne capisce l’amore.

Francesco di Ciaccia, Umiltà e morte nel “Frate Francesco” carducciano, «L’Italia francescana», 5 (1982) pp. 561-569.


Note

[1] G. Carducci, da «Rime e Ritmi», La chiesa di Polenta, vv. 113-116.

[2] Da «Rime Nuove», Davanti San Guido, v. 26.

[3] Da «Rime Nuove», LXXI, vv. 1 ss.

[4] Ibidem, vv. 8 ss.

[5] La chiesa di Polenta, cit., vv. 119-120.

[6] Ibidem, vv. 117-118.

[7] G. Soretti, Influssi francescani nella poesia moderna, in «Frate Francesco», I, genn.-febb., III (1926) p. 19: «perenne speranza che nel dolor ride».

[8] B. Santoni, San Francesco nella moderna poesia italiana, in «Frate Francesco», IV, ott.-nov.-dic., I (1924) p. 355.

[9] Sensation d’Italie, in T. Nediani, La fiorita francescana, Milano 1921, pp. 406 ss.

[10] A. Marchetti, San Francesco in Dante, Carducci e Pascoli, in «Cenobio», I, 10, dic. 1952, p. 11.

[11] Da «Odi Barbare», In una chiesa gotica, vv. 1-2 e 6. Cfr. anche da «Rime Nuove», Fiesole, vv. 9-11: «Ma dal clivo lunato a la pianura / Il campanil domina allegro, come / La risorta nel mille itala gente».

[12] Da «Odi Barbare», Nella piazza di San Petronio, v. 5.

[13] In una chiesa gotica, cit., v. 54.

[14] Ibidem, vv. 55-57.

[15] Da «Rime e Ritmi», Sant’Abbondio, vv. 8-11.

[16] Ibidem, vv. 12-13.

[17] Ibidem, v. 14.

[18] Chiarini, Memorie di Giosué Carducci, in Antologia Carducciana, Bologna 1907, p. 53.

[19] Da «Rime e Ritmi», Nel chiostro del Santo, v. 4.

[20] Specchio di perfezione, XII, 121.

[21] Vita Seconda, CLXII, 214. Cfr. anche Vita Prima, VII, 108.

[22] Vita Seconda, CLXIII, 217.

[23] Leggenda perugina, 100; Specchio di perfezione, XII, 123.

[24] Tommaso da Celano, Vita Seconda, CLXIII, 217.

[25] Ad esempio, Elda Gianelli, in La fiorita francescana, Bergamo, s.d., in realtà 1926, p. 243.

[26] M. Falcinelli Antoniacci, in La fiorita francescana, cit., p. 239.

[27] Da «Rime Nuove», XVI.

[28] Da «Rime Nuove», Martin Lutero, vv. 5 ss.

[29] Ibidem, vv. 13-14.

[30] Da «Rime Nuove», Traversando la Maremma toscana, v. 11 e v. 10.

[31] Sant’Abbondio, cit., v. 13.

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