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Natura morta

A breve distanza da “Affari di cuore”, un libro di poesie limpido e disarmante perché assolutamente “indifeso”, esce una nuova raccolta di Paolo Ruffilli, Natura morta. Importante nel lavoro di questo poeta perché viene a costituire un momento di autoriflessione e di ridefinizione del proprio territorio, quasi una dichiarazione di poetica. E infatti in appendice alle poesie contiene uno scritto teorico, in cui Ruffilli parla della sua poesia. Lo fa tuttavia nello stile che gli è proprio: non dichiarazioni di principio, ma uno sguardo sulla propria scrittura “nel corso del tempo”, non una pausa di riflessione ma un trattamento verso la propria scrittura simile a quello che egli fa verso le cose: un calare nella “camera oscura”, un guardare controluce le parole, le cose.

La poesia di Ruffilli è priva di orpelli, mite, essenziale. Non tragga ciò tuttavia in inganno: la mancanza di supponenza, la secchezza del tono disvelano sistematicamente una poliedricità di rimandi, in una ricchezza di presupposizioni sapienziali che talora necessita, per essere colta, di più letture. E l’osservazione disincantata dei fili, tesi e apparentemente rigidi, costringenti e costretti, della realtà, si apre frequentemente a varchi in cui attingere all’ulteriore, al non riconducibile a logica, al “miracolo”. Ben si attaglia a questa prospettiva una filosofia peraltro anche citata, quella del taoismo, del “libro della via e della virtù” di Lao Tzù. Che induce a un costante spiazzamento, a un ripetuto sbugiardamento delle conquiste della nostra percezione per indurci ad una ulteriore diversa intuizione. E per farci finalmente cogliere il “principio di contraddizione” (in chiave perfettamente anti-aristotelica) come istanza fondativa della realtà, o almeno del nostro tentativo di decodificazione: “Ha filamenti lunghi | la parola, | radiche e barbe nere | che pescano | nell’utero del tempo | tra le melme | di quel limo viscerale | che ha dato | soffio e corpo musicale | alle cose sconosciute | richiamandole così | come fuori da se stesse | dentro il ritmo cadenzato | di quel tutto tuttità | che è strabordante | fuoco liquido eruttato | dentro ognuna | singola entità”.

La laicità di questa prospettiva, e la rinuncia a ogni marchingegno tipico della borsa degli attrezzi dei poeti, non si risolve affatto in una rinuncia, e nemmeno, come nella tradizione novecentesca, in una negazione: al contrario questa poesia presuppone un atto di fede, l’affermazione dell’esistenza del mondo, la rinuncia al nichilismo. E il poeta ha sì un compito ordinatore, ma la sua azione deve tener conto della “resistenza delle cose”: non le domina, ma si impasta con esse, sì che il mondo come noi lo vediamo e come lo riconosciamo è la risultante di questa azione complessa, di questa miscela di parole e di cose, di pensieri e di azioni.

Davanti ai quali la perfetta sintesi è la voce che grida nel silenzio: ”la voce che grida | non parlando | nel deserto | e dando nome | a ciò che è assente”.

E dunque non c’è alcuna rinuncia, ma una più consapevole e pacata adesione al compito storico del poeta, di svelare l’anima del mondo: “Per quale mai spiraglio | gola cunicolo pertugio | strappo o taglio | riaccendere il suono | perduto dall’udito, | da quale bordo mai | dell’infinito | riconquistare al gusto | all’occhio al naso al tatto, | nel cono d’ombra | nel retroscena | dentro il fondo, | l’archetipo matrice | l’anima del mondo?”.

Negli “appunti per una ipotesi di poetica” molti sono gli spunti stimolanti. Qui mi limito a segnalarne due. L’affermazione che il poeta scrive per sé, non per il pubblico, e dunque la distanza da ogni ammiccamento, da ogni strategia, da ogni trucco foriero di popolarità: “io sento la poesia come un dettato che sfugge a qualsiasi strategia comunicativa”.

E l’affermazione che il “minimalismo”, o – come fa nelle ultime poesie della raccolta – il parlare di tisane, di cibi, di sonni e di altre funzioni corporali – non è affatto una rinuncia alla prospettiva più alta, a dire delle cose ultime: “penso sempre più di affidarmi alla legge dell’inversamente proporzionale, per cui il grande è attingibile nel piccolo, nel semplice, nel tono sottovoce, smorzato, chiaroscurale del linguaggio, nelle sue sacche interne e mediante il quale soltanto il sublime, a cui non rinuncio, è davvero pronunciabile”.
Recensione
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