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Ultima fermata
Il detto e il non detto nei versi di Fabio Dainotti
poetrydream
Dalla nebbia dei ricordi riaffiorano immagini, visi, sguardi. Nei testi di
Ultima fermata di Fabio Dainotti tutto è così tremendamente lontano, ma anche
così tremendamente vicino, e in un certo senso ancora palpitante di vita.
Sembra quasi di poter allungare una mano e di poter toccare gli oggetti
descritti, quel libro letto in silenzio, quel fiore spuntato all’ombra di un
albero, quegli ombrelli venduti con il vecchio amico dalla lunga barba, andando
in giro su quel furgone dal colore ormai indefinibile. Così come sembra di dover
sentire da un momento all’altro le voci dei personaggi delle brevi storie in
versi contenute nella raccolta, il Marco, la Carla, oppure il subdolo venditore
di libri, oppure la giovane operaia, oppure la grande madre che aspetta il
figlio, vestale minuta in gramaglie, laggiù in cucina. Questi sono i
protagonisti di un mondo minore, di una realtà fatta di piccole lotte e di
ingenue speranze, che l’autore osserva con disincanto e che descrive con il suo
sorriso amaro.
I colori dei paesaggi, i rumori delle strade, i profumi, le attese, le partenze,
i tradimenti, tutto è accaduto, e tutto torna nuovamente ad accadere, ogni volta
che viene raccontato, come in un tempo senza tempo, come in un tempo che si
ripete all’infinito.
I sentimenti vissuti una volta, oggi sono rimpianti, e le antiche ferite ancora
non si sono rimarginate, e forse questo non accadrà mai. Non è facile leggere
Fabio Dainotti, le assenze sembrano più importanti delle presenze e il detto
sempre più spesso lascia il posto al non detto, così come la luce lascia il
posto alle ombre. Le parole si perdono in una dimensione indefinita, in una
sorta di labirinto della coscienza, ciò che sembra passato invece è il nostro
presente, e il nostro presente diventa anche il nostro futuro.
E così poco per volta il vuoto si riempie della nostra stessa tristezza, dei
nostri vecchi dolori, della nostra memoria, e della nostra voglia di tenere
stretti tra le mani quei ricordi, ma allo stesso tempo di lasciarli cadere.
Della nostra voglia di restare, ma anche di fuggire.
Nei versi di questa raccolta (ma in generale nei versi del nostro poeta) c’è
grande attenzione per i particolari, un’aiola verde a Vimercate, il verde
biliardo, il sole maliardo, il giornale sportivo sul tavolo, il tram che
scompare tra le foglie rosse e gialle, il vialetto ghiaioso di Villa
Malcontenta.
Sono dettagli, ma non sono solo dettagli. Per l’autore e per noi che leggiamo
rappresentano molto di più. Sono le piccoli grandi cose di un mondo che è stato,
di un mondo oramai confinato nel ricordo, al quale noi oggi guardiamo ancora con
stupore. E nel miscuglio di sensazioni che restano, terminata la lettura di
Ultima fermata, questa forse è quella che poco per volta prende il sopravvento.
C’è una poesia, tra le prime della raccolta, che racconta l’importanza di quel
tempo. Si andava ‘Da Gisella’, nelle sere d’estate, in Franciacorta,a sentire il
juke-box, un cerchio di splendore e intorno l’ombra. Erano gli anni Sessanta.
La nostalgia, quindi, è la nostra vera compagna. E si tratta di un dolore
sottile, quasi impercettibile, che rimane sottotraccia, ma che non ci abbandona
mai, dovunque noi andiamo, come fanno intendere questi versi: uno sguardo
d’intesa, una parola smozzicata, tra una sigaretta e un bicchiere, sempre
l’ultimo, quello della staffa. Oppure questi altri versi: ora è finita, eppure
credevamo (o forse io credevo) il nostro breve amore imperituro.
Le poesie di Fabio Dainotti parlano alla parte più profonda di tutti noi. La sua
voce e la nostra si sovrappongono, e infine si confondono. Le sue domande
sembrano le nostre domande e le sue non risposte sembrano proprio le nostre non
risposte.
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Recensione |
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